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Nelson Moda

Comunità di Sant'Egidio, Mozambico
 biografía
Nel corso della storia, l'umanità è sempre stata consapevole delle avversità che il mondo porta con sé. Queste avversità possono derivare dalle relazioni tra persone della stessa famiglia, dello stesso posto di lavoro, della stessa istituzione, dello stesso partito politico, dello stesso Paese. Ma possono anche derivare da contesti e ambienti diversi. Di fronte a questa realtà umana e storica, fin dall'epoca primitiva c'è sempre stata una ricerca permanente di meccanismi per evitare scontri e sconvolgimenti sociali. L'Africa, da cui provengo, con abbondanti risorse nel suolo e nel sottosuolo, nel mare e in ogni altro luogo, ha sempre creduto e per molto tempo, durante il periodo precoloniale, che le sue differenze dovessero essere risolte attraverso mezzi e/o metodi e pratiche tradizionali e consuetudinarie, come le riunioni sotto un albero o intorno a un falò, con gli anziani considerati saggi e investiti di poteri e fiducia per risolvere conflitti di vario tipo. In questo modo si evitavano i conflitti tra famiglie, coppie, tribù e gruppi etnici. Pertanto, instaurare il dialogo per cercare comprensione ed evitare conflitti è uno dei pilastri dell'intelligenza primitiva delle popolazioni, in cui le nuove generazioni coesistevano con quelle più anziane in un rispetto reciproco e in una necessaria sottomissione.
 
In questo mio intervento, consentitemi di condividere la memoria storica della guerra civile in Mozambico, iniziata poco dopo l'indipendenza del Paese nel 1975. Il Paese era appena uscito dalla lotta armata di liberazione contro i portoghesi allora colonizzatori, una lotta guidata dal movimento nazionalista FRELIMO (Fronte per la Liberazione del Mozambico), che aveva portato alla proclamazione dell'indipendenza. Oggi non voglio concentrare il mio intervento sulla descrizione della storia della colonizzazione dei popoli africani in nome della civiltà, perché questo è noto a tutti i presenti e anche a chi ci segue online. Tutti conosciamo la storia coloniale e i suoi frutti di ambiguità e avventura. Tutti sappiamo che molte pratiche atroci del colonialismo erano anche evitabili. 
 
Oggi vi parlo della guerra civile in Mozambico tra il 1976 e il 1992, 16 anni di guerra che noi stessi come mozambicani avremmo dovuto evitare. Dopo aver ottenuto l'indipendenza, abbiamo perso rapidamente il senso della famiglia e della condivisione, mettendo al primo posto gli interessi personali e di gruppo. La FRELIMO, il movimento di liberazione dal colonialismo, frutto dell'unione di piccoli movimenti che cercavano di liberarsi dall'occupazione in modo disperso e regionale, sotto la guida del suo presidente, il maresciallo Samora Moisés Machel, è diventato un partito politico di stampo marxista-leninista per guidare i destini di una nazione che all’epoca contava solo 14 milioni di abitanti. Un anno dopo la proclamazione dell'indipendenza, si accese il malcontento interno sul modello di governo e, a poco a poco, alla fine del 1976, nacque la RENAMO (Resistenza Nazionale Mozambicana), guidata dall'allora giovane André Matade Matsangaissa, che morì in combattimento nel 1979 e fu sostituito da un altro giovane, Afonso Macacho Marceta Dhlakama. Si trattava di una guerriglia interna che riceveva anche un forte sostegno esterno, soprattutto dalla Rhodesia del Sud, l'attuale Zimbabwe. Quando niziarono i primi attacchi armati, subito dopo l’indipendenza, molti erano convinti che si trattasse di semplici attacchi sporadici e di breve durata che potevano essere facilmente fermati. La guerra civile non era qualcosa di programmato, ma il risultato di semplici proteste che iniziarono con un linguaggio offensivo gli uni contro gli altri, con attacchi verbali per imporsi o pretendere. Quindi la guerra è iniziata con il linguaggio e, per porvi fine, il prof. Riccardi, che è stato uno dei mediatori della Comunità di Sant'Egidio per la pace in Mozambico, è partito proprio dal linguaggio. Il prof. Riccardi ricorda sempre che nei primi giorni dei colloqui tra le parti, una delle prime sfide è stata quella di convincerle innanzitutto a riconoscersi come membri della stessa grande famiglia, la famiglia mozambicana, e poi a modificare il linguaggio abituale. Era consuetudine, infatti, che il governo chiamasse i guerriglieri “banditi armati” e che i guerriglieri della Renamo chiamassero quelli del governo “comunisti”. Al tavolo delle trattative di Roma, il primo passo è stato quello di imparare l'alfabeto della fraternità e del linguaggio rispettoso tra le parti. È così che la pace ha cominciato a essere immaginata al tavolo del dialogo. Il dialogo per la pace non poteva procedere senza prima aiutare uomini e donne a riconoscersi come parte della stessa famiglia. 
 
Proprio sulla scia della dolorosa esperienza della guerra civile in Mozambico, possiamo condividere insegnamenti che ci portano a dire che quella guerra è stata inutile, anzi, che la guerra è sempre inutile ed è anche per questo che va sempre evitata. Abbiamo vissuto per anni scenari tristi: bambini rapiti e trasformati in soldati per combattere i loro stessi genitori, e per distruggere le loro stesse città e villaggi. Ci vengono in mente donne, madri costrette ad assistere all'uccisione dei propri figli nel modo più crudele. Ancora oggi, non abbiamo dimenticato le famiglie che la guerra ha diviso e costretto a combattere tra loro. Era una routine quotidiana di dolore e spargimento di sangue in cui quasi nessuno immaginava la possibilità di una pace, seppure tutti volessero la pace. Era un “tutti contro tutti”. Né il governo né la Renamo avevano idea di quanto sarebbe durata. A un certo punto, tutti erano stanchi, tutti volevano la pace, ma tutti facevano la guerra, causando morte e sofferenza alle persone. Chi fa la guerra è come chi fa uso di droghe: entra nel giro senza rendersi conto che potrebbe diventare dipendente, soffrire o addirittura morire. Così come chi fa uso di droghe, anche chi fa la guerra vuole uscirne, ma non conosce il modo giusto ed efficace, per cui continua a fare la guerra come se non potesse farne a meno. Noi in Mozambico, dopo tanta guerra e tanti morti, ci eravamo quasi abituati, anzi ci eravamo conformati e avevamo reso la pace inimmaginabile. Ci sono state alcune iniziative interne ed esterne per convincere le parti a optare per la pace, ma sembrava che la guerra dilagasse sempre di più. Quando la guerra è intensa e prolungata, le vie della pace sembrano impotenti e insignificanti. 
 
In Mozambico, la cessazione della guerra e il ripristino della pace cominciarono a essere considerati possibili sulla base della solidarietà con le vittime. Gli aiuti umanitari dall'Europa cominciarono ad arrivare in Mozambico nel bel mezzo della guerra. Con la guerra, il Mozambico era diventato il Paese più povero del mondo, perché non essendo stati in grado di evitare la guerra e di immaginare la pace, dovevamo accettare la fame e la miseria di ogni tipo come figlie legittime della guerra. Il Paese non aveva cibo perché la gente non lo produceva più e tutto dipendeva dagli aiuti esterni. Intere famiglie morivano per aver mangiato tuberi malsani. Si moriva di fame, di sete e di malattie, compresi gli stessi belligeranti. Una guerra intensa non sceglie le vittime, ma ha conseguenze per tutti. Tutti perdono dalla guerra. Si perdono l'umanità e l'umanesimo. Le religioni, nella loro caratteristica diversità, possono riattivare le loro anime dialoganti e diventare pietre angolari su cui costruire un mondo di pace. Come religioni, come società e come classe politica siamo tutti fragili quando siamo isolati, ma se insieme immaginiamo la pace saremo forti e coraggiosi nel costruire un mondo migliore. 
 
Il Mozambico ha raggiunto la pace non perché era forte, ma perché nella sua debolezza e fragilità, frutto della guerra, ha incontrato e ascoltato qualcuno che immaginava la pace, e qui vorrei ricordare e ringraziare ancora una volta l'interesse disinteressato della Comunità di Sant'Egidio, per il suo impegno per la pace in Mozambico. È stato con lei che migliaia di mozambicani sono risorti dalle ceneri della morte, ma tutto è iniziato nel 1984 (40 anni fa), con un lavoro paziente fino a trovare canali di dialogo. 
 
Come si può vedere dalla nostra esperienza, siamo partiti dalla solidarietà con le vittime della guerra e lo sguardo si è allargato verso un bisogno più grande: la ricerca della pace attraverso il dialogo. L'audacia di impegnarsi per la pace acquista slancio quando si sperimentano o si toccano le ferite delle vittime, è lì che rinasce il nostro umanesimo che non si conforma alla sofferenza degli altri. La pace può quindi essere immaginata combinando la solidarietà e la diplomazia basata su un dialogo aperto, genuino e disinteressato. Nel 1992, il 4 ottobre, quando finalmente ricevemmo la notizia della firma dell'Accordo Generale di Pace a Roma da parte della Comunità di Sant'Egidio, l'esplosione della festa fu più grande di quella dell'indipendenza nazionale. Nella lotta per l'indipendenza, nel contesto regionale, continentale e globale, c'era più convinzione di raggiungere la vittoria che durante la guerra civile. Mentre con il colonialismo la lotta consisteva nel raggiungere l’indipendenza, durante la guerra civile lo sforzo è stato quello di riconoscersi come parte di una stessa famiglia destinata a coesistere nella sua vasta diversità politica, culturale ed etnica. 
 
Concludo affermando che viviamo in un mondo segnato da continue guerre, ma la pace è ancora possibile da immaginare e realizzare. È inaccettabile che bambini e donne, uomini, giovani e adulti, del sud o del nord del mondo, della periferia o del centro, tutti fatti a immagine e somiglianza di Dio, debbano soffrire e morire per l'avidità di una minoranza che si è affermata o vuole affermarsi come potenza. Parliamo, dialoghiamo, confrontiamoci. Quell'intelligenza primitiva, l'intelligenza del dialogo, che è la più alta immaginazione della pace, è diventata la meno creduta, anche se la più efficace, eppure è l'unica arma con cui combattere pacificamente per raggiungere la pace. Per raggiungere la pace non c'è nessuna ruota da inventare. La formula esiste già e si è dimostrata efficace: il dialogo. Dialogo dove c'è guerra e dialogo dove non c'è guerra per evitare la guerra. Per evitare la guerra, è urgente ristabilire un linguaggio comune: l'arte del dialogo, della comprensione, dell'accettazione di chi è diverso da me, del rispetto e della convivenza nella diversità devono essere pilastri irrinunciabili per un futuro di pace globale. Nessuna nazione o popolo raggiungerà la propria realizzazione e gioia se continuerà a considerare gli altri come nemici ed estranei. La guerra può essere evitata equilibrando il linguaggio. I nostri linguaggi sono troppo incendiari, offensivi e provocatori. Il mondo non è un campo di videogiochi. Le persone, gli altri, sono proprio come noi, pieni di sentimenti ed emozioni, frustrazioni e gioie. Le nostre scelte sono il risultato dei nostri sentimenti e delle nostre emozioni. I leader, sia politici che religiosi, dovrebbero amare un linguaggio accomodante, accogliente e che lasci spazio all'incontro e al dialogo. Affinché il linguaggio sia uno strumento che eviti la guerra, deve essere sincero e aprire la porta a un ulteriore dialogo.