Comparteix-Ho

Tutti i documenti della Chiesa Cattolica dopo il Vaticano II, dalla Nostra Aetate fino alle parole di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma e di Benedetto XVI a quella di Colonia, mettono in luce l'unicità del rapporto ebraico cristiano. Il documento della Santa Sede “Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo” del 1985 inizia con queste parole: "I. Nella dichiarazione Nostra Aetate (n.4), il Concilio parla del "vincolo che lega spiritualmente" cristiani ed ebrei, del "grande patrimonio spirituale comune" agli uni e agli altri e afferma anche che la Chiesa "riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, in Mosè e nei Profeti." 2. In considerazione di questi rapporti unici esistenti tra il cristianesimo e l'ebraismo, "legati al livello stesso della loro identità" (Giovanni Paolo II, 6 marzo 1982), rapporti "fondati sul disegno di Dio dell'Alleanza" (ibid.), gli ebrei e l'ebraismo non dovrebbero occupare un posto occasionale e marginale nella catechesi e nella predicazione, ma la loro indispensabile presenza deve esservi organicamente integrata." 

Nell'incontro con i rappresentanti delle comunità ebraiche della Germania Federale a Mainz il 17 novembre 1980 Giovanni Paolo II parla del "popolo ebraico dell'Antica Alleanza, che non è mai stata revocata".  Si tratta di un'affermazione che fa considerare il rapporto tra le due alleanze, quella con Israele e quella con Gesù di Nazaret, in termini nuovi. L' alleanza con Israele non è qualcosa di caduco, ormai superata e abolita dalla nuova, ma permane nel suo valore. Il recente documento della Pontificia Commissione Biblica "Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana" corregge una comune interpretazione del Nuovo Testamento quando afferma: "Il Nuovo Testamento non afferma mai che Israele è stato ripudiato. Fin dai primi tempi, la Chiesa ha ritenuto che gli ebrei restano testimoni importanti dell'economia divina della salvezza. Essa comprende la propria esistenza come una partecipazione all'elezione di Israele e alla vocazione che resta, in primo luogo, quella di Israele, sebbene solo una piccola parte di Israele l'abbia accettata."  I documenti sopra citati sottolineano alcuni aspetti del rapporto privilegiato tra cristiani ed ebrei, divenuti ormai patrimonio comune del dialogo ebraico cristiano. Essi sono:

- La comune paternità di Abramo. Ebrei e cristiani si riconoscono nella comune fede di Abramo, padre dei circoncisi e dei non circoncisi, come dice l'Apostolo (cfr.Rom 4,9-12). 

- L'ebraicità di Gesù. In modo lapidario i Sussidi affermano che "Gesù è ebreo e lo è per sempre;...Gesù è pienamente un uomo del suo tempo e del suo ambiente ebraico palestinese del I secolo, di cui ha condiviso gioie e angosce. Ciò sottolinea, come ci è stato rivelato nella Bibbia (cf. Rom 1,3-4; Gal 4,45) sia la realtà dell'incarnazione che il significato stesso della storia della salvezza."  L'ebraicità di Gesù fa parte integrante del mistero divino di salvezza.

In questa prospettiva è necessario rivedere i dati del Nuovo Testamento perché non siano interpretati in chiave antiebraica, per evitare il perpetrarsi dell'antica accusa di deicidio

- Rapporto tra i testi sacri, nella preghiera e nella liturgia. Sia gli ebrei che i cristiani hanno come parte dei loro testi sacri il Primo Testamento. Il Primo Testamento dei cristiani non coincide del tutto con la Bibbia ebraica e, nonostante le parti in comune, esse sono interpretate all'interno di due tradizioni cresciute in modo diversificato. Per un cristiano il Primo Testamento acquista il suo senso pieno solo in rapporto a Gesù, così come per un ebreo la Bibbia ebraica ha il suo senso pieno all'interno dell' interpretazione rabbinica. Ciò ovviamente non esclude la comune eredità: quella Bibbia la continuano a leggere gli ebrei nella sinagoga e i cristiani nelle chiese.

Gli aspetti ora evidenziati sono ripresi e chiariti ancora meglio nel recente documento "Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana". Si tratta di un testo fondamentale, che non solo recepisce quanto affermato dal Concilio e da Giovanni Paolo II, ma si pone come un testo che esplicita in modo inequivocabile il valore permanente delle Scritture ebraiche sia per la catechesi che per la riflessione teologica. Infatti quanto è stato affermato finora dal magistero della Chiesa non è sempre rifluito in maniera evidente nel linguaggio catechetico e teologico.

L'importanza della posizione del documento della Pontificia Commissione Biblica è visibile soprattutto là dove il testo affronta il problema del rapporto tra Primo e Nuovo Testamento. Qualche breve citazione lo dimostra: "Il presupposto teologico di base è che il disegno di Dio, che culmina in Cristo (Cf Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo. L'aspetto unitario e l'aspetto graduale sono entrambi importanti; così come lo sono la continuità su alcuni aspetti e la discontinuità su altri." 

Tuttavia, pur nel patrimonio comune, ebrei e cristiani si sono differenziati lungo la storia sino a solidificarsi in due tradizioni religiose ben diverse. Non si deve cadere nell'errore di ritenere che ebrei e cristiani hanno in comune Il Primo Testamento, mentre la differenza nasce solo nel Nuovo Testamento, per cui gli ebrei sarebbero dei cristiani mancati. Gli ebrei non hanno solo la Bibbia Ebraica, e l'ebraismo non si riduce alla lettura del Primo Testamento, come talvolta un certo dialogo superficiale sembra intendere. Bisogna tenere ben presente che anche la Mishna, la legge orale, commentata nella tradizione rabbinica raccolta nel Talmud, è un testo che nella tradizione ebraica è rivelato da Dio a Mosè come la legge scritta raccolta nel Pentateuco. Senza la tradizione rabbinica non esiste ebraismo, come senza Gesù, e quindi senza Nuovo Testamento, non esiste il cristianesimo. Ciò significa che i libri della Bibbia ebraica o Primo Testamento per la tradizione ebraico-cristiana sono comprensibili all'interno di una tradizione interpretativa. Il recente Sinodo sulla Paola di Dio lo ha sottolineato per i cattolici. Uno dei limiti del dialogo ebraico-cristiano è spesso la misconoscenza della tradizione rabbinica, quasi che l'ebraismo si fosse fermato alla Bibbia ebraica. Non si comprende a fondo il patrimonio proprio dell'ebraismo se non cogliendo come il Primo Testamento è stato vissuto nella tradizione, così come non si coglie il cristianesimo se non alla luce del Nuovo Testamento e della tradizione della Chiesa. Ciò non sopprime il valore storico del Primo Testamento. Ma la Parola di Dio è viva nella storia, è un libro che ha un valore nella misura in cui è reso vivo nella fede di coloro che lo leggono e lo interpretano.

Con il Vaticano II tuttavia non si è solo riconosciuto il patrimonio comune che lega la Chiesa cattolica all’ebraismo, cosa che era già avvenuta in passato anche se non in maniera così decisiva, ma si è affermato in maniera definitiva che è indispensabile e intrinseco per la vita stessa della chiesa il rapporto con l’ebraismo vivente, non solo con la sua tradizione. Pio XI, proprio all’indomani della pubblicazione in Italia delle leggi razziali del 5 settembre 1938, visibilmente scosso ebbe a dire a un gruppo di giornalisti belgi in visita a  Castel Gandolfo: “L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti”.   Il teologo russo Valdimir Soloviev nel suo libro L’ebraismo e il problema cristiano scrive: “Noi siamo staccati dagli ebrei solo perchè non  siamo completamente cristiani.”  Questa forse è la vera novità del Concilio e dell’attitudine dei Pontefici del postconcilio, che recepisce e formula in maniera chiara quanto era forse stato sommerso da una storia travagliata e difficile. La shoà ha certamente spinto in questa direzione. Gli ebrei erano accanto a noi, e molti di loro sono stati eliminati. Il loro sterminio è avvenuto proprio nella società cristiana europea. Benedetto XVI, che ha vissuto nella Germania nazista, ha affermato recentemente: “Ricorre quest’oggi il 70° anniversario di quel triste avvenimento, verificatosi nella notte fra il 9 e il 10 novembre 1938, quando si scatenò in Germania la furia nazista contro gli ebrei. Furono attaccati e distrutti negozi, uffici, abitazioni e sinagoghe, furono anche uccise numerose persone, dando inizio alla sistematica e violenta persecuzione degli ebrei tedeschi, che si concluse nella Shoah. Ancora oggi provo dolore per quanto accadde in quella tragica circostanza, la cui memoria deve servire a far sì che simili orrori non si ripetano mai più e che ci si impegni, a tutti i livelli, contro ogni forma di antisemitismo e di discriminazione, educando soprattutto le giovani generazioni al rispetto e all’accoglienza reciproca. Invito, inoltre, a pregare per le vittime di allora e ad unirvi a me nel manifestare profonda solidarietà al mondo ebraico.”  

Il cristianesimo si è definito nei secoli in maniera diversa dall’ebraismo, che ha una sua storia e una sua vita attuale in numerose comunità. L’esistenza cristiana e la sua stessa comprensione tuttavia portano in sé, nelle proprie radici, l’ebraismo vivente quale interlocutore essenziale. Per questo il dialogo ebraico cristiano è per la Chiesa ineludibile e addirittura si è posto come paradigma del dialogo interreligioso. 

Il rapporto ebraico cristiano infatti è stato suscitatore involontario della Dichiarazione conciliare sulla relazione della Chiesa con le religioni. Si tratta quindi di un rapporto che è diventato in qualche modo paradigmatico. E' anche emersa la peculiarità di tale rapporto rispetto a quello che la Chiesa intrattiene con le altre religioni. Qui siamo di fronte a un problema di fondo che riguarda la rivelazione. Il paradigma relazionale ebraico cristiano si inserisce all'interno di una rivelazione divina del tutto particolare, che si è sviluppata nell'antico Israele, e di cui sono testimoni le Scritture ebraiche e il Primo Testamento, e che secondo il cristianesimo si è compiuta in Gesù Cristo Figlio di Dio. Il compimento, come esprime bene il recente documento della Pontificia Commissione Biblica, non annulla il valore storico e rivelativo delle Scritture ebraiche. Questo valore non è paragonabile in alcun modo ad altri tipi di testi sacri o di manifestazioni religiose di nessun altra religione o popolo. Siamo così di fronte a un paradigma che rivela anche una profonda diversità, a cui non è possibile rinunciare, pena l'annullamento del valore salvifico della rivelazione di Dio in Gesù Cristo. É quanto emerso anche nella faticosa elaborazione della Nostra Aetate e nei successivi e numerosi interventi pontifici sul problema del rapporto ebraico cristiano.

La diversità rimane anche tra ebraismo vivente e cristianesimo. Il dialogo è possibile solo nella consapevolezza della propria identità e innegabile differenza. Certo, si potrebbe dire che cristianesimo ed ebraismo si pongono su un piano asimmetrico: mentre infatti per il cristiano l’ebraismo è indispensabile per la sua comprensione, per l’ebraismo il cristianesimo risulta di per sé superfluo. Tuttavia si dovrebbe riflettere proprio a partire dai dati appena accennati. Se il cristianesimo nasce da ebrei e i dati del Nuovo Testamento sono unanimi nell’affermare l’appartenenza ebraica del cristianesimo, non dovrebbe questa origine interrogare e riguardare anche l’ebraismo? In fondo l’ebraismo del tempo di Gesù era molto differenziato al suo interno. Farisei, sadducei, zeloti, nazirei, esseni, battisti, sono solo alcune delle espressioni dell’ebraismo del primo secolo. Inizialmente il cristianesimo era percepito né più né meno come uno di queste differenziazioni del mondo ebraico. Anche l’ebraismo di oggi è differenziato. Che cosa significa per l’ebraismo un cristiano che afferma di essere parte di Israele, dell’alleanza di Dio con il suo popolo, che, come avveniva a Qumran, interpreta la torà a partire da una propria autocomprensione? Certo la divina figliolanza di Gesù Cristo risulta inaccettabile per la fede ebraica, perché metterebbe in discussione il monoteismo. Ma non è così per il cristianesimo, che afferma il monoteismo nonostante parli di un Dio che si manifesta  misteriosamente in tre persone. Mi sembra un problema aperto, su cui occorre continuare a riflettere, come nel passato hanno  fatto anche studiosi ebrei come Rosenzweig o Elia Benamozeg. Tuttavia, per l'oggi è indubbio che il rapporto ebraico cristiano, soprattutto dopo il Vaticano II, ha raggiunto traguardi irreversibili. E' nostro compito non permettere che incidenti di percorso mettano in discussione il prezioso cammino di riflessione compiuto in questi anni, pur nel rispetto della nostra diversità e nella libertà delle nostre scelte.  La comunità di Sant'Egidio ha lavorato in questi anni con tanti amici ebrei, di cui molti ci accompagnano nei nostri incontri internazionali, perchè il rapporto ebraico cristiano divenisse non solo parte di una riflessione teologica, ma di un modo di vivere, direi di un modo nuovo di essere ebrei e cristiani. Qui a Cipro, nel cuore del Mediterraneo, dove l'ebraismo e il cristianesimo hanno vissuto l'uno accanto all'altro da sempre, scopriamo la forza di una vocazione che ci lega indissolubilmente, radicata in quella chiamata rivolta da Dio ad Abramo, quella di essere donne e uomini che si affidano al Dio onnipotente, Padre dell'umanità, e si fanno guidare solo da lui. Questa vocazione può essere per ognuno sorgente di umanità e di misericordia nell'incertezza e nel spaesamento del mondo. La comunità di Sant'Egidio negli anni ha voluto intessere con il mondo ebraico un rapporto di profonda amicizia, consapevole di dover contribuire alla costruzione di un mondo pacificato e più umano. Gli incontri internazionali, le manifestazioni in memoria della shoà nelle città in cui la comunità è presente, i convegni, ma soprattutto la rete di amicizia che ci lega a tante personalità del mondo ebraico sono per noi una ricchezza e un invito a comunicare i valori del nostro comune sentire.