Uno dei brani più sconvolgenti dei Vangeli racconta la vicenda di un ragazzo epilettico che era posseduto da una forza crudele, che distruggeva la sua umanità (Marco 9,14-29 par. Matteo 17,14-21 par. Luca 9,37-42). La storia di questo ragazzo è narrata dopo la trasfigurazione di Gesù sul monte alto di Galilea. Lì, ai piedi del Tabor, un povero padre chiede ai discepoli del Signore di scacciare lo spirito immondo che ha ridotto suo figlio ad un’ombra di se stesso. La violenza che scuote il fanciullo, imprevedibile e malvagia, ha come scopo la morte. Quel povero ragazzo, sin da molto piccolo, ha subito aggressioni terribili fino al punto che parecchie volte ha rischiato di morire affogato o bruciato. La sua vita è diventata preda di una violenza senza sosta che l’ha colpito con tormenti e sofferenze fisiche e psichiche. Quel ragazzo è, per così dire, divorato dalla violenza: la sua umanità non regge più, e non sembra che ci sia più nessuna speranza, nessun conforto. Il padre del fanciullo cerca una soluzione - grande o piccola! - a una vita che lui ama, ma il male è troppo aggrappato a quel corpo, è troppo forte perché la violenza possa essere scacciata e perché si istauri in lui una pace duratura.
Mi chiedo se dietro il ragazzo epilettico del Vangelo di Marco non ci sia un’immagine vera dell’umanità scossa dalla violenza e lontana dalla pace, sottomessa a tante sofferenze e pervasa da una forza di male che sembrerebbe padrona del mondo. Dietro il grido di aiuto del padre del ragazzo c’è il grido di molti uomini e donne che amano la pace e che lavorano per costruirla malgrado e contro le forze di violenza che sembrano a volte impadronirsi del mondo. Questi amici della pace non si preoccupano tanto di loro stessi ma dell’umanità scossa dalla guerra e dalle aggressioni, gettata al suolo come il fanciullo del Vangelo, buttata nell’acqua o nel fuoco, vicina alla morte. C’è una schiera di cercatori di pace, forse piccola come numero ma grande nella speranza, formata da uomini e donne a cui Dio ha dato un senso di figliolanza per una umanità prigioniera della violenza. E’ un popolo che cerca di aprire cammini di pace in un mondo che fa fatica a scacciare lo spirito immondo dell’aggressione. Non è un caso che Gesù parli di una «generazione incredula» per riferirsi a un mondo che sembra rinunciare al dono della pace e che si rifugia nella discussione, come quei discepoli che, assente Gesù, si limitano a polemizzare con gli scribi e a giustificare così il loro fallimento riguardo al fanciullo colpito da un male così grave.
Ci vuole dunque una parola forte che mostri come guarire la violenza, che indichi il cammino che l’umanità deve percorrere per superare uno dei fossati più tristi che la attraversano. Il cammino verso la pace parte dalla preghiera. Sì, la preghiera è il «punto di partenza» della pace. In questo senso, gli uomini di religione possono condividere senz’esitare quelle parole piene di profezia che Gesù rivolge agli operatori di pace: «Tutto è possibile per chi crede». La fiducia che il Dio della pace è più forte di qualsiasi forza di odio e distruzione, di vendetta e di morte, rende unanimi le volontà di coloro che si ribellano contro la rassegnazione e l’indifferenza di un mondo che tollera la violenza. Ma, per colui che crede in un Dio che si preoccupa per i suoi figli, la pace è una necessità. Perciò, pure la pace è possibile! La pace è possibile perché Dio la fa possibile, ed è possibile perché è necessaria. Dinanzi alla violenza non c’è scelta, perché la pace non è una scelta ma un bisogno urgente. Dinanzi a quel fanciullo mezzo morto, serve soltanto dire: «Credo, aiutami nella mia incredulità». Sono le parole con cui il padre risponde a Gesù. Un’umanità travolta da una violenza che spesso provoca grandi sofferenze e annienta la vita trova nella fede e nella preghiera la forza di bene che vince il male scatenato e senza compassione.
Come quel padre, è importante essere consapevoli della propria incredulità! A volte riteniamo un’illusione che l’umanità, come quel fanciullo, possa essere liberata dall’acqua e dal fuoco, scampando ad una violenza senza volto. Le forze che seminano il male e la divisione, lo scontro e la sfiducia sono potenti e si direbbe imprevedibili. I conflitti si susseguono in diverse parti della terra e colpiscono l’umanità in modo inaspettato ma continuo. Si potrebbe concludere che la pace è irraggiungibile. Tuttavia, come quel padre, gli uomini di religione si aggrappano alla loro fede nel Dio della pace per non piegarsi alla fatica che accompagna una grande lotta. Sanno che nelle loro mani c’è un’arma che è stata loro data da Dio stesso: l’amicizia e l’intimità con Lui. La misericordia del Dio della pace si elargisce sulla terra, e perciò un sogno di pace non è impossibile. Anzi, il sostegno del Signore sorregge la preghiera di quelli che alzano le mani verso di lui. Aronne e Ur hanno sostenuto le mani di Mosè in preghiera. La fede e l’amore sostengono coloro che lavorano per la pace in quella che è la prima opera di qualsiasi comunità di credenti: la preghiera. La preghiera si trova dunque alla radice della pace. Non c’è pace senza invocazione a Dio, il quale, come si canta nel libro di Giuditta, «stronca le guerre» (16,2).
Il professor Andrea Riccardi, in un bel libro intitolato La pace preventiva ha mostrato come la pace è il vero orizzonte di una umanità riconciliata. Orbene, la preghiera è il modo di attuare la pace. Fa la pace colui che prega con tutto il suo cuore e con tutta la sua forza perché il Signore disarmi i violenti, faccia dileguare la violenza come la nebbia e così cresca un albero rigoglioso che dia riparo agli uomini e ai popoli di buona volontà. Questa è la storia bella di una trattativa di pace che sedici anni fa finì di germogliare a Roma il giorno di San Francesco nella sede della Comunità di Sant’Egidio. Dopo più di due anni di negoziato le parti in conflitto divennero parti amiche. Il miracolo - parlare in questo modo non è abusivo, tenendo conto che la guerra civile in Mozambico aveva già fatto un milione di vittime - avvenne perché ci fu «dietro» i negoziatori una schiera di uomini e donne che volevano la pace e che la chiedevano a Colui che rende possibile quello che sembra impossibile. La pace è arrivata dopo la preghiera perseverante e fedele di molti che, a Roma, in Africa e in tante comunità di Sant’Egidio, sostenevano con la loro preghiera le persone che cercavano di vincere l’inimicizia oppure che aiutavano a creare la speranza in un paese in pace.
La pace si radica nella preghiera perché essa contribuisce a illuminare il presente con la visione di un futuro diverso. C’è una crescita all’interno dei cuori promossa e accompagnata da Dio, in modo che irrompa un vento di pace che coinvolge tutti e renda la pace bella e desiderabile, oltre qualsiasi considerazione. La pace è il bene, non soltanto un bene. È il dono finale e definitivo di Dio all’umanità, e perciò ogni volta che cresce hic et nunc, qui e adesso, vengono anticipati il cielo e la terra nuovi. Come ricorda il libro dell’Apocalisse di Giovanni, c’è un albero che guarisce le nazioni (22,2). È l’albero di vita e di pace che risana le ferite della violenza tra popoli e uomini e dà frutti ogni mese dell’anno: dodici raccolti. Non c’è spazio per la guerra: ogni spirito immondo di violenza e distruzione viene scacciato.
Ma ci vuole la preghiera. Riprendendo il brano evangelico con cui abbiamo iniziato, si legge che, arrivati a casa, i discepoli, pieni di vergogna perché non avevano potuto scacciare lo spirito che stava uccidendo quel fanciullo chiesero a Gesù le ragioni del loro fallimento. Gesù rispose: «Questa specie di dèmoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera». La preghiera viene presentata come lo strumento necessario e unico per rubare il posto alla violenza e allontanarla dalla vita degli uomini. Non si può costruire la pace senza chiederla, non c’è riconciliazione senza invocazione, non c’è un mondo diverso senza il dono che scende dal cielo e rende fertile la terra. La guerra, e in genere ogni sorta di violenza, appartengono a quella specie di male che resiste in maniera tutta particolare perché si basa sull’affermazione di se stessi. Non a caso lo spirito che dominava quel fanciullo era «muto e sordo», cioè non conosceva la parola né l’ascolto. Forse la violenza è una malattia del cuore che è diventato orfano del dialogo, che non sa più parlare e soltanto ascolta se stesso. Forse la preghiera, che è ascolto e parola, fonda la pace perché pone le basi per il dialogo tra gli uomini dopo che si è imparata l’amicizia con il Dio che si rivela in modo personale e diretto.
La preghiera è alla radice della pace perché la forza di Dio si trova all’inizio e alla fine di ogni impresa umana, specie di quelle che richiedono un impegno più deciso e perseverante. Occorre però rivolgersi a Dio con cuore puro e «senza stancarsi», come la vedova della parabola di Gesù che ottenne quello che cercava soltanto dopo una lunga attesa. Nella costruzione della pace l’attesa si protrae perché il cuore degli uomini deve cambiare. E sappiamo bene che la conversione richiede tempo! Deve cambiare il cuore di colui che prega e deve cambiare il cuore di colui per cui si prega, sia amico o nemico. La preghiera per la pace è così espressione dei tempi lunghi in cui si muove la durezza del cuore degli uomini, sempre pronti a discutere ma tardi a cambiare. Soltanto la magnanimità di Dio risparmia l’umanità dal disastro che è l’assenza di parola e di dialogo, quella porta che fa cadere la città degli uomini nelle mani della violenza, e suscita una preghiera sincera e fedele. Soltanto la misericordia e la pazienza di Dio, per il quale mille anni sono «come il giorno di ieri» o «come un turno di veglia nella notte» (Salmo 90,4), fanno sì che gli uomini capiscano che non c’è mai una lunga attesa né stanchezza né disillusione quando si tratta di stabilire rapporti di pace. La preghiera nutre la pace nella consapevolezza dei tempi lunghi sia del cuore, che deve cambiare, sia di Dio che raccoglie l’invocazione e aspetta pazientemente che la pace sia raggiunta.
Nel terzo salmo graduale o “delle ascensioni”, il Salmo 122, si esprime la gioia di tanti che salgono a Gerusalemme, città di pace, «salda e compatta». Il corteo di pellegrini si ferma alle sue porte ed arriva alle sue mura con un augurio che diventa un clamore: «Su di te sia la pace!» È la benedizione più grande che si può rivolgere a qualcuno, il bene più amato e desiderato, frutto soprattutto della giustizia. Ma questo augurio si accompagna con una preghiera: «domandate pace per Gerusalemme». Vicini alla città che tanti credenti ritengono santa, vediamo in Gerusalemme un segno dell’amore di Dio e al contempo un segno del convivere a cui è chiamata l’umanità intera. Chiediamo dunque che ogni popolo della terra, rappresentato da Gerusalemme, abbia sempre le porte aperte e senza sbarre e sia illuminato dalla gloria di Dio e dell’Agnello. Che l’umanità diventi una grande città di pace, amica e ospitale!