“Un grido di pace” è il titolo di questa edizione dell’Incontro internazionale di preghiera per la pace di Sant’Egidio. Quasi un’invocazione all’Altissimo - a Yahweh, al Dio di Gesù Cristo, ad Allah, a Brahmā - Visnù e Shiva, a ogni divinità in cielo e in terra - un’invocazione quasi disperata in forma di “grido”, che va altrettanto, se non più forte, verso - non contro! - un altro “grido”, quello di guerra, di morte, di distruzione.
Il grido è, forse, oggi uno dei “segni dei tempi” che ci è dato di vivere. Lo emettono gli uomini politici e religiosi violenti, lo emettono i soldati che servono il dio della violenza e del sopruso; coloro che sottostanno agli idoli delle ideologie, che sono sempre maschere per coprire indicibili interessi. Lo urla chi ha fatto del proprio “io” il proprio “dio”. Ma questo è un grido di guerra.
Un grido, questa volta di pace, invocando la pace, lo emettono anche le infinite vittime delle guerre, dello sfruttamento, della miseria, della violenza, della paura… Lo emettono gli uomini che servono la pace, a partire da papa Francesco, dai tanti presenti alla “Nuvola” in questi giorni, da ciascuno di noi, ognuno a modo suo. Lo emettono in tantissimi in questo tempo che sembra colorato, anzi scolorito, da un incattivirsi delle relazioni, di un buon cuore che sembra venire meno, di mani che sembrano vogliano armarsi più che tendersi l’una verso l’altra. E non solo nelle guerre guerreggiate con le bombe e i missili, ma anche nelle piccole guerre domestiche in cui ci imbattiamo o, Dio non voglia, che favoriamo con il nostro cuore indurito.
Andrea Riccardi domenica, nell’evento inaugurale di questo Incontro, parlava della importanza di essere “artigiani della pace”, di “costruire reti di pace”, unica prospettiva - diceva - contro la “eternizzazione delle guerre”, come accade in Siria e, Dio non voglia, anche in Ucraina. Ma anche, magari, nelle nostre case, nelle nostre associazioni, movimenti, e redazioni (per noi giornalisti). E chissà ancora dove altro.
Un lavoro artigianale di pace, questo mi sembra il lavoro, o meglio l’apostolato umano, che ogni uomo e donna sulla faccia della terra sono appellati a fare nella loro quotidianità, tanto più quando - come dei veri e propri editori in piccolo - maneggiano un social. E un simile lavoro è chiamato a farlo ogni operatore che lavora nel campo dei media, dando voce in modo artigianale, cioè “lavorando a bottega”, a quel “grido di pace”.
Mi sembra interessante, anche per noi operatori della comunicazione, la prospettiva che lanciava sempre Riccardi per la politica domenica scorsa: quella della immaginazione alternativa. Come la politica - nel suo ragionamento - ne ha bisogno per disegnare una visione di pace e di un mondo nuovo di fronte a pensieri stanchi, rassegnati e appiattiti sul presente, così i media hanno davanti a sé il grande compito di immaginare un nuovo modo di comunicare, alternativo a pensieri violenti e di pura contrapposizione. Quello che dobbiamo fare per servire il nostro popolo, ed essere così fedeli alla nostra vocazione professionale, è intercettare, “consumando le suole delle nostre scarpe”, i progetti di una società pacifica e giusta e di parlarne, promuoverli, testimoniarli e farli parlare. Ogni giorno noi operatori della comunicazione siamo davanti a questa scelta: a quale grido do spazio? A quello della guerra o a quello della pace? È una scelta.
Credo fermamente che essere testimoni di questo “grido di pace” nel campo della comunicazione non si possa fare da soli, in modo isolato, ma solo insieme a chi condivide gli stessi valori, tanto più in un mondo in cui l’infodemia e lo tsunami di stimoli che ci colpiscono quotidianamente alzano il rumore di fondo, desensibilizzando i cuori alla più elementare compassione umana.
Provo emozione quando a Famiglia Cristiana promuovevamo campagne insieme ad altre istituzioni e media ecclesiali e non, come la campagna delle mine antipersona (del 1997 con Mani Tese, Emergency e altri); o quella della nascita del Tribunale penale permanente (luglio 1998, con Amnesty International, Comunità di S. Egidio), la Convenzione internazionale sulle bombe a grappolo (maggio 2008, con Mani Tese, Emergency, Rete Disarmo, Acli e altri); il Trattato per la proibizione delle armi nucleari (settembre 2017 con ACLI, Azione Cattolica, Scout).
Guardo con speranza ad altre campagne, come quella Anche le parole possono uccidere, la campagna sociale voluta da noi con Avvenire per combattere i pregiudizi veicolati dal linguaggio. In occasione della presentazione della campagna Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, diceva che “Oggi c’è bisogno di una alfabetizzazione nuova sulle parole fondamentali. Purtroppo c’è un uso pervasivo, smodato di parole che uccidono. E le parole si trasformano in urla di guerra…”. E gli faceva eco il mio predecessore alla guida di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino: “In questa direzione ci dà un aiuto potente papa Francesco: parlare male di qualcuno, ci dice, equivale a venderlo, come fece Giuda con Gesù”.
Forse dobbiamo allearci sempre più, come media “di buona volontà”, per continuare su questa strada.
Ma per dare voce al “grido della pace” occorre una condizione preliminare, che diamo troppo spesso per scontata. Ed è il cuore. Dov’è il mio cuore, il nostro cuore? Perché dobbiamo essere consapevoli che solo un cuore pacificato può parlare di pace e promuoverla.
San Benedetto nella sua “Regola” ha parole illuminanti in questo senso: “Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila”. Questo è un lavoro quotidiano.
E ancora: “Nell’eventualità di un contrasto con un fratello, occorre stabilire la pace prima del tramonto del sole”.
E ancora: “Appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace”.
Guardando al padre Benedetto anche con occhi laici, ritengo che questa sia la via maestra, oggi tanto difficile quanto necessaria.