Buongiorno e grazie dell’invito a nome di Open Arms, l’organizzazione che qui rappresento.
Open Arms nasce nel 2015 da un’azienda che si occupa di offrire soccorso sulle spiagge catalane. In quell’anno, il nostro fondatore, Oscar Camps, rimase folgorato dall’immagine del corpo privo di vita, riverso su una spiaggia turca, del piccolo Alan Kurdi in fuga dalla Siria insieme alla sua famiglia. Come loro, migliaia di persone siriane si erano messe in fuga in seguito alla proclamazione dello “Stato islamico” nella seconda metà del 2014, entrando in Turchia, Libano e Giordania. Di lì a poco anche gli iracheni cominciarono il proprio esodo. Una delle rotte più battute in quel periodo per arrivare in Europa era quella marittima: attraverso la Turchia, le persone raggiungevano le isole greche più vicine, tra cui Coo, Lesbo, Samo e Chio.
Alla fine di quell’anno si conteranno, lungo quella frontiera, oltre 800.000 arrivi via mare.
La foto di Alan Kurdi fece il giro del mondo fino a divenire uno dei simboli di quanto stava accadendo, senza che l’Europa provvedesse a garantire il diritto di protezione di chi si era messo in fuga da Paesi in cui non poteva più vivere.
I soccorritori di quella che sarebbe diventata la Open Arms, decisero, proprio di fronte a quella morte, di andare a vedere cosa stava succedendo, con l’intento di mettere a disposizione le loro conoscenze e capacità pratiche in ambito di soccorso marittimo.
Lo scenario che si trovarono di fronte fu a tal punto drammatico da convincerli a rimanere nell’isola di Lesbo per diversi mesi e fondare la Open Arms. A partire da qui, negli anni, sono state coinvolte centinaia di volontarie e volontari da tutto il mondo, che hanno contribuito a trarre in salvo oltre 65 mila persone: quindicimila solo nei primi mesi.
Questa esperienza è emblematica perché dimostra come in ambito umanitario la preparazione e la conoscenza di un argomento permettano di affinare un intervento in grado di salvare sia la vita propria che quella altrui.
Oggi Open Arms opera nel Mediterraneo Centrale e attraverso ogni missione, ribadisce il significato del soccorso: ovvero che non è solo un diritto ma è anche un dovere. Le più antiche leggi marinare, come raccontano i comandanti delle navi, prevedono che chiunque si trovi in difficoltà in mare vada aiutato senza che ai naufraghi vengano poste domande sulla loro provenienza o destinazione. Il contrario, ovvero il mancato intervento, si configura come un’omissione di soccorso in capo a chi quel gesto non lo ha compiuto. Su questo semplice assunto, ricco di una storia centenaria, si basa l’intera legislazione sul diritto del mare, in cui il ruolo del comandante e quello degli Stati si rivelano centrali nel valutare la situazione di pericolo e prendere decisioni rispetto alla modalità di intervento.
A oggi, però, sono ancora migliaia le persone che ogni anno perdono la propria vita nel tentativo di raggiungere l’altra sponda del Mediterraneo chiedendo di essere protette.
Dal 2017 a oggi, a fronte di 680 mila persone arrivate in Europa attraverso il Mediterraneo, circa il 2 per cento è morta o scomparsa. Una cifra che corrisponde a 12 mila persone, 12 mila biografie, 12 mila famiglie che attendono di ricevere notizie. E questo numero raddoppia se si considera il periodo di tempo che va dal 2014 a oggi.
A ciò bisogna aggiungere il fatto che, anche chi riesce a raggiungere l’Europa, racconta di aver subito indicibili violazioni dei diritti umani - su una scala probabilmente più alta e più grave delle stime già allarmanti. Si tratta di una tragedia documentata, di lunga durata e ampiamente trascurata.
Nel 2013 il terribile naufragio che il 3 ottobre ha causato la morte di oltre trecento persone, ha dato avvio a un percorso che ha portato all'istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione e così ogni anno si ricorda chi è partito senza alcuna certezza di sapere cosa avrebbe trovato davanti a sé.
Chi, come molti di noi qui presenti, segue, commenta e si occupa di questi argomenti lo fa anche per poter continuare a raccontare quanto ha visto e quanto vede, per estrarre da quel buco nero che è la narrazione di massa ogni singola biografia e ridarle dignità.
Sappiamo quanto ciò sia difficile e quanto la rimozione sia una facile scorciatoia per non affrontare problemi difficili anche per il nostro Paese. Un Paese, il nostro, che purtroppo non è stato capace di fare della vicenda di emigrazione di quaranta milioni di italiani un positivo fattore dell’identità collettiva e dell’immaginario condiviso . Un Paese che, di conseguenza, ha difficoltà a riconoscere nei volti e nelle sofferenze di chi sbarca sulle nostre coste i volti e le sofferenze dei nostri nonni. E così, come accade anche per altri aspetti dell’immigrazione, si rischia anche di volersi “liberare” in fretta di un’esperienza importante e di un ricordo positivo quale potrebbe essere il soccorso prestato in un anno ai 135.000 migranti salvati dall’operazione Mare nostrum. Il nostro paese, ad oggi, non è stato capace di dare valore a quella straordinaria operazione di soccorso prestato a persone in pericolo di vita, operazione che avrebbe meritato continuità, dignità, che avrebbe meritato orgoglio. Un orgoglio per quanto il nostro Paese e la nostra Europa hanno potuto, e potrebbero ancora fare, un orgoglio capace di trovarci più cosmopoliti, più europeisti, più patriottici. Oggi invece la mano che abbiamo teso al prossimo sembra meritare addirittura vergogna, ne abbiamo dimenticato il valore.
In quanto esseri umani abbiamo il dovere di raccontare cosa continua ad accadere nel Mediterraneo centrale, poiché, a rifletterci bene, la pulsione etica che ha animato in questi due anni i medici dei nostri ospedali, assediati dal Coronavirus, è la medesima pulsione dei soccorritori che si trovano in mare. E la sola ipotesi, che spesso viene paventata, di una specie di classifica dei morti dovrebbe far rabbrividire.
Noi, insieme ad altre organizzazioni impegnate nel soccorso in mare, negli anni abbiamo chiesto con forza a chi si occupa di formulare le politiche in materia di gestione dei flussi che queste siano elaborate sulla base di dati verificati e coerenti e non adottando la strategia delle emozioni.
E’ per noi importante che sia promossa una missione di soccorso europea nel Mediterraneo a tutela del diritto alla vita e nel rispetto degli obblighi internazionali;
- che vengano revocati gli accordi con la Libia e il finanziamento della cosiddetta Guardia costiera libica;
- che siano impostate delle politiche in materia di immigrazione che vadano nella direzione dell’accoglienza, dell’integrazione, del riconoscimento della diversità come un valore e, ancor prima, della promozione e della tutela dei diritti umani fondamentali;
- che siano promosse le vie di accesso legali e sicure per chi è in cerca di un futuro più dignitoso, a cui non è data altra possibilità che percorrere rotte migratorie pericolose e irregolari per arrivare in Europa. Un esempio sostenibile e replicabile sono sicuramente i corridoi umanitari a cui si dedica da anni la Comunità di Sant’Egidio ai quali abbiamo, come Open Arms, avuto l’onore di collaborare nei mesi scorsi.
E infine, quello che ci auguriamo e che chiediamo è l’attuazione di una politica di gestione delle frontiere che sia davvero orientata alla salvaguardia della vita umana.