Grazie alla Comunità di Sant’Egidio perché oltre a porre una questione importante su cui si discute malvolentieri e poco, la pone in un progetto che credo sia assai opportuno. Cioè il tema generale della discussione, della ricostruzione dell’unità. Per dirla con uno slogan forse un pò banalizzante, dell’esigenza di costruire ponti anziché muri, in una stagione invece in cui si costruiscono molti muri.
E porre in questa discussione il tema del carcere significa interrogarsi sul tema cosa succede a una istituzione che è fatta di muri quando si costruiscono altri muri. E’ una risposta complessa da dare per la quale io vorrei partire da … (sempre l’ho fatto) mantenendo la metafora edilizia, da un punto. La nostra Costituzione (faccio un architettura del carcere) all’articolo 27 dice che il carcere deve corrispondere a un senso di umanità e la pena deve tendere alla riabilitazione. Fu scritto da persone che avevano conosciuto il carcere in una feroce dittatura. Però un edificio, anche un ponte ha bisogno di fondamenta solide, ma anche di un terreno intorno che in qualche modo sia in grado di tenerle queste fondamenta . Ora il tema che credo ci dobbiamo porre è questo: le fondamenta, se queste sono le norme, nel corso del tempo sono molto migliorate. Il terreno intorno è progressivamente peggiorato. Per cui resta ancora valido un monito che Filippo Turati lanciava all’inizio del 900 rivolgendosi a un distratto Giovanni Giolitti in un celebre discorso che fu intitolato “il cimitero dei vivi” nel quale lanciava un monito, non è scritto da un segno del destino che le nostre carceri debbano essere seminari di criminalità.
La riforma del 75 ha sicuramente determinato uno spartiacque, un passo in avanti molto importante, la prima attuazione di quelle indicazioni costituzionali. E però nel frattempo è cambiato il senso comune. Il carcere, come è stato detto, è stato utilizzato per affrontare temi di carattere sociale in particolar modo l’immigrazione e la droga. E‘ stato utilizzato come elemento fortemente simbolico, come elemento di rassicurazione di una società inquieta. E questo ha avuto degli effetti materiali, degli effetti concreti, il primo è stato il sovraffollamento carcerario. Noi siamo arrivati ad un certo punto ad avere quasi 68mila detenuti a fronte di 44mila posti disponibili. Abbiamo affrontato questo tema e in parte lo abbiamo risolto. Attualmente i detenuti oscillano tra i 53mila e i 54mila a fronte di 50mila posti disponibili. Il terreno intorno è migliorato? Non ne sono sicuro, perché credo che accanto a norme nuove su cui stiamo lavorando, questo è stato il senso degli Stati Generali. Si tratta di cambiare il senso comune della società che è intorno. Se non cambia il modo in cui la società non cambia il carcere, anche una gran parte delle norme che sono state via via introdotte, rischiano di essere fortemente depotenziate. Voglio solo fare alcuni esempi molto brevi. Questo è stato il senso degli Stati Generali. Scrivere nuove norme ma anche aiutare a cambiare il senso comune che si è fortemente deteriorato su questo tema. E per questo non abbiamo chiamato soltanto addetti ai lavori, non abbiamo chiamato soltanto magistrati, il volontariato o operatori del sistema penitenziario. Abbiamo chiamato anche persone che si occupavano di altro, ma che avevano incrociato il tema del carcere nella loro esperienza professionale. Dagli psicologi che non necessariamente avevano avuto una esperienza dentro al carcere, agli architetti che non necessariamente si erano occupati di carcere. Uno dei problemi di una struttura autorefente come il carcere è quello di produrre dibattiti autoreferenziali. Il tema che credo sia balzato agli occhi di chi si è occupato di questo tema è stato quello che è stato colto dalla signora Zuccari. Noi ci troviamo di fronte a un sistema che costa al contribuente circa 3 miliardi di euro l’anno e che genera il 67% di recidiva tra gli italiani e il 37% tra gli stranieri. Tutto questo ulteriore incremento di ricorso al carcere è stato raccontato come la via per la sicurezza. In verità è stato generato totalmente il contrario. Il carcere è divento esso stesso, a fronte di un trattamento che è fortemente passivizzante, la scuola di formazione per la criminalità a spese dei contribuenti. Come intervenire? Cambiando dei paradigmi e qui si discute del cambiamento dei paradigmi. Il paradigma che credo deve modificarsi, e questo è il senso che noi vogliamo dare all’esercizio della delega che stiamo votando in questo momento parlamento, è questo. Non guardare al momento dell’ingresso del detenuto ma al momento dell’uscita. Guardare al momento dell’uscita significa, col sistema del reinserimento non soltanto come elemento corrispondente all’indicazione costituzionale, ma come elemento di costruzione di sicurezza della società.
Cambiare il senso comune, cambiare questo approccio è un tema fondamentale, lo citerò molto rapidamente … ma voi capite che in un sistema come il nostro dove per fortuna il giudice non è la bocca della legge ma è l’interprete della legge, il senso comune influenza fortemente il modo in cui la legge viene applicata. Penso in primo luogo alla concessione delle pene alternative. E’ chiaro che in una stagione in cui una cultura sicuritaria diventa dominante la propensione a concedere le pene alternative diventa assai più contenuta. E nonostante questo devo dire che sono stati fatti dei progressi importanti. Quando il nostro Governo si è insediato le pene alternative comminate nel nostro Paese erano circa 15mila, attualmente sono 40mila le persone sottoposte all’ esecuzione penale esterna. Abbiamo voluto costruire un dipartimento che è stato fatto soltanto di questo, perché dentro un dipartimento più grande che si occupava di carcere le pene alternative rischiavano di essere inevitabilmente la cenerentola del funzionamento del sistema. Abbiamo posto il tema della equiparazione della sanità dentro il carcere, fuori al carcere. C’è una legge che è stata approvata dal parlamento da tempo. Ma anche qui la legge c’è, abbiamo fatto degli importanti passi avanti in questa direzione. Ma risulta evidente che in una temperie nel quale il carcere viene concepito come parte estranea alla società, risulta diminuire le energie e i mezzi e le stesse professionalità che sono state destinate all’attività sanitaria all’interno del carcere. Ecco perché è importante cambiare il senso comune. E cambiare il senso comune significa anche affrontare di petto un tema che viene spesso utilizzato come strumento di propaganda dagli imprenditori della paura, il tema delle vittime. Il tema delle vittime viene utilizzato come presupposto alla richiesta di incremento di pene. Quando si vuole edulcorare si parla ci certezza della pena. Ma il tema delle vittime è il modo di nascondere una richiesta … In verità noi crediamo che nella struttura passivizzante del trattamento, come purtroppo ancora oggi è negli istituti del nostro paese, nonostante una importantissima attività che svolge il volontariato e un importantissimo sforzo che compiono molti operatori, la struttura passivizzante del trattamento non restituisce nulla alle vittime. Il paradosso è che dopo tanti anni di inasprimenti di pene, dopo tanti anni di campagna elettorale condotti sul tema delle vittime, il nostro paese si è dotato di un fondo per il risarcimento delle vittime per i reati minori soltanto lo scorso anno. Se le vittime fossero state davvero al centro dell’attenzione forse quella era la prima cosa da fare
In verità noi abbiamo sperimentato il tema e l’importanza della giustizia riparatoria come strumento attraverso il quale effettivamente si riesce a restituire qualcosa alle vittime. Nella giornata in cui abbiamo concluso gli Stati Generali dell’esecuzione penale nel carcere di Rebibbia, un appuntamento molto partecipato, il momento più toccante per me è stato quando è intervenuta Sabina Rossa la figlia di un dirigente sindacale che è stato ucciso dalle Brigate Rosse e nel suo intervento ha detto: “il momento in cui sono stata più felice è stato quando hanno dato la libertà vigilata a uno degli assassini di mio padre, perché è stata la fine di un percorso nel quale avevo visto che questa persona aveva riflettuto su ciò che aveva fatto”. Quante vittime possono dire questo rispetto ad un sistema che funziona in modo standardizzato che applica la stessa pena a comportamenti tra loro diversi. Il senso che vogliamo dare all’esercizio della delega è appunto questo: personalizzare il trattamento, tenere conto certo questo è inevitabile della gravità del reato, ma anche del comportamento che il detenuto ha nella fase di esecuzione della pena. Riconoscere se c’è un elemento di cambiamento, di trasformazione e in un base a questo costruire questo tipo di percorso. Naturalmente questo comporta per lo Stato un onere molto più significativo di quello che è in grado di mettere in campo oggi, perché significa riempire il trattamento di contenuti.
Lo scorso hanno abbiamo siglato un protocollo con il ministro della pubblica amministrazione per garantire l’accesso all’istruzione all’interno del carcere. Stiamo facendo un importante lavoro con il ministero del lavoro anche se i tempi di scarsità di lavoro all’esterno è difficile reperire il lavoro per il carcere. Tuttavia questa è una direttrice sulla quale ci stiamo muovendo. E poi consideriamo anche noi l’accesso al culto come un elemento qualificante del trattamento. Lo è sicuramente per gli elementi che sono stati richiamati, lo è anche come potentissimo elemento di contrasto dei fenomeni di radicalizzazione all’interno del carcere. Questi elementi sono quelli che stiamo portando avanti con qualche risultato ma con grandi difficoltà. Da ultimo abbiamo siglato un protocollo che posto il tema della pena impropria che viene comminata ai figli dei detenuti. E’ stato firmato un protocollo che ha proprio il tema dei bambini figli dei detenuti e delle modalità attraverso le quali accedono alla struttura penitenziaria. Devo dire che con una certa sorpresa, perché il corpo del nostro dipartimento è un corpo pesante, quindi che stenta a cambiare, con una certa sorpresa abbiamo registrato come sono attualmente 171 gli istituti che hanno approntato degli spazi idonei a quelli dei bambini nel momento in cui incontrano i genitori. Non è naturalmente la rivoluzione che dovremmo realizzare, ma sicuramente un segno che fa sperare, che da il senso di una attenzione anche in una struttura così sclerotizzata come inevitabilmente è una istituzione totalizzante.
Io vorrei concludere con una piccolissima riflessione di carattere politico se mi consentite. La cosa di cui sono più orgoglioso nella mia attività al ministero della Giustizia, è dell’avvio, perché ancora non possiamo dire che sia concluso, quella della fase di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Gli Ospedali psichiatrici giudiziari erano un carcere sostanzialmente, nelle quali le persone venivano messe senza una condanna, in condizioni spesso peggiori del carcere. Nel periodo di transizione noi abbiamo chiesto ai magistrati di sorveglianza di verificare l’effettiva pericolosità delle persone che erano rinchiuse in questa strutture. Erano 1200 o qualcosa in più. Circa 600 si è scoperto che avevano cessato qualsiasi forma di pericolosità sociale. Erano là prigioniere, erano dimenticati là. Persone che hanno scontato spesso anni e anni di vera e propria reclusione talvolta anche con trattamenti degradanti. Eppure il giorno che abbiamo avviato questo percorso un esponente politico di grande visibilità, diciamo così, ha scritto su Facebook un post nel quale ha detto “da domani ci saranno 200 mostri che gireranno per le vostre città e che metteranno a repentaglio la vostra vita”. A me non ha colpito tanto questo post perché questo è il modo in cui in questa stagione spesso si raccoglie il consenso. Mi ha colpito il fatto che tranne la mia difesa di ufficio, quel provvedimento non fosse difeso da nessuno. Eppure c’è stato in questo paese un fronte ampio che ha chiesto il superamento dei manicomi, un fronte ampio che ha chiesto la revisione della natura delle istituzioni totalizzanti. Eppure c’è stato in questo paese un fronte che saputo affermare complessivamente l’esigenza dei diritti e non soltanto di alcuni diritti. E soprattutto dei diritti delle persone che non sono in grado di far valere i propri diritti. Ecco questo lavoro che noi abbiamo fatto , in questa temperie, lo voglio dire davvero senza nessuna retorica, e’ stato possibile perché ci sono state mosche bianche che nella società hanno combattuto delle battaglie, io ne vorrei citare qualcuna come Marco Pannella. Ci sono stati Presidenti della Repubblica che hanno saputo indicare questa direzione di marcia. Ma se abbiamo retto all’onda d’urto della reazione che costantemente c’è ogni qual volta si fa qualcosa per umanizzare il carcere. Perché questa è la reazione costante che spesso viene cavalcata dai mezzi di comunicazione che depotenziano i provvedimenti che arrivano in Parlamento con una ambizione più alta. Ecco se lo abbiamo potuto fare è perché in questi anni ci hanno accompagnato le parole di papa Francesco. Lo dico da laico, ma ne sono seriamente convinto. E per questo motivo che da laico ho aderito con entusiasmo all’idea di un Giubileo dei detenuti che si terrà a novembre, e che abbiamo voluto far precedere da una operazione che vuole in qualche modo corrispondere a quello spirito. Abbiamo con il Comune di Roma messo al lavoro in articolo 21 100 detenuti che lavorano alla manutenzione della città in vista di questo appuntamento, che hanno pensato anche ai servizi ai pellegrini così come in una esperienza precedente lo hanno fatto ai visitatori delle scuole. Credo che questa sia la strada, c’è da costruire non retoricamente ma con i fatti un ponte, che sia quello che costringe la società a riflettere sul fatto che il carcere è parte della società e non un pezzo distinto. Non è il luogo attraverso il quale rinchiudendo degli esseri umani si esorcizzano i propri problemi . Troppo spesso il carcere è stato utilizzato così. Ora mi perdonerete la citazione che forse suonerà strana, posta da me, ma quando Dio decide di non dar corso alla vendetta su Caino disse due cose. Disse che non doveva morire e che doveva essere protetto dalla vendetta. Lì c’è la radice dalla quale credo non possiamo prescindere. Il riconoscimento della dignità della persona qualunque cosa abbia fatto. Dirlo così tutto d’un fiato in questa stagione è molto complicato. E però è la cosa che noi dobbiamo provare a dire se vogliamo, da servitori dello Stato se vogliamo far diventare quell’architettura scritta dalla Costituzione una edificazione che anche i nostri figli possano vedere e da questa imparare qualcosa. Grazie.