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Daniela Pompei

Community of Sant’Egidio, Italy
 biografia

Recentemente mi ha scritto il presidente di una associazione di siciliani nel mondo. Mi chiedeva nella sua mail: “Cosa sta succedendo in Italia?” Gli italiani all’estero sono molto preoccupati per quello che i giornali e i media mondiali restituiscono di ciò che avviene nel nostro paese:  “l’immagine Italia [è] presentata in caduta libera” . Le notizie italiane mettono in difficoltà i nostri connazionali all’estero, nelle società di residenza dove godono di considerazione per la loro italianità.

Il mio interlocutore commenta: “Razzismo, intolleranza, discriminazione sono un ricordo bruciante per i nostri connazionali perché riportano alla mente momenti del passato mai dimenticati.”.

Il disagio forse è anche nel fatto che tra i caratteri dell’italianità - come la chiama il nostro preoccupato connazionale- c’è proprio questo tratto di umanità affabile e accogliente. Non che bisogna dare retta all’immagine mitizzata di Italiani “brava gente”, certo però si capisce l’imbarazzo di chi vive all’estero a vedersi affibbiare l’immagine sgradevole di razzisti.

Cosa  sta succedendo? Il tema scelto per questa tavola rotonda è di grandissima attualità. I temi dello straniero, dell’accoglienza o -come si dice - dell’integrazione sono sulle prime pagine dei giornali,  è il tema politico che si dibatte nei parlamenti, che decide chi vince nelle campagne elettorali. Ma anche la vita della gente, la vita delle periferie delle grandi città, penso ai quartieri periferici della nostra città di Roma, ma non solo, sono attraversate come da una scossa tellurica, ci sono rigurgiti di violenza, di intolleranza.

Insomma, mi preme dirlo in premessa, xenofobia, filoxenia, accoglienza, non sono temi per élite, per nicchie illuminate. Parliamo di questioni che possono decidere la tenuta e il futuro dei nostri sistemi sociali

L’accoglienza allo straniero sta diventando in Europa e in Italia non un valore comune condiviso, sul quale investire e spendersi in politiche, in cultura, in riflessione, ma una “specializzazione” di alcuni settori ipersensibili della società. È diventato il mestiere della Chiesa accogliere o fare appelli all’accoglienza, poi c’è il mestiere dei politici, e la vita della gente comune. E in questo ultimo caso bisogna essere realistici e, se serve, bisogna essere duri e determinati- così si dice- Io vorrei provare a rispondere a questa lettura che vede come “naturale”, e scontato  un atteggiamento poco favorevole e sfiduciato verso chi esprime l’alterità, come lo straniero. E, d’altra parte, che vede la filoxenia, invece, come un sentimento  per pochi e buoni e qualche volta persino pericoloso.

Non c’è niente di normale nel linguaggio duro e semplificato, non realistico vorrei dire, con il quale spesso si tratta il tema della presenza dei cittadini stranieri. E non bisogna abituarsi a questo linguaggio che squalifica l’altro, che lo stigmatizza, che lo carica di responsabilità non sue. La realtà è diversa: è molto “normale”, vero,  questo incrociarsi e intrecciarsi di esistenze, di vita, stranieri che diventano come e meglio dei figli per i nostri anziani.

Dice Jonathan Sacks nel suo libro la  Dignità della differenza: “Se dobbiamo vivere accanto alla differenza, come accade in un’era globale, avremo bisogno di qualcosa di più  di un codice dei diritti, più anche della mera tolleranza. Dovremo comprendere che come l’ambiente naturale dipende dalla biodiversità, così l’ambiente umano dipende dalla diversità culturale(…)” . L’integrazione non è un modello astratto, una teoria, una legge, è  piuttosto una cultura che pervade la vita delle persone, che decide il clima umano, il linguaggio, che veicola scelte, che entra nella quotidianità, che unisce la vita di ogni giorno e la vita futura. Andrea Riccardi l’ha chiamata Arte del convivere. 

Un futuro comune che non è un discorso o una ipotesi, ma è la vita, la quotidianità di tanti uomini e donne. È il tessuto di relazioni, di incontri, di esperienze condivise. Immaginare già oggi le nostre società europee senza la presenza degli stranieri, non dico la nostra economia, dico le nostre città, le nostre famiglie, le nostre scuole, immaginare anche solo per un istante, che tutto questo patrimonio di relazioni non ci sia, risulta artificioso, “innaturale”.

Resto sempre stupita nel dibattito attuale sull’immigrazione, in Italia e in Europa, ad esempio, della patologica assenza di memoria. Siamo tutti stati stranieri, il passato di molti popoli europei, l’Italia sopratutto, è stato quello di emigranti di profughi, di déplacée, ma noi lo dimentichiamo. Non stiamo parlando di un periodo storico remoto stiamo parlando dei nostri nonni, di 30, 40 anni fa.

Non contrastare il clima di sfiducia che si respira nei confronti di persone che vengono da altri paesi,  può provocare conflitti che isolano e rendono  inquiete le nostre società.

L’accoglienza al diverso è un principio laico fondante delle politiche sociali. Mi soffermo su un aspetto: quello della sicurezza. Cioè proprio l’aspetto sul quale maggiormente si insiste e in nome del quale si sacrifica ogni possibile altra riflessione sia essa di tipo etico, economico,  sociale o altro.

Marzio Barbagli, un sociologo che da anni studia i fenomeni criminali e i  reati, in particolare riferiti alle popolazione di immigrati, in un suo recente studio si sofferma sullo spinoso tema del controllo sociale, in una prospettiva di sicurezza. Commentando una serie di studi internazionali che nell’arco di un secolo hanno analizzato l’andamento dei reati nelle comunità di immigrati, Barbagli verifica immancabilmente un calo dei reati correlato non solo alla posizione di regolarità, ma anche agli anni di permanenza e alla qualità dei legami e alla coesione sociale: “ le probabilità che una persona violi la legge sono tanto minori quanto più numerosi e forti sono i vincoli che lo legano agli altri: ai genitori, agli insegnanti, al coniuge, agli amici, ai parenti”.

L’accoglienza, e il sostegno delle politiche di integrazione, per continuare il ragionamento di Barbagli, sono quindi una vera politica di sicurezza: lavorare sui tempi lunghi, sui legami e sulla coesione sociale.

La paura dello straniero sta producendo dei danni sui quali non ci si sofferma abbastanza. Anche economici. La nostra bella Italia, ad esempio, conosce un danno di immagine che ha già contribuito ad una diminuzione importante delle entrate derivanti dal settore turistico, uno dei più importanti e vitali settori economici italiani.

I dati dell’ Ente nazionale del turismo in Italia, rilevano una diminuzione del flusso turistico, nel periodo giugno-luglio 2008,  di oltre il 5 %  rispetto allo stesso periodo del 2007. La diminuzione maggiore del flusso turistico si riscontra nelle grandi città e in particolare nel Nord-Est del Paese.

Le cause della diminuzione sono molteplici, la crisi economica e la poca competitività delle strutture turistiche, ma esperti del settore non hanno mancato di rilevare tra queste il “deterioramento dell’immagine Italia”.

Il dibattito scomposto sulla sicurezza, i continui annunci di provvedimenti draconiani - le impronte digitali prese ai bambini rom, la presenza dei militari in strada - che sono apparsi sulla stampa estera, provocano paura e generano senso di insicurezza in chi vorrebbe venire a visitare l’Italia. 

I dati  delle agenzie internazionali fanno emergere  l’Italia come uno dei paesi più sicuri al mondo. Ma - si dice - il problema è la percezione ed è questa che bisogna prendere in considerazione. È forse proprio questa percezione di paese malsicuro e militarizzato, infatti, che può fare allontanare i turisti. Spesso si sceglie di cavalcare la percezione della paura invece di aiutare a razionalizzare e  spiegare a partire dalla realtà oggettiva. Questo non giova alla nostra società.

Sembra  mancare  una idea di che cosa vogliamo costruire, cosa vogliamo essere. Manca una visione condivisa del futuro. In un recente editoriale apparso su un quotidiano nazionale, Andrea Riccardi, a proposito del realismo della Chiesa in tema di immigrazione, accusata di “buonismo” per le sue prese di posizione,  sottolinea: “Il problema non è il buonismo,  ma è il “realismo” di una visione” . I dati pure oggettivi non riescono ad imporsi nel dibattito. Abbiamo bisogno di immigrati, ma li respingiamo e già si comincia ad osservare  da parte degli operatori impegnati una diminuzione degli arrivi di immigrati: in calo sono quelli dei cittadini polacchi, romeni, in generale dei neocomunitari. Si registra un rientro nei paesi di origine ma vari preferiscono altre mete, altri paesi, ad esempio l’Inghilterra.

Mi capita sempre più spesso di raccogliere lo sfogo di tanti cittadini immigrati che vivono in Italia da tanto tempo, hanno fatto tanti sacrifici, hanno messo su famiglia, i loro figli sono nati nel nostro paese, eppure iniziano a ragionare seriamente sull’ipotesi di lasciare l’Italia per andare altrove. Ci auspichiamo tutti che la crisi economica in atto sia breve e quando sarà superata cosa succederà a noi e ai nostri anziani se gli immigrati preferiscono andare da altre parti? Forse è opportuno ragionarci per tempo. 

È possibile immaginare scenari non contrapposti e conflittuali, oppure è una illusione di ingenui sognatori come noi di Sant’Egidio? Penso ci sia tanto buon senso e una buona dose di “realismo” nell’affermare che sì, non solo si può immaginare una convivenza, che è gia una realtà, che si può toccare con mano nelle nostre città, nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro, ma che su questa visione non contrapposta che restituisce dignità all’altro, bisogna investire energie, idee, tempo e risorse. Anche la nostra economia, e la nostra sicurezza ne avranno giovamento.

Del resto l’emigrazione è una realtà costante della storia umana. Come costanti sono le ricche e belle storie di gente diversa che incontrandosi trovano un comune destino. Nella Bibbia troviamo descritta una di queste  belle storie. Una storia di integrazione riuscita. È il libro di Ruth la moabita, la “straniera”. Nel libro del Primo Testamento non troviamo alcuni precetti a favore degli stranieri, che pure sono numerosi in altri libri della Bibbia, ma troviamo una storia, esemplare, una bella storia di accoglienza e di amore.

Una carestia aveva spinto un gruppo di Ebrei, tra cui Noemi con il marito e i due figli, a cercare futuro in terra straniera dove vi resta per 10 anni. I motivi per cui si fugge, ieri come oggi, si ripetono. E tutti i popoli hanno nel loro DNA l’esperienza di essere stati migranti.

Ruth, la moabita, sposa uno dei figli di Noemi, si direbbe oggi un matrimonio misto. I Moabiti erano il popolo “nemico” per antonomasia di Israele. Come potrebbero essere considerati oggi gli zingari o i romeni.

Vicende familiari dolorose, la morte del marito e di ambedue i figli, spingono Noemi a tornare al suo paese. Ruth non aveva niente che la legasse a Noemi se non il marito morto. Noemi chiede a Ruth di rimanere nel suo paese e di non seguirla. Ruth non si vuole separare da lei.  "Non insistere con me perchè ti abbandoni e torni indietro senza di te; perchè dove andrai tu andrò anch`io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch`io e vi sarò sepolta”.

Questa tenacia di Rut fa desistere Noemi e la storia biblica racconta che  in realtà, a dispetto delle premesse, in Israele la straniera troverà una nuova famiglia, avrà un figlio, da un famigliare di Noemi, Booz. Ruth farà in Israele la raccoglitrice di orzo nei campi. Ruth trova accoglienza nel campo di Booz il quale dice “ Non andare a spigolare in un altro campo; non allontanarti da qui, ma rimani qui con le mie giovani” Ruth chiede il perché di tanta benevolenza? Lei che aveva trattato bene  l’anziana Noemi e non l’aveva abbandonata è stata accolta e amata. Il futuro benedetto della straniera Rut sarà il futuro benedetto anche per l’anziana  Noemi. Il figlio di Rut diventa una benedizione per Noemi e per tutto il popolo di Israele: Dicevano a Noemi: "(…) Egli – il figlio di Ruth-sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia; perchè lo ha partorito tua nuora che ti ama e che vale per te più di sette figli". 16 Ruth, la straniera, è stata la progenitrice di Davide, e il Vangelo di Matteo la inserisce nella genealogia di Gesù. Davvero una integrazione riuscita!

La filoxenia, in questo caso, è esemplare, è un affetto: delicato, tenace, profondo che sa intravedere nelle difficoltà un futuro, non di tollerata coesistenza, ma molto di più: di felice interdipendenza. Non abbandonare l’altro al suo destino e non immaginare, neanche lontanamente, la propria vita “senza” l’altro.

La bella e giovane donna straniera Ruth assomiglia tantissimo alle giovani e belle donne straniere che vengono nel nostro paese. I loro figli potrebbero essere una benedizione per i nostri paesi che hanno una tasso di natalità tanto basso da essere preoccupante. Potrebbero essere i nostri figli. Ma a noi forse manca la saggezza di Noemi, e ci manca la sua umanità. Tanto che non riconosciamo come cittadini, è l’esempio dell’Italia, i più di 500 mila bambini, figli di immigrati nati nel nostro paese, che potrebbero rappresentare una benedizione per noi e, in parte il nostro futuro.

La nostra testimonianza, come Comunità di Sant’Egidio, è quella di una amicizia tenace e profonda, di rispetto verso le persone immigrate. Sono giovani, uomini e donne di cultura e di lingue diverse, che con forza, con speranza, desiderano unire il loro destino al nostro. Pensano al loro futuro nei nostri paesi. L’accoglienza agli stranieri ha assunto tante forme: la scuola di Italiano e la scuola  per i mediatori, il centro di accoglienza, le feste tradizionali celebrate assieme, come il Natale, i gruppi di giovani italiani e stranieri insieme che formano le Genti di Pace. La condivisione dei momenti difficili come di quelli gioiosi. Sottesa a tutto c’è una convinzione umana e spirituale profonda: non abbandonare l’altro al suo destino e non immaginare, la propria vita “senza” l’altro.

Il tema dell’accoglienza per noi credenti è decisivo. Se non si accoglie l’altro si rischia di escludere non solo chi consideriamo straniero, ma di emarginare e di espungere l’Altro per eccellenza, di estromettere cioè dalla propria esistenza, e dalla vita sociale Dio stesso. Posso dare la mia e la nostra testimonianza di credenti. La presenza delle persone straniere è stata nella mia vita e nella vita di Sant’Egidio, non episodica, ma fedele, condividendo le gioie, le speranze, le difficoltà, i dolori e le angosce di chi cerca un futuro in Italia e in Europa, di chi fugge situazioni invivibili. Accanto a loro, ascoltando le loro storie, ho trovato le ragioni profonde di una fede e di un speranza evangelica. La filoxenia, l’amore per lo straniero, mi ha messo in contatto con una umanità talvolta diversa, ma non per questo meno autentica. Soprattutto mi ha fatto comprendere qualcosa di quella che i Padri della Chiesa chiamano la filantropia di Dio. L’altro umano è una traccia del divino. Davvero come dice la lettera agli Ebrei “alcuni di noi nell’ospitalità hanno accolto degli angeli”. (Eb 13,2)