Viviamo in un mondo violento e armato, lo sappiamo bene. Ci sono troppe armi nel mondo, troppi interessi legati a esse, troppe risorse destinate a esse. Le armi fanno parte di quegli idoli potenti che non tramontano mai, anzi, sembrano acquistare nuova forza a ogni sviluppo delle scienze e delle tecnologie.
Io oggi vorrei attirare la vostra attenzione sulla dimensione più quotidiana di questo idolo potente. Quasi ogni giorno, le cronache delle nostre società ci parlano di atti di violenza armata consumati non solo da criminali o da fanatici ma anche da “gente normale”. E più si diffondono le armi, comprese quelle della cosiddetta “autodifesa”, più le si usa, più gente muore, più aumentano i pericoli e l’insicurezza.
Ma l’uso di un’arma normalmente è solo l’ultimo atto di una catena di violenze di una società che sempre meno sa e vuole risolvere i problemi e i conflitti ricercando una pacifica convivenza: si può dire che inizi dai banchi delle scuole, per passare nel privato delle famiglie, per arrivare in città disumanizzate e in rapporti di lavoro schiavistici.
Oggi in Italia e in molti paesi europei si sta rafforzando una particolare declinazione di questa violenza, armata e non armata: quella che colpisce gli immigrati.
Questa particolare violenza sta dilagando sull’onda di campagne razziste e xenofobe che non riusciamo a fermare né a contrastare efficacemente e che – quel che più conta – inizia a produrre vittime crescenti.
I dati degli ultimi mesi italiani sono allarmanti.
- a febbraio, a Macerata, un uomo ha tentato una strage sparando contro degli immigrati;
- a marzo è morto il senegalese Idy Diene, ucciso a Firenze;
- a giugno, a Vibo Valentia, il sindacalista Soumaila Sacko è stato ucciso mentre raccoglieva delle lamiere in una fabbrica dismessa;
- nello stesso mese a Caserta dei ragazzi hanno sparato contro due immigrati maliani.
- a luglio, a Roma, una bambina Rom è stata colpita alla schiena con un pallino di gomma.
- nello stesso mese a Vicenza, un 40enne ha ferito con un colpo di carabina un operaio africano al lavoro.
- ad agosto, a Pistoia, dei ragazzi italiani hanno sparato per gioco su un giovane del Gambia.
- a Partinico, a ferragosto, sei minori stranieri non accompagnati sono stati picchiati da un’intera famiglia.
- a Mortara, il 1° settembre, tre uomini di circa 50 anni hanno aggredito un giovane del Benin.
- ancora a settembre cinque ragazzi di Sassari hanno pestato un giovane richiedente asilo proveniente dalla Guinea.
Come dobbiamo definire tutto questo? Che cosa può spingere delle persone ad aggredire e colpire degli immigrati di colore se non quel mostro orrendo e violento che dobbiamo chiamare “razzismo”? Siamo stati distratti in passato o, negli ultimi mesi, c’è stata un’escalation di violenza razzista?
Da parte delle istituzioni giunge un messaggio rassicurante che minimizza: “Nessun razzismo, solo reazioni esasperate” per i troppi immigrati “che spacciano” e “stuprano” o dei “rom che rubano”. Insomma nessun allarme, semmai la “comprensibile” conseguenza di un’immigrazione troppo poco controllata e repressa.
No, troppo facile e troppo semplice. Queste violenze dichiarate e accertate, a volte armate, alle quali si aggiungono mille altri fatti che non arrivano sulle pagine dei giornali, non sono una ineluttabile casualità. Sono il frutto avvelenato di una campagna che disprezza chi emigra e trasforma l’“immigrato” in un “clandestino” e il “richiedente asilo” in un “illegale” che abusa della nostra accoglienza e della nostra disponibilità. Ma ora – è il messaggio che conclude ogni comunicazione su questa materia – “è finita la pacchia”.
“E’ finita la pacchia” per uomini, donne e bambini che scappano dalle torture nei campi profughi del Libano, dai bombardamenti in Siria, dalla guerra civile in Nigeria o in Mali. Ogni giorno sentiamo dire: “Avete abusato della nostra generosità e accoglienza, avete rosicchiato la nostra assistenza, avete vissuto alle nostre spalle ma ora il tempo è cambiato ed è finita la bella vita nei nostri CIE, nei nostri CARA, nei nostri CAS. A casa!”.
Potranno variare parole, toni e aggettivi ma questa è la sostanza del discorso politico a cui siamo messi di fronte.
E’ la distorsione e la banalizzazione del discorso istituzionale sulle immigrazioni la principale responsabile di questo “razzismo preterintenzionale” che possiamo percepire semplicemente allungando lo sguardo sul pianerottolo delle nostre case.
E questo mantra continuo condiziona anche noi: ripetuto all’infinito, ci immobilizza e ci fa perdere di lucidità, non ne cogliamo più la pericolosità sul piano delle relazioni sociali, delle scelte politiche e dei comportamenti individuali. Lo assumiamo come uno dei tanti discorsi di strada, emotivo e poco plausibile, ma ormai pienamente legittimato.
Legittimato fino a essere tradotto nel recente “Decreto legge Salvini” su immigrazione e sicurezza che pare riproporre antichi fantasmi di un diritto di sangue superiore rispetto a quello dei “nuovi cittadini” o degli “ospiti” del paese.
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“Shomer ma millailah?” è una domanda che folgorante irrompe nel libro del profeta Isaia. “Sentinella, a che punto è la notte, quanto resta della notte?” E la risposta sembra vaga, quasi un oracolo: «Viene la mattina, e viene anche la notte (La notte sta per finire ma il giorno non è ancora arrivato). Se volete interrogare, interrogate pure; tornate un'altra volta (a interrogare)» (Isaia 21,11, trad. Nuova Riveduta). Con la metafora della sentinella la Bibbia ci propone una vocazione a vigilare nel tempo buio della notte, nel tempo incerto e confuso nel quale non si scorge ancora l’alba e non si capisce quanto manchi alla prima luce.
In omaggio alla Regione italiana che ci ospita e a uno dei suoi artisti più conosciuti, mi piace ricordare che “Shomer ma millailah” è anche una canzone di Francesco Guccini del 1983. Vi invito ad ascoltarla e intanto condivido la prima strofa:
Io, la vedetta, l'illuminato,
guardiano eterno di non so cosa
cerco, innocente o perché ho peccato,
la luna ombrosa
e aspetto immobile che si spanda l'onda di tuono che seguirà
al lampo secco di una domanda,
la voce d'uomo che chiederà.
Insomma, la sentinella come metafora della vigilanza.
Un’immagine che troviamo anche nel profeta Zaccaria, rafforzata dall’idea che la sentinella vigila contro l’oppressore:
Mi porrò come sentinella per la mia casa
contro chi va e chi viene,
non vi passerà più l'oppressore,
perché ora io stesso sorveglio con i miei occhi (Zaccaria 9,8, trad. CEI).
Chiamati a vigilare, a percepire quello che altri che dormono non riescono a cogliere. Mi pare che questa immagine rappresenti bene ciò che noi come cristiani oggi siamo chiamati a essere, in questo tempo della confusione e della post-verità nel quale, per il solo fatto di essere ripetuta, amplificata e rilanciata dai social media, una falsità diventa una verità.
Disarmare la violenza per noi significa porci come sentinelle vigili, pronte a lanciare l’allarme, decise a dire la verità sul pericolo imminente.
Nelle scorse settimane la Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha lanciato un “Manifesto per l’accoglienza” in cui come protestanti italiano cerchiamo di dire alcune parole di verità sui migranti: ad esempio abbiamo detto che:
“Respingiamo la falsa contrapposizione tra accoglienza degli immigrati e bisogni degli italiani, perché un paese tra i più ricchi al mondo ha le risorse per garantire l’una e gli altri e perché sappiamo che, col tempo, anche i nuovi immigrati costituiscono una risorsa per un paese come l’Italia ad alto declino demografico”.
Ed ancora a tutti – ma ancor di più a chi ha responsabilità istituzionali – abbiamo chiesto “di adottare un linguaggio rispettoso della dignità dei migranti e di contrastare con gesti e azioni concrete atteggiamenti xenofobi e razzisti”.
Ed infine, vigilando sulle violazioni dei diritti umani e sul clima di violenza che sta crescendo contro gli immigrati abbiamo dichiarato di opporci “alle politiche italiane ed europee di chiusura delle frontiere, di respingimento e di riduzione delle garanzie di protezione internazionale dei richiedenti asilo”.
Questo abbiamo scritto e questo abbiamo affisso ai portoni delle nostre chiese. Lo abbiamo fatto come sentinelle disarmate che in mano non hanno un fucile ma la parola di Dio che ci sostiene e ci accompagna in un tempo oscuro. In una notte in cui, preoccupati ma fiduciosi ci chiediamo: “Shomer ma millailah”?