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E’ paradossale che un ex-ministro della Città sia chiamato davanti a voi a parlare di solitudine. In tutte le civiltà, se gli uomini hanno costruito delle città, è proprio per sottrarsi all’isolamento, per aprire il loro spirito e il loro cuore ad altri orizzonti oltre quello del cortile di casa propria o del villaggio. La città è un centro di scambi, questa è la sua prima definizione.

Tuttavia è giusto richiamare la nostra attenzione su questo - uno dei problemi principali delle nostre città moderne (con la violenza) è la solitudine che esse generano. Spingiamo il paradosso alle sue estreme conseguenze: più le città moderne sono grandi, e più la solitudine crea disastri (devastazione) Perché? Bisogna risalire alle cause!  Vorrei dire qualcosa a tal proposito. Poi mi piacerebbe vedere con voi come ri-umanizzare la città, farle giocare di nuovo il suo ruolo di collegamento (connessione, legame, contatto) tra le persone, di catalizzatore di iniziative dove ognuno possa trovare il suo posto. Il nostro destino comune è "l’amicizia sociale", come diceva Aristotele, venticinque secoli fa. Questa considerazione concerne le nazioni nel loro insieme, ma ogni nazione e ogni città al suo interno. Io penso che la solitudine non sia una fatalità inevitabile, ma bisogna prendere le cose per il verso giusto.

Prima di tutto, risalire alle cause.

I.        Intervenire sulle cause 

In un libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1950 e portato in Francia nel 1964, The Lonely Crowd (La folla solitaria), il sociologo americano David Riesman ha evidenziato la rivoluzione generata dalla società dei consumi di massa.

L'individuo è più libero (questo è l’aspetto positivo) ma anche abbandonato a se stesso (qui è la tragedia della solitudine). Oggi, nel 2012, constatiamo che tutti, nei paesi sviluppati, hanno guadagnato in autonomia, ma la vita comune spesso non ha più senso, le persone sono infelici e non hanno nessuno a cui voler bene.

Penso che dobbiamo rimettere in discussione questo « liberalismo “ che sottomette tutto al desiderio di prendere, di consumare – le persone, le cose, subito, senza impegno - senza alcuno scopo profondo. Bisogna condurre un’azione sulle mentalità, questa è la sfida più difficile, più rischiosa, ma senza di questo è vano sperare di costruire di nuovo dei legami.

Questa azione si realizza prima di tutto nell’educazione: nelle nostre megalopoli, la segregazione urbana (concentrazione di gruppi a statuto economico precario, di cui una buona parte proveniente dall’immigrazione) si è potenziata una segregazione educativa (i bambini incontrano solo altri bambini i cui genitori condividono lo stesso status sociale). Per raccogliere la sfida della coesione sociale è urgente permettere che i bambini crescano tutti insieme, perché imparino a conoscersi piuttosto che a farsi paura. E’ fin da bambini che si impara a tessere legami.

 

Per fare questo bisogna ridare valore all’impegno durevole nelle relazioni interpersonali, alla parola data, all’apertura agli altri. C’è un solo luogo che, universalmente, consente questo apprendimento ed è la famiglia. Il mio messaggio è questo: agire sulle cause della solitudine moderna significa principalmente sostenere la famiglia.

 

II.      Sostenere la famiglia

E’ forse un caso se i drammi della solitudine si moltiplicano, se i rapporti fra gli uomini si fanno più tesi, se la violenza trasforma in una giungla molti quartieri delle grandi città proprio mentre la Famiglia subisce delle tempeste terribili? Famiglie frantumate, bambini re e bambini orribilmente rifiutati, matrimoni ridicolizzati o vuotati del loro senso, e ora anche l’alterità uomo/donna incompresa, attaccata, negata… La Famiglia non è più riconosciuta per quello che è e per quella cellula di base della società, su cui l’Europa per millenni ha costruito tutti i suoi legami di solidarietà.

E’ la famiglia il solo luogo dove coesistono naturalmente l’obbligo (nell’impegno reciproco degli sposi alla fedeltà nel tempo) e l’amore. E’ dunque il solo vero luogo di apprendimento delle relazioni sociali. Attraverso l’accoglimento dei figli vi si impara l’apertura all’altro e alla vita. Attraverso l’educazione dei bambini vi si impara a donare gratuitamente il proprio tempo, i propri talenti. Vi si impara il legame fra le generazioni (nonni, zii e zie, cugini…) e la consapevolezza del debito verso quelli che ci hanno preceduto. Vi si impara e si parla la lingua materna come un’eredità comune, e questo introduce ognuno al senso di appartenenza. E la Famiglia è il solo ambito sociale che ti accompagna dalla nascita alla morte, con i suoi ricordi felici o dolorosi, i suoi punti di riferimento, le radici. Una famiglia forte è l’antidoto alla solitudine.

Penso che nei nostri paesi dobbiamo fare di tutto per rivalorizzare e rafforzare l’impegno del matrimonio, per aiutare le giovani coppie ad accogliere la vita e a far crescere bene i loro bambini, per permettere ai nonni e ai bisnonni di svolgere il loro ruolo di trasmissione ai più giovani (eterogeneità di generazioni negli alloggi…).

Esistono numerose iniziative in questa direzione. In Francia, il governo precedente, su istanza dei movimenti di famiglie, aveva cominciato a riflettere sulla possibilità di una preparazione al matrimonio civile e a tutte le forme di impegno che esso comporta (in senso civico, sociale, economico, morale…). Una volta perso il senso stesso dell’impegno reciproco, è necessario riprendere le cose alla radice.

 

III.    Una dimensione umana e una società mista

Bisogna uscire da questa idea che più una città è grande e più i suoi abitanti sono potenti e felici. Le nostre megalopoli producono delle periferie sinistre, l’anonimato delle folle non permette di arginare la violenza. Si creano separazioni di tutti i tipi, si perde il gusto di vivere, passeggiare, intrattenersi, incontrare l’altro.

Dobbiamo ripensare l’organizzazione dei nostri paesi a profitto di quella numerose città di medie dimensioni di cui la nostra Europa è così ricca e che conservano tutte nel loro centro il cuore pulsante della loro storia. Sono consapevole di parlare oggi in una città sconvolta oggi dalle lacerazioni, le sofferenze, le privazioni. Ma Sarajevo, grazie al suo coraggio, è stata anche testimone della speranza. Parlo oggi in una città carica di storia, una città che vive, ama, piange. Una rete di legami che viene da molto lontano.

In tempo di pace e per custodire la pace, la presenza di un tessuto di città a dimensione d’uomo è una forza di coesione sociale.

Non credo alle politiche urbanistiche che sono politiche di ghetti, dove si investono miliardi per preservare quartieri sfavoriti senza tirarli fuori dal loro isolamento. Al contrario, noi dobbiamo fare di tutto per favorire il mixing sociale e generazionale, fin nel centro delle città, fino all’interno degli immobili. Con intelligenza, certo! Bisogna incoraggiare, non forzare. Dare i mezzi per una coabitazione riuscita fra ambienti sociali e generazioni differenti. Le istituzioni pubbliche possono molto per rompere l’isolamento delle persone e l’ingranaggio della violenza e per creare armonia nelle relazioni fra gli uomini. Perché, in fin dei conti, sono loro che hanno in carico il destino comune.