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Adriana Gulotta

Koordinatorin der Schulen des Friedens
 biografie
I bambini chiedono pace – recita il nostro titolo. Ne siamo sicuri? Il nostro è un mondo che sembra abituato alla guerra e a chiedere sempre più armi. Perché per i bambini dovrebbe essere diverso?
 
Oggi le guerre si accaniscono anche contro i bambini. Contro quelli che erano ricoverati nell’ospedale pediatrico di Kiev bombardato nel corso della guerra russo-ucraina, o quelli che giocavano a palla, colpiti nel villaggio druso sul Golan dalla bomba di Hezbollah, come i quaranta piccoli uccisi da Hamas il 7 ottobre nel kibbutz di Kfar Aza. O come le ventimila creature palestinesi sterminate dai bombardamenti israeliani su Gaza. Ma le guerre si accaniscono contro i bambini anche quando i riflettori dei media non sono accesi. Come accade ai bambini sudanesi colpiti, nel disinteresse generale, da più di un anno di guerra che ha messo a rischio un’intera generazione non solo con i bombardamenti e le uccisioni, ma con la fame, gli sfollamenti forzati…Accade anche ai bambini del Nord del Mozambico costretti ad assistere alle esecuzioni dei loro familiari nel corso degli assalti degli al Shabab e a fuggire nelle foreste lasciando per sempre i loro villaggi. Crimini di cui non si parla. Così come non si parla più dei bambini siriani che hanno conosciuto soltanto la guerra nella loro esistenza.
 
Uccidere i bambini è un crimine di guerra. Eppure, accade quotidianamente. Secondo i dati Unicef dal 2005 sono oltre 120 mila i minori uccisi. Ma non è una contabilità solo di morti. Nessuno è in grado di misurare il dolore dei più piccoli, quando sopravvivono alla guerra: il senso di incertezza e di paura nelle loro vite quando la casa è bombardata, il cibo manca, il padre è al fronte, i genitori sono uccisi o feriti, la famiglia distrutta. Non esiste questa contabilità: è quella della disperazione e della solitudine. 
 
Ma c’è anche un’altra guerra che si combatte contro i bambini, ogni giorno. È la guerra della violenza diffusa, delle armi spianate contro chi non può difendersi. Ad Haiti le violenze da parte dei gruppi armati hanno fatto sì che il numero di bambini sfollati all'interno del Paese sia aumentato del 60% negli ultimi sei mesi, un tasso che equivale a un bambino sfollato ogni minuto. E i bambini e i ragazzi sono coinvolti nelle guerre e nelle violenze: 300.000 bambini-soldato sono “impegnati” nei conflitti in Africa. I narcos e le maras arruolano sempre più i giovani e giovanissimi per insegnargli ad usare le armi, a farsi rispettare e a dare la morte ai loro coetanei e perfino ai bambini.
 
Uccidere i bambini, infatti, non è più un tabù nel nostro mondo. Negli Stati Uniti succede sempre più spesso. Nel 2023 più di 6.000 bambini e adolescenti sono rimasti feriti dalle armi e più di 1.600 sono morti per colpi di arma da fuoco spesso nelle incursioni dei mass shooter, quasi sempre ragazzi anche loro. Nel 2024 i dati fino a luglio raccontavano che i bambini da 0 a 11 anni uccisi da un’arma da fuoco erano 141 e 683 erano i giovani dai 12 ai 16 anni. Sparano nelle scuole, dove magari hanno subito la violenza del bullismo. Sparano sui bambini che avrebbero voluto essere, sull’attesa di una vita serena che loro ritengono di non aver avuto. Sparano per uscire dal grigio di esistenze che si considerano inutili se non sono illuminate dai fragili like o dalle luci della popolarità mediatica dei social. Sparano per passare alla storia, senza sapere che presto un’altra strage, più feroce, ridurrà il loro gesto all’irrilevanza. 
 
Ragazzi infelici uccidono bambini e non solo... Nel luglio scorso a Southport, vicino a Liverpool un ragazzo di diciassette anni, è entrato in un campo estivo dove si trovavano delle bambine che stavano giocando e ascoltando musica. Le ha accoltellate con ferocia. Tre sono morte, sei sono rimaste gravemente ferite. L’anno scorso in Inghilterra ci sono stati 11.426 attacchi con la lama in pugno, e spesso proprio l’arma bianca è quella favorita dalle bande giovanili per regolare i propri conti.
 
Sono sempre di più i giovani che uccidono. In Italia tre ragazzini hanno ucciso un altro adolescente loro coetaneo. Thomas, questo il suo nome, aveva 16 anni ed è stato ucciso da due suoi coetanei, adolescenti di buona famiglia, accoltellato per un debito di 250 euro. Dopo, sono andati in spiaggia a fare un bagno.
 
In Francia, a Crepol, nel novembre 2023 un gruppo di ragazzi ha dato l'assalto a una festa uccidendo un sedicenne e ferendo altri 18 giovani. Il gruppo era costituito da una quindicina di ragazzi. I motivi di questa violenza non sono ancora conosciuti. Nell’aprile scorso quattro giovani (di cui tre minorenni) sono finiti sotto inchiesta per omicidio con l'accusa di aver aggredito un quindicenne all'uscita di scuola a Esonne, a sud di Parigi. Il ragazzo è morto per le ferite riportate dopo il pestaggio.
 
Uccidere non sembra più un orrore: questo è ciò che stiamo trasmettendo ai più giovani. Una generazione che vive di emozioni è sempre più incapace di empatia, abituati alla guerra dai videogiochi, come game. “È evidente – scrive Massimo Recalcati – che la stagione della guerra che stiamo vivendo segnala un tracollo clamoroso della parola, nella forma di un fallimento generalizzato della politica” . Ragazzi che hanno con sé i coltelli per farsi rispettare e poi finiscono per uccidere. Spesso senza un motivo. A volte solo per rabbia, incapacità di gestire il conflitto, invidia. “Ho scelto di uccidere questo giovane perché si presentava con un’aria felice. E io non sopportavo la sua felicità. Volevo ammazzare un ragazzo come me”. Così ha detto un ventenne italiano dopo aver ucciso un coetaneo a Torino.
 
Vicino a Milano un ragazzo di 17 anni ha ucciso a coltellate nel sonno il fratellino di 12 anni, la madre e il padre. “Vivevo questo disagio, un’angoscia esistenziale, ma non pensavo di arrivare a uccidere. Non mi so spiegare cosa mi sia scattato quella sera” e ha aggiunto: “Mi sentivo estraneo rispetto al mondo”. Solitudine e isolamento sono riempiti dal tempo trascorso sui social. Ma sui social -è l’Unicef a dirlo - l'esposizione dei bambini e dei ragazzi a messaggi di odio e alle immagini di violenza è in crescita: a seconda dei paesi, dall’8% al 58%. In Italia circa il 37% di bambini e giovani sono esposti a messaggi di odio e oltre il 34% sono esposti a immagini cruente e violente. Assistiamo tra i giovani a un incremento esponenziale della violenza, in famiglia, nel gruppo, contro le donne con tanti femminicidi. C’è un’assuefazione all’aggressività, alla violenza e alla ferocia, conosciuta fin da piccoli nei video giochi e amplificata dai social, che hanno fatto cadere la barriera tra vita reale e vita virtuale. Una violenza che può esplodere ovunque, ma che è sempre meno figlia del disagio economico o sociale: non sono più i giovani emarginati a commettere violenza, sono i figli di questa nostra società del benessere. “Ora questi nostri figli – ha scritto Umberto Galimberti - si trovano ad avere un'emotività carica e sovreccitata che li sposta dove vuole, a loro stessa insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono stati educati, sia in grado di raffreddare le emozioni e non confondere il desiderio con la pratica anche violenta per soddisfarlo”.  Così l’eccitazione prende il posto dell’amore, il senso di onnipotenza il posto della responsabilità, l’autocompiacimento quello della stima, l’eccitazione il posto della gioia. Tutto è effimero, perché le emozioni sono brevissime, e la vita diviene una corsa continua alla loro ricerca. È un meccanismo noto a chi conosce i social media. Si vive di like senza esserne mai sazi. Si cerca un attimo di notorietà e, contemporaneamente, ci si sente vuoti e irrilevanti. 
 
Progressivamente abbiamo dimenticato l’orrore della guerra, che la generazione del secondo conflitto mondiale ci aveva trasmesso, come attraverso i testimoni della Shoah. Ci siamo abituati alle guerre degli altri. Cresce un fatalismo, camuffato da realismo. Troppo abbiamo accettato –governi, istituzioni, singoli- la guerra e la violenza come compagne del nostro tempo. I bambini che chiedono pace non vengono ascoltati: sono i figli degli altri a stare sotto le bombe. E il male sofferto dall’altro non ci riguarda. È il mondo adulto ad avere sostituito, per primo, i sentimenti con le emozioni. Perché le emozioni puoi accenderle e spegnerle a tuo piacimento, i sentimenti no, fanno parte di te. Al posto dello sdegno, abbiamo insegnato la rabbia: non importano i motivi. Al posto del rispetto dell’altro abbiamo insegnato la competizione. Al posto della parola e del dialogo abbiamo insegnato a imporsi con la violenza. All’assunzione di responsabilità abbiamo preferito indicare negli altri il colpevole, vero o presunto. Al posto dell’empatia nei confronti di chi non ce la fa, abbiamo diffuso il disprezzo per il perdente. Freddezza e insensibilità hanno sostituito la compassione, la capacità di avvertire la sofferenza dell’altro come propria. Così, mentre Thomas era assassinato gli hanno urlato “zitto, taci”! Perché è travolgente l’ebbrezza di avere tra le mani la vita di un altro, ma i suoi lamenti rischiano di contagiare con la sua sofferenza.
 
Una vita di emozioni senza sentimenti, però, è una vita sempre insoddisfatta, priva di un orizzonte e di un senso. È una vita schizofrenica, in cui alla fine sono le emozioni a dominare. È il grande dramma degli adolescenti nelle nostre società: il rischio del disagio psichico è altissimo. Lo vediamo in tanti fatti di sangue che spaventano e sdegnano. Sembrano incomprensibili, ma bisogna riconoscerne le cause nell’isolamento, nella solitudine, nella mancanza di parole e di interlocutori. Non può stupire che le vite degli adolescenti, sotto tanta violenza, nascondano una montagna di disperazione. Una società cattiva, competitiva, concentrata solo su di sé, genera solitudine e infelicità e finisce con lo scatenare, come forma di reazione, quella del rancore, dell’odio, della violenza nei più giovani.
 
È necessario, oggi più che mai, capire quale terremoto di solitudine, di ansia e di frustrazione, nel tempo dei social, stiano attraversando le nuove generazioni e quali effetti produca la visione di una violenza “normale” che in alcuni luoghi diviene guerra senza fine e in altri luoghi esplode in atti efferati, all’apparenza immotivati. Una violenza che con le sue immagini sta entrando a far parte della nostra esistenza giornaliera.
 
Stiamo costruendo un mondo in cui la morte dei bambini suscita sempre meno orrore. Eppure, le immagini dei bambini di Hiroshima e Nagasaki sembrarono un punto di non ritorno nella coscienza dell’orrore della guerra. Accadde anche per la notissima foto della bambina vietnamita che correva nuda perché i suoi vestiti erano stati bruciati dal napalm gettato dai bombardieri americani. Ancora pochi anni fa, nel 2015 la foto del piccolo profugo siriano Alan Kurdi di tre anni, riverso sulla spiaggia turca da cui era partito nella speranza di raggiungere l’Europa, scatenò una reazione di sdegno e di orrore. E una risposta di apertura della fortezza Europa che – per bocca della Cancelliera Angela Merkel – accettò di far entrare un milione di siriani in Germania per evitare che altri bambini come Alan Kurdi dovessero rischiare la vita per poter crescere in pace. Da allora però la fortezza Europa si è richiusa e la sorte dei piccoli profughi sembra essere tornata “invisibile: infatti continuano a morire nel Mediterraneo, sulla rotta balcanica, nelle carovane di migranti in viaggio verso gli Stati Uniti, in Asia. Nel mondo ci sono 50 milioni di bambini e adolescenti sradicati a causa di fuga e migrazione che attendono di trovare un luogo dove crescere. 
 
I bambini vogliono la pace? Ci siamo chiesti all’inizio. Intanto possiamo dire che gli adulti, invece, si sono abituati alla guerra. Fingono che sia lontana e sono pronti, con fatalismo, a pagarne le conseguenze. I bambini che a Gaza muoiono tra le braccia delle madri per un regolamento di conti tra Hamas e governo israeliano non commuovono più. Nemmeno quelli ucraini dilaniati dalle bombe, costretti a fuggire, ridotti a vivere nei rifugi sotterranei, con la luce elettrica per poche ore al giorno.
 
“Costruire la pace- scriveva Maria Montessori - è l’opera dell’educazione, la politica può solo evitare la guerra”. Ma la politica oggi non è in grado di evitare la guerra e assiste impotente al proliferare delle guerre. Sono sempre meno i contesti internazionali in cui si cerca di “immaginare la pace”, come in questi giorni a Parigi sta accadendo. Maria Montessori fu la prima a porre in luce il legame fra i bambini e la pace in un orizzonte universale. Consapevole di fare parte di “una sola famiglia umana” diceva: «l’uomo di oggi è il cittadino della grande nazione dell’umanità». Non erano espressioni retoriche, ma preveggenti rispetto alla globalizzazione dei nostri giorni. Anzi queste affermazioni le costarono l’esilio, quando l’Italia, la sua patria, era dominata dal fascismo. Bambini e pace non possono essere separati. “L’educazione è l’arma della pace – scriveva - la vera difesa dei popoli non può poggiare sulle armi: giacché le guerre si succederanno sempre l'una all'altra e non potranno mai assicurare la pace e la prosperità di nessun popolo”. Ma “oggi l'educazione – proseguiva e lo scriveva negli anni Trenta… - è rimasta troppo indietro rispetto alle esigenze attuali. …Coloro che vogliono la guerra preparano la gioventù alla guerra; ma coloro che vogliono la pace hanno trascurato di preparare l'infanzia e la giovinezza alla pace”. 
 
È la sfida che tutti noi abbiamo davanti: prepararli alla pace e fare di loro degli operatori di pace. Una sfida che la Comunità di Sant’Egidio sente con particolare forza in questo tempo e per cui si impegna nelle Scuole della pace con i bambini e con il movimento dei Giovani per la Pace insieme ai ragazzi in tutto il mondo. Imparare a vivere in pace è un processo lungo che dura tutta la vita. Nelle Scuole della Pace si offre ai più piccoli, oltre al sostegno scolastico e affettivo, la possibilità di crescere con gli altri senza pregiudizi e ostilità, imparando a vivere sentimenti di simpatia, di affetto, di amicizia e non solo emozioni. Ai giovani si offre ascolto e amicizia e si dà, con la parola, la possibilità di resistere alla rabbia, all’aggressività, alla ricerca del nemico… Si impara a entrare in relazione con gli altri, a conoscere e decifrare le proprie emozioni, ad amare il dialogo, la conoscenza dell’altro senza timore, con simpatia e partecipazione ai problemi altrui, a desiderare di vivere in pace, per divenirne convinti sostenitori, perché diventi un grande ideale per cui vale la pena vivere e lottare. Anche se le guerre sono tornate ad essere protagoniste, possiamo “immaginare la pace”. I bambini, divenuti un popolo di invisibili che le bombe e le lame possono colpire impunemente e i ragazzi a loro volta, diventati emulatori di gesti efferati, chiedono a ciascuno di lavorare per un mondo più umano senza violenza. La frase incisa sulla lapide sulla tomba di Maria Montessori, morta a 81 anni il 6 maggio 1952 recita: “Io prego i cari bambini che tutto possono, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo”. È anche la nostra preghiera che si rivolge non solo ai bambini e alle bambine ma a tutti gli uomini e le donne del mondo: torniamo a “immaginare la pace”, a desiderare e a fare pace!