Il tema che affrontiamo stasera è forse uno dei più difficili, e in uno dei paesi dove è più delicato.
In Belgio, in Francia, nella maggior parte dei paesi occidentali, qual è il dialogo tra credenti e non credenti sul valore della vita? E prima ancora, un dialogo è veramente possibile? Non si tratta piuttosto di uno scontro ideologico radicale o, per dirlo all’americana, di una guerra culturale? Da un lato c’è la società liberale, che considera ciascuno padrone del proprio corpo, della propria vita, delle proprie scelte. E dall’altro le religioni, o forse soltanto la Chiesa cattolica, che considera ogni vita sacra dai suoi primi ai suoi ultimi istanti. Si devono riconciliare punti di vista così diversi? È anche solo possibile? Come fare perché si instauri una cultura del dialogo e del compromesso? La legge della maggioranza deve imporsi a tutti.
Parlare di valore della vita è già una scelta. In altri luoghi, si parlerebbe per esempio del valore della libertà individuale. Si partirebbe di lì. Parlare del valore della vita, significa già considerare che nell’uomo vi è più che l’uomo. Come cattolico, questo è il mio punto di vista. Ma debbo ammettere che questo punto di vista non è condiviso unanimemente e persino che sotto certi aspetti è minoritario.
Stamattina, una consorella belga mi diceva che la questione dell’eutanasia in Belgio è “regolata”. La questione è regolata, fine, non parliamone più! Ma a dire il vero, secondo me, essa non è affatto regolata. In primo luogo perché il processo che fa cadere un tabù dopo l’altro non si ferma mai. In secondo luogo perché contesto che l’eutanasia sia un progresso e spero che un giorno si tornerà ad una legge più rispettosa di quella che è l’autentica dignità dell’essere umano. In queste condizioni, come conciliare l’inconciliabile? Come aprire vie di dialogo? Sottolineo di passaggio le posizioni chiare e coraggiose della Comunità di Sant’Egidio, qui in Belgio. Ma come essere ascoltati se vi si dice che è finita, che il dibattito è chiuso?
Stasera vorrei porre alcune domande delicate, aprire due o tre piste.
Una prima questione che vorrei porre è una questione di principio e una questione un po’ inquieta.
La difesa della vita è affare dei credenti?
In teoria no. In pratica spesso sì. È particolarmente vero qui in Belgio, sull’eutanasia, e lo si è visto ancora di recente col dibattito sull’eutanasia dei minori. È vero un po’ dappertutto in Europa, con alcune sfumature.
Se si vuole procedere nel dialogo, bisogna essere autentici. Quindi, non illudiamoci. Non travestiamo la realtà.
Nei fatti, si tratta di un triplo confronto: tra cattolici, tra credenti, e con i non credenti.
Il dibattito attraversa innanzitutto il mondo cattolico.
In Germania, per abortire bisogna passare tramite un consultorio. Questo consultorio rilascia un certificato. Alcuni cattolici si occupavano di tali consultori. Essi giungevano così a dissuadere alcune donne dall’abortire. Certamente non vi giungevano sempre. Ma essi collaboravano ad un sistema che rende legale l’aborto. Il Vaticano ha chiesto che questi consultori cattolici venissero chiusi. Secondo me è stato un errore.
In Belgio, una dottoressa cattolica spiega, in un libro che comparirà in questi giorni, che essa pratica a volte l’eutanasia, pur facendo il possibile per evitarla. Essa considera che esistano dei casi limite. Pensa che sia il suo ruolo. D’altra parte, essa non approva l’ideologia secondo cui ognuno decide liberamente della propria morte.
Negli Stati Uniti, c’è stato il dibattito sui “valori non negoziabili”. Un politico favorevole all’aborto può fare la comunione? Alcuni vescovi e cardinali pensano di no. Il dibattito è proseguito a favore o contro l’Obamacare. In Francia, la maggior parte dei cattolici è favorevole al diritto all’aborto, e un numero importante di cattolici praticanti è favorevole all’eutanasia.
C’è dunque uno iato tra la dottrina e la pratica, ma anche una frattura all’interno del mondo cattolico. Bisogna riconoscerlo.
La seconda frattura è tra la Chiesa cattolica e le altre religioni. Intanto queste sono molto meno impegnate su questo terreno e ancor meno unanimi. La difesa del carattere assoluto della vita è una specificità cattolica. All’interno del mondo cristiano, esiste un ravvicinamento tra cattolici ed evangelici su queste questioni, mentre il protestantesimo tradizionale difende spesso una posizione più liberale, talvolta segnata dall’utilitarismo britannico.
Ma la frattura più importante è tra i credenti e la società secolarizzata, come ho accennato nel preambolo.
È evidentemente lo scontro più violento, il più diretto. Una relazione competitiva di forza nasce in Europa a proposito dell’obiezione di coscienza. Domani, dei cristiani – medici, avvocati, politici locali – saranno forse fuori legge perché difendono la vita? La questione comincia a porsi.
Qui non posso che tratteggiarla molto rapidamente.
In primo luogo, c’è il dibattito sulla nozione di vita “degna”. Che cos’è la dignità? Un corpo sofferente, una persona gravemente handicappata, una persona che non ha più alcuna autonomia, un malato terminale che non è più cosciente o che soffre, hanno una vita degna? Io rispondo di sì, senza esitazioni. Altri, con la stessa forza, rispondono che non ho il diritto di dire di sì. Che ognuno è giudice per se stesso. Tutti noi difendiamo la dignità, ma abbiamo concezioni diametralmente opposte di questa parola. Così, i sostenitori dell’eutanasia fanno del “diritto di morire” l’espressione ultima della dignità umana. Per me, si tratta della sua negazione. Come dialogare con le stesse parole se non diamo loro un minimo di significato comune?
Ciò che viene dopo, è il dibattito sull’autonomia del soggetto, dell’individuo. Costituisce egli la sua propria legge? La sua propria norma?
La società liberale vuol fare dell’autonomia del soggetto la sola legge. Il paradosso è il seguente: il relativismo dei valori diviene l’unica verità assoluta. Le nozioni di bene comune, di sacralità della vita, sono contestate. Si rivendica una morale minimalista. In un saggio apparso alcuni anni fa, “Pourquoi le Christianisme fait Scandale”, ho parlato da parte mia di “verità molli”.
Questa logica liberale apre la strada alla commercializzazione della vita. Il commercio di parti del corpo umano è in pieno boom. Non solo il commercio illegale, il traffico di organi. In India o in Thailandia ci sono vere e proprie fabbriche di madri in surroga, forme di sfruttamento del corpo delle donne povere. Ma c’è anche l’immenso mercato dei brevetti biomedici. Ci si prepara a coltivare in vitro il corpo umano, il nostro corpo, in certo modo per rivendercelo e così per riaggiustarci. La vita umana diviene oggetto di commercio.
Credo che sia necessario identificare bene ed accettare questi tre conflitti per instaurare un vero dialogo.
Innanzitutto il dialogo tra cattolici. È la mia esperienza negli Etats Généraux du Christianisme, un luogo di scambi e di dibattiti che riunisce diverse migliaia di persone una volta all’anno e che ho creato cinque anni fa. La mia esperienza è che il dialogo tra cattolici e tra cristiani è difficile ma indispensabile. Come possiamo essere credibili se non siamo capaci di discutere pacificamente e cordialmente tra di noi, senza scomunicarci ad ogni pie’ sospinto?
Quindi il dialogo tra religioni: qui, ci crediamo tutti.
Infine c’è il dialogo con le società secolarizzate. È anche il ruolo degli Etats Généraux du Christianisme.
Vorrei così affermare un forte convincimento:
La difesa della vita non è un’ideologia contrapposta ad un’altra ideologia.
Essa comincia dall’ascolto. Non si può difendere la vita senza ascoltare la vita.
Penso qui alla famosa frase di papa Francesco a proposito degli omosessuali: chi sono io per giudicare?
Chi sono io per giudicare delle situazioni limite, dei casi di coscienza, dei problemi a volte laceranti con cui si confrontano dei genitori, delle famiglie, dei prestatori di cure?
Chi sono io per negare la mia stessa paura della sofferenza e della morte, della mia e di quella dei miei cari?
Posso negare che esistano delle zone d’ombra, delle zone grigie, in cui la parola e la dottrina divengono poco operanti? Esistono situazioni in cui il primo dovere del credente è di tacere. Non di giudicare sempre.
I credenti non possono porsi continuamente al di sopra della società. Non possono passare tutto il loro tempo a far la predica. È quanto le società secolarizzate non sopportano più, perché non sopportano più che esistano autorità che si ritengono qualificate a dire astrattamente cosa è bene e cosa è male.
Donde la necessità di una coerenza spirituale e intellettuale: mi piace l’atteggiamento di Jean Vanier che è stato cinquant’anni fa il fondatore delle comunità dell’Arche. La sua difesa dei più deboli, delle persone gravemente handicappate, non è una posizione politica. È un atteggiamento d’amore, un atteggiamento fondamentalmente evangelico.
Questa è per me la chiave del dialogo.
Per finire, vorrei attirare brevemente la vostra attenzione sulle nuove problematiche.
La questione della vita sta cambiando natura e forse sta cambiando direzione col dibattito sulla post-umanità.
È la contraddizione delle nostre società: si rivendica la padronanza del proprio corpo e della propria vita, il suicidio assistito, ma si vuol prolungare l’esistenza ad ogni costo, o aumentarne le possibilità ben al di là delle capacità dei nostri corpi.
Bisognerebbe dunque affrontare ormai la problematica della vita artificiale, della nascita artificiale, dell’intelligenza gonfiata: dove si porrà domani la frontiera tra la vita umana e la macchina?
Di fronte a queste nuove sfide, è vitale che i credenti non rimangano focalizzati sui dibattiti di ieri su aborto ed eutanasia, ma si preparino e si interroghino. Auspico evidentemente che portino in sé un benevolo interrogativo sul mondo che viene, e che sappiano rimanere le sentinelle della vita, in altre parole che sappiano vegliare e risvegliare la coscienza.