Dalla fine della guerra fredda la globalizzazione è divenuta l’orizzonte delle nostre attese e delle nostre paure. Davanti a un mondo grande e complesso, tutti sono presi dal panico dell’immenso, dalla vertigine della globalizzazione. A lungo gli uomini si sono considerati come cittadini di nazioni o insieme di nazioni, le cui frontiere proteggevano il patto sociale e la convivenza civile. Oggi tutto è cambiato e sembra che gli stessi diritti delle persone siano messi a repentaglio da tale situazione. In questa situazione sentiamo la mancanza di discorsi e sistemi omnicomprensivi che interpretino la realtà e la traducano per tutti. Il nostro mondo sembra irriducibile a tali sforzi, anzi più si globalizza e più si frammenta. L’io nel globale è in difficoltà, ma anche il noi. Come dice il sociologo dell’età dell’informazione Manuel Castells, le società sono sempre di più strutturate attorno all’opposizione bipolare –percepita come tale- tra “the net and the self”, tra “la rete e il sé”. Tale è la condizione della persona oggi e questo diviene evidente nei confronti dei luoghi del potere. Dove risiede oggi il potere, nel senso di potere decidere, di cambiare, di fare la differenza? Esso sembra allontanarsi, sembra sfuggente e quasi ad ogni livello ci si interroga su tale questione.
Da qui nasce la crisi della democrazia. Ad ogni latitudine cresce una certa irritazione per i processi democratici che sembrano lenti, farraginosi e inadeguati alla rapidità dei cambiamenti. Si dice che esiste una impotenza della politica, un deficit istituzionale globale, una mancanza di governance globale appunto. Ma nel contempo si teme tale governance perché troppo lontana, poco controllabile. Abbiamo bisogno di istituzioni globali efficaci ma la nostra cultura e la nostra coscienza sono ancora locali, non ancora all’altezza della sfida. In poche parole: abbiamo paura. Abbiamo paura di aver perso il controllo di noi stessi e del nostro ambiente umano.
La malattia della paura colpisce a tutte le latitudini, lasciando ovunque un uomo infragilito, immerso in un fumo di pessimismo, carente di risposte. Quest’uomo impaurito si abitua progressivamente all’impotenza o si lascia prendere dal ribellismo. Aggressive risposte identitarie o localiste alimentano le conseguenze che esse stesse provocano, creando allarme sociale: un circolo vizioso che le classi politiche non spengono, anzi talvolta manipolano e sfruttano. L’individuo o il gruppo che si sente insicuro, si ripiega nel rassicurante ambito circoscritto (la regione, l’etnia, la tribù, il gruppo, la categoria, la corporazione, la lobby, la setta ecc.). Ovunque va in crisi la tensione unitaria o solidaristica che sta alla base di ogni costruzione istituzionale.
Seppure dopo il crollo dell’URSS l’opinione pubblica internazionale aveva riscoperto nei diritti umani -come sostiene Ignatieff- “una causa al di sopra della politica”, degna di essere abbracciata a costo di scontrasi con il criterio assoluto della sovranità degli Stati che fino a quell’epoca aveva trionfato come regola unica, osserviamo oggi come tale spinta abbia perso smalto, contagiata anch’essa dal clima generale di paura e pessimismo. E’ venuta meno la speranza che si possano difendere i diritti di tutti cioè che possa esistere quella governance globale che faccia unità e diminuisca le diseguaglianze. Anche i diritti umani –il più grande sogno di unità globale- sempre meno vengono considerati un’unità indivisibile da difendere con spirito universale. La separazione dei diritti umani in categorie di interessi incomunicabili fra loro, finisce per contrapporli come fossero armi da guerra. Ognuno ha i suoi. Tale frammentazione ferisce lo spirito stesso della Dichiarazione del 1948 che fu il risultato di una convergenza di tradizioni religiose, politiche e culturali, motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni del mondo, delle leggi e della società, e di considerare la difesa della persona umana quale criterio essenziale. La carta non fu scritta per dividere la società o l’umanità ma per unificarla.
In Occidente tale destrutturazione avviene in una società dove - come scrive Bauman- si è consumata “l’ipervalorizzazione dell’individuo che fa emergere la sua vulnerabilità, privato della protezione un tempo offerta dalla fitta trama di legami sociali…le relazioni di vicinato sono finite e alla solidarietà subentra all’appartenenza” (L’avventura europea). La prossimità tra individui diviene sempre più rara e “il mondo cosmopolita globalizzato è un mondo abitato da molti altri ma dove anche non vi è nessun’altro” (Giddens). L’appartenenza rappresenta una via di fuga: implica una solidarietà limitata, di gruppo o di lobby, certamente non universalistica. Trionfa la società de “l’entre-soi” (Eric Maurin), dell’io assoluto, del “moi-je” o del “me, myself and I”. Come dice Touraine: “nel mondo dell’individualismo ormai il sociale è morto”. Ma non sono morti i suoi diritti frammentati, pretesi con veemenza. L’individuo contemporaneo è geloso fino all’eccesso della sua indipendenza ma reclama allo stesso tempo cure e assistenza solo per sé: si lamenta e identifica in sempre nuovi diritti esclusivi l’unica via per essere soddisfatto. Tale soddisfazione non giunge mai. Si tratta della stessa logica consumistica del mercato. La dittatura del materialismo a cui è sottoposto l’individuo in un mondo ridotto a mercato, lo spinge a cercare di soddisfare bisogni sempre più evanescenti, senza trovare appagamento. A un individuo concentrato sul vivere per sé, non resta che fare la vittima - un modo reticente e deresponsabilizzato di vivere- oppure giocare con la sua vita stessa e con quella degli altri. E’ la “la tentazione dell’innocenza” di cui ci parla Bruckner, che si risolve spesso nella perdita di valore per la vita stessa. Possiamo fare l’esempio della famiglia, spazio privilegiato degli affetti, dell’educazione di nuove generazioni, della cura dei deboli, dell’accoglienza agli anziani. Si tratta forse dell’ultimo spazio del gratuito che rimane nelle nostre società, dominate dalla cultura del materialismo. Una visione umanistica della vita, guarda alla famiglia con rispetto, la difende e ne ricerca una più allargata –quella della nazione o del gruppo di nazioni- in cui siano inclusi anche i poveri e i popoli più poveri. Ciò che vale per le famiglie, vale infatti anche per i popoli. La famiglia resta una grande risorsa per individui soli, forse l’unica scuola del vivere insieme, il luogo dove si può dare e ricevere senza contraccambio.
Si incrina il legame di prossimità rappresentato dalla pietà, dalla compassione. Il discorso delle autorità pubbliche è scivolato dalla difesa dei poveri alla difesa “dai” poveri. Chi non ha diritti di parte ne otterrà ancora meno: viene considerato un fuoriuscito colpevole. E’ il povero a essere -sommessamente ma anche pubblicamente- accusato di aver mancato nei confronti della società per essere diventato un peso. Lo stesso avviene per l’anziano che vive troppi anni. Il dono di una vita più lunga diviene una maledizione. Sorte ancor più atroce per il disabile: sarà abolito in radice con l’aborto. La società non vuole fare lo sforzo di accoglierlo e la colpa viene rigettata su di lui: “vivrebbe male! Che futuro avrebbe?”. Chi dice così non si rende conto che lo si potrebbe dire anche per lui…
Ci chiediamo: dov’è finito il rispetto della vita umana iscritto nella dichiarazione universale? Dov’è finito l’anelito per una universalità che coinvolga tutti, trovi posto a tutti, rispetti tutti? Difendere i poveri e far entrare le loro vite nelle nostre, come quotidianamente fa Sant’Egidio, non rappresenta solo una difesa dei più umili ma si tratta di un lavoro per l’intera società: ricostruire il legame sociale di prossimità e solidarietà difende tutti dall’imbarbarimento. Difendere i poveri significa difendere la vita di ciascuno. Chi difende i poveri, difende tutti.
Alla sfida sulla governance mondiale, come cattolico trovo una risposta nella figura del papa di Roma. Il papa evoca l’unità del genere umano anche se è italiano, polacco, tedesco o argentino. C’è un impatto delle sue parole oltre i confini del cattolicesimo, che dura nel tempo. Da qui viene forse una prima riposta: per essere globali non bisogna per forza stare ovunque o essere evanescenti o iper-rapidi o fare una media tra le varie tradizioni, culture istituzionali, o difendere la propria appartenenza ecc… Per essere globali bisogna essere universali, cioè saper parlare al cuore umano di una intera generazione, dovunque sia e qualunque lingua parli. Una governance mondiale non significa per forza la creazione di una specie di esperanto istituzionale valido per tutti. Credo che per rispondere alla sfida di una governance globale occorra innanzi tutto accettare la nostra diversità come un fatto che può essere un’opportunità. Inutile e dannoso cercare l’omologazione –come fanno i vari radicalismi religiosi o culturali- così come rassegnarsi alla separazione, all’apartheid. Infondo siamo tutti un po’ ibridi e un po’ meticci. Le culture si toccano e si contaminano a vicenda. Amadou Hampate Ba –il grande sapiente e religioso maliano- diceva che “le persone di una persona sono numerose in ogni persona. Mia madre –proseguiva- quando mi veniva a trovare passava prima da mia moglie a chiedere: quale persona di mio figlio abita in lui oggi? Il toubab (l’intellettuale bianco), l’uomo di religione o mio figlio?”. Se noi avremo tutti meno paura delle differenze, sarà più facile trovarsi e convivere.
In secondo luogo credo che sia necessario lavorare alla creazione di una nuova cultura umanistica. In un mondo di iperspecializzati, di “ignoranti istruiti” che sanno tutto della loro materia e poco sulle altre (e questo vale anche per le religioni), occorre una cultura della crisi, che rimetta la speranza al centro del pensiero, e quindi il senso della ricerca e dell’attesa. La cultura contemporanea è spesso tinta dei colori del pessimismo e della rassegnazione. Non fa più scandalo la diseguaglianza, né l’inquinamento o il cambiamento climatico. Un po’ non ci si vuole pensare, un po’ si fa finta di niente. Tutto è ridotto alla perenne autoanalisi sul proprio stato di benessere dell’attimo presente. Viviamo infatti in una postmodernità senza futuro, che guarda al passato senza illusioni, senza sognare più. Non c’è più nemmeno fiducia nella scienza, nella modernizzazione, perché troppi sospetti sorgono davanti a certe manipolazioni della natura, pensate al cibo, agli ogm, alla clonazione ecc. Si tratta di una cultura aggressiva e specializzata nelle sue settorialità irriducibili. Una nuova cultura umanistica accetta al contrario la sfida della contraddizione e dell’ambiguità. E’ una cultura della diversità umana. Il nostro mondo è contradditorio così come lo è la vita. Non dobbiamo temerlo. Una cultura umanistica nuova significa essere capaci di attraversare le frontiere tra discipline, combinare arte e scienza, economia e sociale, diplomazia e amicizia. Tutto il dibattito europeo tra rigore e crescita soffre di miopia. Una cultura umanistica nuova è nomade, non teme le diversità geografiche e sa che l’innovazione non scaturisce dalla iperspecializzazione ma da un mix di competenze che accettano la contraddizione di un mondo policentrico. La cosa più importante è che una cultura umanistica nuova si nutre di profondità storica - non di vintage che è un modo di guardare all’indietro con nostalgia - cioè mettere in prospettiva ciò che accade con lucidità, imparando dai tempi lunghi ad avere uno sguardo meno superficiale. Oggi ogni fatto viene circoscritto nell’attimo presente e subito dimenticato. Questo modo di interpretare il nostro mondo ci aiuterà ad essere e meno schiacciati, meno addossati su ciò che accade e più sereni ma anche sempre in ricerca, in attesa. E’ quello che Steve Jobs diceva agli studenti: stay hungry, stay foolish, prendendo il suo slogan più famoso da “The Whole Earth catalog” di Steward Brand, pubblicato nel 68, una specie di nuova enciclopedia dei tempi futuri che conteneva tutto ciò che secondo l’autore sarebbe servito per trasformare la vita, dal supercomputer al flauto andino…
Infine mi pare che la nostra epoca abbia bisogno, nella sua ricerca di governance globale, non solo e non tanto di nuovi diritti o di nuove costruzioni giuridiche che pure serviranno, quanto molto più semplicemente di simpatia, che è la cifra di papa Francesco. Sentire con l’altro, anche se diverso, è una fatica. Ma si tratta di una strada da compiere dentro noi stessi, che ci faccia cambiare. Alla fine del Vaticano II, Paolo VI parlò della parabola del buon samaritano come paradigma della spiritualità dell’intero Concilio, e disse: “una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani... lo ha tutto pervaso”. La simpatia ci porta a ridurre il peso dei nostri problemi interni per dedicarci, con speranza, alle sfide del mondo. Oggi la grande sfida è quella di una simpatia senza confini. Simpatia e compassione vogliono dire non solo attenzione al prossimo vicino, simile a me, ma anche saper stare alla finestra del mondo. Nessuno vive più solamente nel suo mondo locale, ma siamo tutti immersi nei flussi del mondo degli altri, coinvolti, talvolta colpiti da essi. La simpatia non è lontana dalla preghiera che qui raduna uomini e donne di tante religioni: pregare vuol dire uscire da sé e guardare all’oltre. Nella preghiera c’è la memoria degli altri, di chi soffre, di chi è lontano. Questo è il senso spirituale profondo di questi giorni, e più di tutto ci darà quella comunione globale che saprà farsi cultura e quindi politica, governance.
Come scriveva un grande poeta americano dell’800: “Chi percorre 100 metri senza simpatia cammina al suo proprio funerale”.