Per tante persone, la città è il mondo, e il mondo si concentra nella città. Da circa dieci anni la popolazione mondiale abita in modo maggioritario nelle città. La terra, nel suo insieme, è diventata urbana. Ma l’influsso delle città non ha smesso di crescere. Le forme di vita urbane permeano la cultura globale, che si crea nelle città e si diffonde dalle città. Non sono soltanto i territori vicini geograficamente alle città quelli che restano attaccati ad esse, ma anche i territori più lontani che integrano forme di vita che si rifanno alla cultura urbana globale. La terra si urbanizza mentalmente ma anche numericamente: cresce il territorio urbano che di fatto accoglie i nuovi “cittadini”, proveniente dalle zone rurali o da altre città più piccole, e cresce soprattutto la quantità di persone che nascono nelle grandi città e nelle sue periferie. Il futuro passa per le grandi città –quelle che hanno una popolazione al di sopra di 5-6 milioni di persone. Le grandi città sono diventate i polmoni dell’era globale.
Sempre di più, la globalizzazione spinge le persone verso la città, dove ci sono possibilità di lavoro, servizi di educazione e di salute, iniziative e creazioni culturali. Ma la città non è affatto omogena. Al suo interno ci sono diversificazione di territori urbani con immaginari simbolici precisi. Si tratta di quello che Papa Francesco chiama le “città culturali invisibili” (Evangelii Gaudium 74). Queste “città” dentro la città partecipano di comportamenti e modi di agire collettivi ma allo stesso tempo hanno delle particolarità proprie che le fanno a volte impermeabili. L’emersione di queste “città invisibili” significa che la città si frammenta e si entra in una cultura dominata da una categoria comune: le scelte che ognuno fa. I cittadini vogliono scegliere, e così facendo crescono i sentimenti individualisti. L’”io” si afferma all’interno di un “presentismo” –per dirla con De Rita–, che tralascia categorie così nodali come “storia” e “futuro”. Non c’è domanda sul passato né preoccupazione su quello che avverrà. Ogni presente, piccolo o irrelevante che esso sia, diventa un momentum quasi epocale.
Tra la piccola o grande tribù in cui il cittadino si rifugia e, dall’altra parte, l’insieme della città si apre uno spazio di “desolazione”. La radice “sol-” del termine “desolazione” lo collega con un altro termine, “solitudine”, la ferita par excellence dell’uomo della città. È vero che grazie all’appartenenza ad una o diverse tribù e grazie alle diverse forme di aggregazione di massa –quelle sportive o quelle consumistiche ne costitusicono l’esempio più evidente–, l’uomo della città trova una certa collocazione nel tessuto urbano, ma la solitudine diventa spesso la sua “compagna di viaggio”. L’esperienza della solitudine è causa e conseguenza dello spaesamento che caratterizza l’uomo urbano. Infatti, come sottolinea il sociologo Manuel Castells, la città suscita molte opportunità e copre bisogni essenziali, ma allo stesso tempo è il luogo dove sorgono forme di deterioramento della vita e di disumanizzazione. Papa Francesco scrive che la città produce “una sorta di permanente ambivalenza... offre ai suoi cittadini infinite possibilità... (ma) appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti” (Evangeli Gaudium 74).
L’era globale costituisce un invito perché la città non sia soltanto una grande “fabbrica” di servizi e lavori di ogni tipo e condizione. Occorre che la città si ponga la domanda sul suo tessuto umano, cioè sulla sua anima, sulla sua condizione spirituale. La città è diventata un mondo-città, in cui emerge un sistema di riferimenti: geografici, culturali, simbolici. La città è dunque una realtà viva e vivace, un corpo con molte articolazioni, che si addormenta e si sveglia, che impaurisce o si rallegra. Ma parla sempre. E occorre ascoltare i linguaggi che percorrono le strade e le piazze, i palazzi e gli uffici. La città, come diceva il poeta catalano Joan Maragall riguardo a Barcellona, è una “encisera”, una seduttrice, attraente ma anche misteriosa e ambigua.
C’è però un’altra immagine della città: quella di una madre al cui petto succhiano tanti figli e si saziano delle sue consolazioni (cfr. Isaia 66,10-11). Ma nell’immaginario del profeta Isaia, Dio è anche una madre che consola i suoi figli proprio nella città: “in Gerusalemme sarete consolati” (v. 13). Le Scritture ci offrono un’immagine materna e riferita alla città di Dio, quella in cui Dio abita e si manifesta, accanto e in mezzo ai suoi figli e figlie. Infatti leggiamo in Apocalisse 21,3 riguardo alla città santa, la nuova Gerusalemme: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il ‘Dio-con-loro’”. In questo versetto della fine della Bibbia troviamo la doppia identità e dunque la doppia sfida della città nell’era globale: essere la dimora di Dio fra gli uomini ed essere veramente un popolo. Collocarsi di fronte alla città significa guardarla in modo contemplativo, come Gesù fece tante volte con grande misericordia, anche con le lacrime agli occhi trascinato dall’amore per essa.
Accogliamo la prima sfida: la città come dimora di Dio. È doveroso citare ancora Papa Francesco che dice: “Dio abita nella città, tra le sue gioie, desideri, speranze, così come tra i suoi dolori e sofferenze” (Documento di Aparecida 514, ripreso in Evangelii Gaudium 71). Nella città cresce un’ umanità che vive in modo conflittuale. I quartieri benestanti situati nel centro oppure isolati e ben protetti lontani dal centro, si incrociano con le periferie e le borgate di gente bisognosa, che mancano delle cose necessarie per vivere in dignità. Ma i quartieri benestanti non sono necesariamente i quartieri “felici”. Anzi, tanto spesso la felicità ha poco a che vedere con le risorse economiche, ed è sovrastata dalla solitudine e dalla paura. Le periferie, dal canto loro, sono abitate da persone che ugualmente conoscono la ferita del restare da soli e la paura di non farcela in una vita piena di ostacoli. In questo quadro bisogna affermare che Dio abita nella città, e quest’affermazione introduce una luce che richiama la maternità e la misericordia. La città può scoprire la sua condizione materna se tratta i suoi cittadini come figli e non come utenti di servizi pubblici o come consumatori di beni acquistati nelle sue nuove cattedrali, i centri commerciali che scandiscono le strade che entrano nel recinto urbano.
La città dell’era globale, ogni volta più enorme e spaesata, corre il rischio di perdere l’anima, e perciò i rapporti tra coloro che la abitano devono essere animati da uno spirito di profonda umanità –quello spirito che batte dietro la frase biblica “Dio abita nella città”. Questa è la chiave di volta del futuro delle civiltà umane. Come dice Andrea Riccardi, la sfida è la globalizzazione spirituale, non quella economica (il mercato unico) o quella politica (una sola governance mondiale) o culturale (tre o quattro lingue dominano il mondo) o tecnologica (un solo sistema che connetta tutto a tutti). La città globale diventerà una vera casa per i suoi abitanti quando lo sguardo dei cittadini, gli uni verso gli altri, si volgerà nei termini della maternità e della misericordia. Allora si potrà dire che la città ha un’anima. E la città avrà un futuro, al di là dei mali che possono affligerla, particolarmente la violenza, che è la lebbra della città globale.
La seconda sfida riguarda la contemplazione della città come popolo. Vista dall’alto –da un aereo, ad esempio–, la grande città sembra uno spazio inafferrabile, un mantello edilizio, più o meno organizzato, che si protende in tutte le direzioni. Le persone non si distinguono dall’alto. Si intravedono soltanto i mezzi pubblici e le macchine, e di notte il tappeto delle luci. Ma la vita bolle nel cuore della città, e quando la si vede da più vicino, si capisce che lì c’è una vita umana che si confonde con la vita urbana. La città è una grande piazza, un’enorme agorà, un formidabile luogo di incontro e di incontri, uno spazio privilegiato. Questo spazio è abitato non da una massa di essere umani ma è percorso da un popolo, non è una grande tana o un enorme nido ma è piuttosto un grande albero che fa ombra e protegge dal sole le persone che ne sono cittadini. Sia “i luoghi” che i “non-luoghi” della città, seguendo la proposta di Marc Augé, non sono spazi vuoti o anonimi ma ambiti che devono accogliere tante persone. La città non è un gigantesco alveare, ma una casa comune abitata da un popolo.
Quest’affermazione comprende un progetto che non si può realizzare senza una visione larga sulla città. Ci troviamo in un momento in cui le reti delle città e delle nazioni sono entrate in crisi. Quello che contribuiva a unire persone, idee, speranze si è dissolto in modo veloce. L’era globale ha portato in pochi anni all’emersione di realtà identitarie che si controppongono tra di loro e che in molti casi sono segnate dall’esclusivismo più dreastico. Corrono parecchi “America first” per il mondo di oggi. Questo significa il trionfo del “local” sul “global”, della tribù sul popolo. Sovranismi e razzismi crescono, mentre la solidarietà diminuisce e si fa piccola. Nel frattempo, la città, che nella maggior parte dei casi si inserisce in una realtà nazionale più larga, subisce gli effetti negativi di questo ritorno al “local”. Anzi, si sente lacerata tra le spinte di chiusura nei confini nazionali e la sua vocazione all’allargamento degli orizzonti all’interno dell’era globale.
Ma di fronte alla divisione della città in tribu bisogna recuperare il concetto di “rete” e di “popolo”, che costituiscono l’alternativa ad una città triste e rassegnata. Una città divisa in tribù identitarie scivola verso lo scontro come forma di vita. Invece, una città che riprenda il suo tessuto umano e urbano, che dia coesione, articolazione e legami alla grande diversità che la costituisce, sarà in grado di ritrovare la sua anima. Le difficoltà sono enormi. Si direbbe che tante cose si oppongono ad una costruzione che deve confrontarsi con le forze che spingono in senso contrario. Ma se le città sanno resistere a queste forze e, soprattutto, se i suoi cittadini sanno progredire nella consapevolezza di essere popolo, di abitare sotto lo stesso albero, i movimenti di disintegrazione troveranno un argine potente.
Infatti la città è lo spazio umano dove si vive insieme: la dimensione urbana fa sì che si abiti gli uni accanto agli altri. Ma quando il vivere insieme diventa una cosa diversa –vivere gli uni contro gli altri – allora la città fallisce completamente. In altri termini, vivere insieme non è soltanto un dato acquisito dal momento in cui si abita in una città, neppure una necessità se si vogliono avere i vantaggi dei servizi comuni, ma è soprattutto una scelta, una decisione personale che cambia il volto della città. Diventare la città del convivere è il sogno che interpella ogni città che si ponga la domanda sulla sua anima, che comprenda cosa significa la globalizzazione spirituale. Questa è la nuova cultura che può transformare il tessuto umano delle città nell’era globale. Costruire una civiltà globale passa per la costruzione della città del convivere. Questa è la vera resistenza ai discorsi che vorrebbero cancellare l’umanità della vita e ridurre questo mondo ad uno scontro di civiltà, di nazioni e di persone.
In questa cultura del convivere, i poveri sono quelli che cambiano il volto della città: una città umana, avvolta dalla misericordia. L’uscita verso le periferie cancella le frontiere interiori della città. Queste frontiere non corrispondono al disegno divino originale, il quale cancella pure la distanza tra il cielo e la terra. Vivere nella città significa abitare nella città di Dio e degli uomini. Ma sono i poveri, le periferie, quelli che possono ricostruire la città e allontanare quel misto di paura, interessi e solitudine che rende la città cattiva e non libera. Prendendo spunto da Esodo 1,11, dove si ricorda l’oppressione degli israeliti in Egitto, affermiamo che occorre trasformare la città-deposito, quella in cui si è schiavi del lavoro imposto e forzato, che opprime ed obbliga ad arrendersi al dio mercato, ai potenti di questo mondo. L’alternativa è la nuova Gerusalemme, città in cui abitano i servi del Signore –i poveri come primi– ed è illuminata da Dio, il loro amico, con cui “regneranno nei secoli dei secoli” (Apocalisse 22,5).