Nell’antico mondo pagano la ricchezza era apprezzata per la sua qualità di bene indiscusso e condizione imprescindibile di vita felice, mentre gli indigenti non suscitavano simpatia e tanto meno compassione. L’antichità greco-romana non si accorgeva dell’esistenza dei poveri.
Riscontriamo un atteggiamento inappuntabile verso la povertà nella tradizione ebraica. Qui l’atteggiamento verso i poveri è sempre stato di evidente simpatia. Nell’insegnamento etico dell’Antico Testamento l’attività caritativa è definita coma la prima opera, indilazionabile. Ad esempio, nel libro del Siracide leggiamo: «Tuttavia sii paziente con il misero, e non fargli attendere troppo a lungo l’elemosina. Per amore del comandamento soccorri chi ha bisogno, secondo la sua necessità non rimandarlo a mani vuote. Perdi pure denaro per un fratello e un amico, non si arrugginisca inutilmente sotto una pietra. Disponi dei beni secondo i comandamenti dell’Altissimo e ti saranno più utili dell’oro. Riponi l’elemosina nei tuoi scrigni ed essa ti libererà da ogni male» (Sir 29, 8-12). Invece il libro del profeta Daniele addirittura promette esplicitamente a chi si occupa dei poveri il perdono dei suoi peccati: «Sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti» (Dan 4, 24).
Tuttavia l’Antico Testamento intendeva l’attività della carità esclusivamente nei confronti del proprio popolo, per di più scacciando e respingendo i nemici e gli stranieri. La legge dell’Antico Testamento severamente e coerentemente traccia un confine tra i propri e gli stranieri: «Potrai esigerlo dallo straniero; ma quanto al tuo diritto nei confronti di tuo fratello, lo lascerai cadere» (Dt 15, 3). Sulla propria terra l’israelita doveva aiutare ogni bisognoso (Dt 15, 7-11) e non prendere da lui nessun interesse né utile (Es 22, 25-27; Lv 25, 35-37), mentre allo straniero poteva prestare a interesse (Dt 23, 20). Esisteva anche una divisione tra l’uomo pio, che merita incondizionatamente aiuto, e il peccatore, a cui si può rifiutare il sostegno: « Se fai il bene, sappi a chi lo fai; così avrai una ricompensa per i tuoi benefici. Fa’ il bene all’uomo pio e avrai la ricompensa, se non da lui, certo dall’Altissimo» (Sir 12, 1-2).
Ma, ciononostante, già nei discorsi dei profeti e nei libri sapienziali dell’Antico Testamento sono presenti nobili giudizi sull’attività caritativa. Così, il saggio Salomone nei Proverbi supera di fatto una visione strettamente nazionale della carità, cancellando il limite tra i propri e gli estranei: «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere» (Pr 25, 21). Il Nuovo Testamento e la tradizione cristiana non contengono più nessuna restrizione per l’attività caritativa. Il comandamento evangelico rende la carità assoluta: la legge della carità comanda di dare a chiunque chiede (Lc 6, 30).
Dai primi secoli dell’esistenza della Chiesa la cura dei poveri diventa una componente importante della vita del cristiano. Già il libro degli Atti dice che l’istituzione del diaconato fu creata, prima di tutto, per la cura dei poveri. Dal V secolo la Chiesa occidentale si è impegnata a stanziare un quarto delle proprie entrate per la cura dei poveri. Allo stesso tempo si cominciarono a comporre speciali elenchi di coloro che ricevevano un regolare sussidio.
Nel periodo dell’alto medioevo osserviamo a occidente un dibattito straordinariamente interessante sull’essenza della povertà evangelica. Proprio allora, nella vita religiosa dell’Europa, nasce il fenomeno degli ordini mendicanti, e la stessa povertà diventa per molti un preciso ideale spirituale.
Tutto ciò ci fa riflettere anche oggi su come la Chiesa intenda teologicamente il fenomeno della povertà. È pienamente evidente che alla luce della rivelazione evangelica i concetti di «povertà» e «ricchezza» si recepiscano in maniera particolare. Nella Chiesa le caratteristiche della ricchezza e della povertà sono completamente diverse. Gli autentici «ricchi» sono i poveri di spirito, mentre i «poveri» sono gli arricchiti dai propri beni terreni. I ricchi hanno sempre servito la Chiesa, i poveri li ha serviti la Chiesa stessa. La psicologia ecclesiastica è direttamente opposta alla psicologia, spesso osservata nel mondo, dove i poveri prestano servizi, mentre i ricchi accolgono i loro servizi come qualcosa di dovuto.
L’arcivescovo Ioann (Šachovskoj) una volta ha notato una cosa paradossale: «I poveri possono arricchire i ricchi … I ricchi impoverire i poveri». Una persona povera materialmente può con l’elevatezza e la purezza del suo spirito elevare, arricchire spiritualmente una persona materialmente più benestante. E al contrario: un ricco spiritualmente povero «impoverisce», svuota spiritualmente il povero che è in contatto con lui.
Il cristianesimo non obbliga a fare la carità. Ma fare il bene è un dovere universale, non legato al benessere della persona. Fare il bene è un modo per dimostrare quell’amore verso il prossimo che costituisce l’«anima» del cristianesimo. L’attività caritativa, secondo le parole di san Gregorio di Nissa, «tiene in vita, è la madre degli indigenti, la maestra dei ricchi, la buona educatrice dei bambini, la tutrice degli anziani, la tesoreria dei bisognosi, il comune rifugio degli infelici; essa distribuisce le sue cure a tutte le età e disgrazie».
L’attività caritativa dell’uomo si basa sul desiderio di imitare la misericordia di Dio: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6, 36). «Sii per l’infelice un dio, imitando la carità di Dio. La nostra carità sia uno specchio per vedere in noi stessi la somiglianza e la vera immagine che sono nella natura divina e nella sostanza divina» – dice Gregorio il Teologo.
Secondo l’insegnamento evangelico, chi compie il bene verso il prossimo lo compie verso Dio: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25, 40). «Quando vedi un povero ricordati le Sue parole…e sebbene chi ti appare non sia Cristo, tuttavia sotto l’immagine di questo poveraccio Egli stesso chiede e accoglie» - insegna san Giovanni Crisostomo.
La carità e la beneficenza come manifestazione dell’amore per il prossimo servono all’uomo da caparra della giustificazione davanti al tribunale di Dio. Il Signore renderà a chi ha compiuto il bene: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7) e condannerà chi ha negato l’aiuto al prossimo (Mt 25, 31-46). San Giovanni Crisostomo dice: «Da’ il pane e prendi il paradiso; da’ il piccolo e prendi il grande; da’ il mortale e prendi l’immortale; da’ il corruttibile e prendi l’incorruttibile […]. Nel giudizio di Dio l’elemosina si solleverà e ti difenderà… L’elemosina è il riscatto dell’anima».
L’attività caritativa non consiste soltanto nel dare il cibo, o il vestito, o un aiuto materiale in generale a qualcuno che ha bisogno, ma deve avere un carattere educativo: occorre condurre la persona fuori da quella condizione pesante, spesso pericolosa dal punto di vista morale, a cui l’ha condotta la povertà, quando la persona comincia a ripiegarsi su se stessa e a far ardere nel proprio cuore rancore verso Dio e odio verso il prossimo. «Se non hai né pane, né denaro, né perfino una tazza di acqua fresca – dice san Giovanni Crisostomo – piangi con l’infelice, e riceverai una ricompensa, poiché la ricompensa è data non per l’azione imposta, ma per quella libera; in qualunque situazione di povertà tu ti trovi, hai le gambe per visitare il malato e il prigioniero».
Un asceta diede il suo ultimo vestito a un poveraccio, e quando gli chiesero la ragione della sua nudità, egli, indicando il Vangelo che teneva appeso sul petto, disse: «Questo libro mi ha spogliato».
Basandoci su quanto detto finora, vediamo che la Chiesa cristiana non ha mai preferito i ricchi rispetto ai poveri, ma, al contrario, ha sempre servito le necessità degli indigenti. Il più grande dono che la Chiesa possiede, il mistero della santa Eucaristia, essa lo offre allo stesso modo a tutti coloro che accorrono, senza badare al loro status sociale e alla situazione finanziaria.