16 September 2019 17:30 | Sala Ramón Gómez de la Serna, Círculo de Bellas Artes
Intervento di Jaume Castro
JAUME CASTRO
Cari amici,
è per me una grande gioia e un onore portare la testimonianza della Comunità di Sant’Egidio in questa tavola rotonda, condividere con tutti voi la testimonianza di solidarietà ed accoglienza ai rifugiati nel nostro incontro “Pace senza Frontiere”. Per molte persone, specialmente per i rifugiati che vogliono entrare ma trovano le frontiere chiuse, le frontiere possono significare violenza e morte.
Oscar e Valeria, padre e figlia, immigrati salvadoregni che affogarono nel Rio Bravo, nella frontiera tra Stati Uniti e Messico. Alan Kurdi, che affogò sulle spiagge della Turchia nel 2015 mentre cercava di arrivare in Europa con la sua famiglia. Blaise e 14 giovani africani, che nel febbraio di quello stesso anno morirono sulla spiaggia del Tarajal, mentre provavano a passare lo stretto della frontiera marittima di Ceuta. Sono tragedie annunciate che si sarebbero potute evitare, e che possiamo aggiungere alle oltre 38500 persone che dal 1990 hanno perso la vita cercando di arrivare nel continente europeo. Si tratta di uomini, donne e bambini che sono morti di speranza. Si, si continua a morire di speranza nelle rotte di immigrazione verso l’Europa e gli Stati Uniti. E’ necessario ricordare ciascuno di questi volti affinché non se ne perda il ricordo, perché non affondi la nostra umanità. La Comunità di Sant’Egidio, a Roma, sull’Isola di Lesbo e in molte altre città del mondo, ricorda tutti questi migranti nella preghiera “Morire di Speranza”. Poco più di un anno fa, parteciparono a questa preghiera a Barcellona 24 migranti che pochi giorni prima erano arrivati a Tarifa. Alain era uno di loro disse:
“Ringrazio Dio perché la mia storia ha un lieto fine. Quarantasette dei miei compagni non hanno potuto raccontare lo stesso. La vostra amicizia mi ha permesso di superare ciò che ho vissuto e soprattutto la preghiera mi ha dato la calma per continuare questo percorso”.
La preghiera sostiene la vita dei migranti e ci aiuta a fermarci davanti alla loro vita e non voltarci dall’altra parte. Per questo la preghiera è la prima opera della Comunità: l’ascolto del Vangelo ci ridona la speranza di un mondo più umano, dove creare nuovi spazi di solidarietà e amicizia. Ci spinge a costruire nelle nostre città quello che Andrea Riccardi ha chiamato “la civiltà del convivere”, perché nel mondo globale “vivere insieme sembra un destino inevitabile, ma non sempre è un’opzione che tranquillizza”.
Certamente vivere insieme è un destino inevitabile, però in molte persone l’immigrazione suscita inquietudine. Lo abbiamo visto negli ultimi mesi, un periodo pieno di paura e odio nei confronti dei rifugiati e dei migranti. Sentiamo accuse e si impongono decreti contro chi salva le persone in mare. Si dimentica la sofferenza e la morte dei migranti, si criminalizzano le organizzazioni di salvataggio, si chiudono i porti per impedire l’arrivo dei naufraghi violando il diritto marittimo e la stessa umanità.
Aiutare chi ha bisogno sembra ogni volta più difficile. Papa Francesco, molto sensibile alla condizione dei migranti, afferma che “la risposta alla sfida posta dalle migrazioni contemporanee si può riassumere con quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare...! e aggiunge. “Non è in gioco solo la causa dei migranti, non si tratta solo di loro, ma di tutti noi, del presente e del futuro della famiglia umana” (Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2019).
Ci troviamo difronte ad una richiesta di futuro e vita per tutta l’Europa e per la famiglia umana. Esiste la tentazione di sminuire la nostra civiltà cancellando la bellezza della solidarietà e la speranza di vivere insieme.
La Comunità di Sant’Egidio ha sentito la necessità di fare qualcosa e ha trovato una breccia che permette di entrare in Europa in maniera sicura e legale ai potenziali richiedenti asilo. I “corridoi umanitari”. Questi, oltre a salvare vite umane nel Mediterraneo, impediscono lo sfruttamento dei trafficanti, che lucrano su coloro che scappano dalla guerra, permettono alle persone in “situazione di vulnerabilità” (ad esempio, persone che sono perseguitate e torturate, famiglie con bambini, anziani, malati e invalidi) di entrare legalmente in territorio europeo con un visto umanitario. E inoltre, garantiscono la sicurezza sia per chi arriva in Europa (in aereo e non su di un gommone) sia per i paesi che li accolgono: Italia, Francia, Belgio e Andorra.
La novità più clamorosa di questa proposta di intervento è che arriva dal mondo della società civile e non prevede alcun costo aggiuntivo per lo Stato. Ad oggi, i “corridoi umanitari” hanno salvato da situazioni difficili e integrato 2669 persone. La maggior parte provenivano dai campi di rifugiati del libano, ma 498 erano in campi per rifugiati dell’Etiopia, dove si trovano i rifugiati del Corno d’Africa e di altre zone dell’Africa Subsahariana. Per ciò che riguarda i paesi di accoglienza, l’Italia ha accolto 2148 rifugiati, la Francia 364, il Belgio 150 e Andorra 7. Si tratta per la maggior parte di nuclei familiari. Infatti più di 1000 sono minori, un 40% di tutti i rifugiati che sono arrivati.
Un caso particolare è il corridoio umanitario di Andorra. Questo piccolo paese tra la Spagna e la Francia si è impegnato ad accogliere 20 persone. E’ un numero modesto, ma significativo per un paese che non arriva agli 80.000 abitanti, si è ridotta la popolazione e ha perso la sua capacità attrattiva verso i migranti, come succede nella maggior parte dei paesi europei. Andorra non ha firmato il trattato di Schengen e non ha una legge sull’asilo. Per poter aprire i corridoi umanitari ha dovuto creare una nuova legge. Le prime famiglie arrivarono all’aeroporto di Barcellona da Beirut nell’ottobre del 2018, appena un anno fa.
Lo scorso mese di luglio, la Comunità di Sant’Egidio, insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane (FCEI), ha proposto un “corridoio umanitario europeo” per proteggere i rifugiati che si trovano in Libia. In quel paese afflitto dalla guerra civile, i rifugiati vivono in campi di detenzione simili ai campi di concentramento. La loro vita è in pericolo e tutti i giorni subiscono torture e vessazioni di ogni tipo. Questo corridoio umanitario rappresenterebbe una nuova via di accesso sicuro e legale in Europa per 50.000 rifugiati che, attraverso un sistema di quote, sarebbero accolti nei paesi europei disponibili a partecipare al progetto. Per l’Europa può essere un grande atto di civiltà in difesa dei diritti umani, un gesto all’altezza del ruolo che crediamo debba assumere nel mondo.
I corridoi umanitari sono una realtà, un modello che funziona, che è replicabile, e che è in grado di andare oltre l’emergenza e di far fronte al fenomeno dell’immigrazione con percorsi di integrazione. Per questo ci piacerebbe che i corridoi umanitari fossero implementati, vie di accesso “legale e sicuro”, e che si utilizzassero in altri paesi, anche in Spagna, dove finora non è stato possibile aprirli.
In Italia la Comunità di Sant’Egidio accoglie i rifugiati in 18 regioni, con la partecipazione diretta di 3500 persone: privati che aprono le loro case, associazioni, istituzioni religiose, parrocchie. Con l’articolazione di questo tessuto di relazioni sociali, i corridoi umanitari sono diventati risorse per i luoghi di accoglienza. Ci sono perfino piccoli paesi che si sono rivitalizzati e che hanno consentito l’integrazione dei migranti sin dal primo giorno del loro arrivo. Ne beneficiano entrambe le parti.
Se ci soffermiamo sul primo gruppo di 1000 rifugiati che arrivò in Italia grazie al primo protocollo, vediamo che il 73% ha ottenuto lo status di rifugiato. L’83% dei rifugiati adulti ha frequentato almeno per sei mesi lezioni di italiano. I bambini e gli adolescenti vanno tutti a scuola. Al momento molti di loro hanno un impiego stabile, alcuni hanno già aperto attività per conto loro (lavaggio auto, parrucchieri, ristoranti) frequentano l’università o altri corsi professionali.
Tutti i migranti devono affrontare il problema dell’integrazione. Per molti di loro che vivono in Europa non esistono vie legali per entrare nel paese. Questo è il caso di Suleiman, un rifugiato siriano di Homs che scappò dalla Siria con la sua famiglia affrontando un viaggio lungo e pericoloso per entrare clandestinamente in Spagna attraverso Melilla. Altri migranti, come i salvadoregni o gli honduregni, fuggono dalle maras, dopo aver sopportato lunghe marce verso gli Stati uniti.
Per realizzare una buona convivenza e integrazione abbiamo la sfida di promuovere spazi e momenti di incontro, dove emerga l’amicizia e la solidarietà. Dopo gli attentati terroristici nell’estate del 2017 sulle Ramblas a Barcellona, Nazha Akali, una donna marocchina di Genti di Pace (il Movimento dei Nuovi europei della Comunità di Sant’Egidio), disse: “Insieme vinciamo la paura, insieme ci conosciamo e vinciamo i pregiudizi, insieme siamo capaci di costruire una città molto più umana e buona, un mondo senza razzismo e violenza”.
Per la Comunità di Sant’Egidio la “Scuola di Lingua e Cultura” (imparare la lingua è fondamentale), il centro di accoglienza, la mensa, la solidarietà nel quartiere, ma soprattutto i legami di amicizia personale rappresentano il cammino per una vera integrazione. Il Pranzo di Natale o il pranzo per la fine del Ramadan rappresentano ulteriori momenti. Ouassim, un marocchino di Manresa, sottolinea che “in queste celebrazioni è buono e consolante vedere persone di differenti culture e religioni sedute una accanto all’altra, alcuni servendo gli altri. Con questo impegno e con più iniziative in tal senso, un mondo migliore è possibile”.
I migranti sono il lievito per un mondo migliore. Sono persone che portano i loro valori, non solamente le loro necessità, uomini dai quali imparare e non solo da aiutare. Attraverso la loro esperienza vitale, molte volte piena di difficoltà e sofferenze, hanno coltivato una forza spirituale piena di speranza in un futuro migliore. Oggi nelle nostre città vediamo che molti “nuovi europei” promuovono iniziative di solidarietà e attenzione ai più poveri, perché quando sono accolti e aiutati sentono la necessità di restituire ciò che hanno ricevuto.
L’integrazione è il fondamento per una buona convivenza: è un’arte che aiuta tutti a vivere meglio e in pace. Evita che il clima della società si avveleni e che nessuno si rinchiuda o si senta rinchiuso in un ghetto.
Una realtà comunitaria, integrante, permette che tutti i cittadini si sentano a casa: nel loro quartiere, nella loro città, favorisce che tutti i cittadini abbiano le stesse opportunità. E’ il segno di una città più umana.
Ricevendo un gruppo di rifugiati siriani che arrivavano a Roma da Beirut grazie ai “corridoi umanitari”, Marco Impagliazzo li accolse dicendo: “Non sono solo corridoi umanitari, infatti vedendo tanta inumanità nel mondo, si potrebbero chiamare “corridoi umani”, perché hanno tanta umanità”.
Sì, dall’incontro con i migranti emerge una fonte di umanità. Non è facile che persone diverse vivano insieme, non è spontaneo, ma si impara, è essenzialmente umano, come umana è la solidarietà per salvare una vita, come umano è il sogno di un mondo migliore per tutti. I “corridoi umanitari” propongono un cammino di umanità per tutti e costituiscono oggi un passo decisivo per la costruzione della “civiltà del convivere”.