L’anticha saggezza dei rabbini, raccolta nella Mishnà, si interroga sul motivo della creazione di un solo uomo all’inizio del mondo. La risposta sottolinea l’importanza di un solo essere umano, di cui si afferma il valore pari al mondo nel suo insieme. Ecco le parole dei saggi d’Israele: «Se qualsiasi uomo provoca che muoia una sola persona, la Scrittura lo fa responsabile di aver provocato la morte del mondo intero; e se qualsiasi uomo salva e mantiene in vita una sola persona, la Scrittura lo fa responsabile di aver salvato e mantenuto in vita il mondo intero» (trattato Sanhedrin 4,5) (ed. Danby). In breve, si può affermare che, quindi, salvare una vita significa salvare tutto il mondo, tutta l’umanità. La ragione è chiara: se Adamo, il primo uomo, fosse stato ucciso, tutta l’umanità sarebbe morta con lui, e sarebbe sparita la possibilità di generare l’intera famiglia umana. Orbene, tutti siamo Adamo, come precisa Paolo (cf. Prima lettera ai Corinzi 15,22), e quindi tutti siamo uniti a lui come membri della stessa umanità. Tutti siamo uno, e la morte e la vita di uno raggiungono l’insieme degli uomini e le donne di tutti i tempi. Chi salva una vita salva il mondo intero.
Le conseguenze di questo principio sono enormi, particolarmente in un mondo dove aumentano sempre di più le vite indebolite dalle malattie, dall’età, dalle circostanze in cui uno vive o ha vissuto. D’altronde, i progressi compiuti nella medicina per guarire le malattie e la salvaguardia dei problemi di salute, sono straordinari. L’età media delle popolazioni nella maggior parte delle regioni del mondo, è salita esponenzialmente negli ultimi decenni. Gli anziani non sono più un’eccezione ma una realtà umana che coinvolge un’alta percentuale della popolazione mondiale.
Ma, allo stesso tempo, si può constatare una certa contraddizione. Da una parte, si ritiene che le terapie mediche che contribuiscono alla salute e quindi al prolungamento della vita sono una «benedizione» per tutti, specie per i giovani e gli adulti, che vedono diminuire le cause di morte per malattia rispetto alle precedenti generazioni. D’altra parte, molti pensano che, se la salute è precaria e le malattie colpiscono la persona, in modo tale che gli anni di vita in più possono diventare una «maledizione», sarebbe meglio abbreviare questa vita. Ma anche in questo caso, si deve mantenere il principio della vita protetta perché debole, accompagnata perché difficile, particolarmente amata proprio perché più fragile. Infatti, l’emarginazione degli anziani, secondo le parole di Andrea Riccardi, «costruisce la nostra società sulla sabbia», e perciò, come afferma anche lui stesso: «chi fa spazio agli anziani fa spazio alla vita» (cf. M.C. Marazzi – A. Spreafico – F. Tedeschi, Gli anziani e la Bibbia. Letture spirituali della vecchiaia, ed. Morcelliana, 2020, pp. 12-13).
Ci chiediamo qual è il rapporto tra una sola persona e l’umanità tutta intera. Dal punto di vista meramente numerico e quantitativo è ovvio che una persona conta di meno che centomila. È stato Caifa, il sommo sacerdote, qualche settimana prima della morte di Gesù, a formulare il primato del criterio della quantità dinanzi al sinedrio di Israele, dicendo: «È conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50). Il criterio della quantità intende sottolineare che c’è una differenza sostanziale tra un solo uomo e il mondo intero, oppure tra un gruppo di uomini e l’insieme dell’umanità. Di conseguenza, secondo questo criterio, non sarebbe corretto dire che salvare una vita significa salvarle tutte. Ad esempio, una vita debole non avrebbe lo stesso peso di una vita vigorosa. La vita di un anziano non avrebbe lo stesso valore di quella di un giovane.
Questo ragionamento si fonda sull’analisi che un anziano possiede una umanità scaduta, tramontante, quasi imperfetta, mentre un giovane ha davanti a sé un lungo futuro ed è in grado di contribuire alla ricchezza comune. Entra ora in gioco un secondo criterio, quello dell’utilità, concepito in termini di risultati: un anziano necessita ricevere molteplici attenzioni, al contrario di un giovane, il quale in genere non ha problemi di salute e può offrire un contributo «positivo» alla società. Secondo questa prospettiva, non tutte le vite sarebbero egualmente rilevanti. Alcune sarebbero più utili di altre, e dunque salvare una vita che tramonta o si spegne non sarebbe una buona scelta, considerando, ad esempio, le risorse da impiegare.
I criteri della quantità e dell’utilità non contribuiscono a salvare la vita di nessuno. Al contrario, questi criteri portano piuttosto ad un inganno, perché non salvano né la vita propria, né quella altrui. Il criterio della quantità porta all’ingiustizia e alla discriminazione. Se una persona umana, per un motivo qualsiasi, viene contrapposta a molti, questo fatto basta per sottovalutarla e negare ad essa la sua dignità, che condivide, d’altronde, con tutte le altre persone. Il criterio dell’utilità conduce in modo simile allo scarto dell’altro, che è giudicato e condannato perché la sua vita è concepita in termini produttivi, cioè materialisti, senza tener conto del suo contributo alla dimensione spirituale della società: la presenza di un anziano suscita amore, come accade anche di fronte ad un bambino. I criteri dell’utilità e della quantità quindi trascurano questa dimensione spirituale, che invece è essenziale ed appartiene a quei movimenti sotterranei della storia che sono fonte di quelle energie di bene che cambiano il mondo e lo trasformano.
Così, la voglia di vivere di un anziano diventa uno stimolo enorme per un giovane che cerca la strada della propria vita e forse è tentato di pensare che non c’è un futuro per lui. In questo senso, un anziano può diventare una persona estremamente utile a tutti perché è capace di trasmettere la forza debole della sua vita, ad esempio, a un giovane. Costui può scoprire, grazie all’anziano, le molte energie che abitano nel suo cuore e le grandi possibilità che si aprono dinanzi a lui per costruire un mondo in pace. Inoltre, un anziano che salva un giovane da una vita buia, salva, tramite questo giovane, il mondo intero, perché non c’è mondo senza sogni né futuro.
Arriviamo al concetto chiave del nostro discorso: la relazione tra le persone come strumento di salvezza di ognuno e del mondo nel suo insieme. La conoscenza dell’altro può essere un fatto casuale, episodico, dettato dalle circostanze, ma anche un’occasione opportuna e bella perché sgorga da essa un incontro, nel senso pieno della parola. Un incontro è un avvicinamento, ed è il contrario dello scontro che è un rifiuto violento. Ma c’è anche un rifiuto «educato», un respingere l’altro con l’indifferenza. La salvezza dell’altro non si raggiunge mettendo l’altro tra parentesi. I rapporti deboli tra le persone che caratterizzano il nostro mondo portano spesso a trattare gli altri con la logica dell’indifferenza la quale si mostra sempre incapace di salvare. Con l’indifferenza si fa finta di accogliere l’altro, i suoi bisogni, le sue angosce, i suoi progetti, ma la sua vita resta distante, lontana. Domina l’incapacità di cogliere quello che nell’altro è diverso da me. Un rapporto segnato dall’indifferenza, anche “cortese”, non salva nessuno, non cambia la vita, soltanto la edulcora. L’indifferenza non cambia nessuno né cambia il mondo.
Per salvare una vita e il mondo intero, ci vogliono la compassione e la passione. Soltanto così passiamo dalla conoscenza alla riconoscenza dell’altro. Ogni giorno entriamo in contatto con molte persone, che ci vengono presentate oppure che incontriamo per caso. Con alcune –chiaramente, non con tutte– si apre la possibilità dell’incontro, del rapporto personale e duraturo, almeno nell’intenzione. Ma per gioire di questo incontro, bisogna sconfiggere la logica dell’indifferenza che, come il serpente del paradiso, sussurra dentro di noi sentimenti di distacco dall’altro e alza delle mura. Certo, le mura più sottili non sono quelli del rifiuto esplicito dell’altro, ma dell’indifferenza verso di lui. L’indifferenza non permette di costruire ponti, ma, al contrario del rifiuto, si mostra politically correct e non fa sentire nella coscienza il peso del peccato per non aver costruito quei ponti.
Soltanto il superamento della logica dell’indifferenza porta alla compassione verso l’altro e alla passione per trasformare il mondo, per cambiare l’umanità. Allora si compie l’aforisma dell’antica saggezza rabbinica: salvare una vita per salvare il mondo intero. Infatti l’indifferenza impedisce il passaggio dalla conoscenza all’incontro con l’altro. La compassione come dono gratuito sparisce quando nel cuore rimangono tracce di freddezza, atteggiamenti mescolati di apertura e chiusura, giudizio dell’altro, paura di coinvolgersi con la sua vita.
Si salva l’altro quando si è pronti a ripetere la storia del samaritano della parabola, che ha visto un uomo sconosciuto e mezzo morto ai bordi della strada (Lc 10,25-37). Costui avrebbe rischiato la vita se non ci fosse stato nessuno a salvarlo, cioè, a fermarsi presso di lui e usare misericordia con lui, prendendosene cura. Non c’era nessun obbligo per quel samaritano; anzi, era fuori del suo paese e quel ferito era, probabilmente, per lui uno straniero ebreo. Il samaritano avrebbe potuto lasciare quell’ uomo lì dov’era: nessuno glielo avrebbe rimproverato. La logica dell’indifferenza poteva imporsi. La compassione non era scontata. Ma quel samaritano ha scelto la misericordia, e, al contrario del sacerdote e del levita, ha messo da parte l’indifferenza. Ha preferito salvare una vita prima di lasciar che si perdesse. Quell’uomo mezzo morto sulla strada di Gerico rappresenta l’umanità intera, al di là delle etnie e delle religioni, delle lingue e delle culture. Caricarsi quell’uomo sulle spalle è caricarsi tutta l’umanità. Il linguaggio dell’amore non è limitato da nessuna frontiera, da nessuna considerazione, da nessun criterio. Questo linguaggio esprime per sé stesso un principio, che va oltre i criteri della quantità e dell’utilità: il principio della misericordia. Chiunque lo viva, salverà la vita dell’altro e salverà il mondo intero.