Durante la quinta crociata, nel giugno 1219, san Francesco lasciò questa città di Assisi per andare dai musulmani. Su una nave piena di soldati, mercanti e qualche religioso giunse a San Giovani d’Acri, la capitale dei crociati, dopo la presa di Gerusalemme ad opera di Saladino nel 1187. Non si fermò, il suo scopo era quello di uscire dal campo cristiano e di incontrare il nemico apocalittico dell’epoca, non con le armi, ma con il cuore.
Sbarcò nel bel mezzo della guerra a Damietta nella valle del Nilo e, durante una tregua, riuscì ad attraversare il fronte e anche ad incontrare il sultano Al Malik-al-Kamil. Il poverello di Assisi aveva messo in conto il rischio del martirio, ma voleva ad ogni costo proclamare, nel clima spaventoso delle relazioni islamo-cristiane, che Gesù era venuto a dirci che siamo tutti fratelli. Il nipote di Saladino lo ricevette con molta cortesia, scrivono i cronisti, ma questa visita fu considerata come una sconfitta da parte cristiana, laddove i cronisti dei sultani come gli storiografi dei re cristiani avevano il compito di vantare le prodezze guerresche dei loro signori e non di riportare le avventure spirituali. Fortunatamente i religiosi cristiani che videro la partenza e il ritorno di san Francesco furono così stupiti da darci alcuni dettagli. Ahimè non si sa molto di colloqui e oggi ancora si raccontano aneddoti inventati più di un secolo dopo. Quel che è certo è che Francesco parla della sua fede cristiana, che è ascoltato, che ciascuno vede l’altro pregare ed è condotto ad uno sguardo differente sul suo interlocutore. Il monaco cristiano è rispettato al punto che il sultano vuole offrirgli dei doni al momento della partenza. Ma volendo essere povero come Gesù Cristo, frate Francesco rifiuta anche la sbalorditiva proposta di consegnarli alle chiese e ai poveri. Allora il sultano dà l’ordine di scortare fino alla no man’s land colui che è venuto non da parte dei crociati o del Papa, ma di Dio creatore di tutti gli uomini.
Nel clima delle guerre dette sante, la luce di questo incontro che supera le barriere etniche, sociali e religiose non fu percepita. Il santo non aveva né convertito il sultano, né conseguito il martirio, che non era degno di lui. Anche i suoi discepoli per sette secoli evitarono di parlarne nei loro panegirici.
Ciò nonostante, Francesco, di ritorno in Italia, aveva scritto il frutto della sua meditazione e della sua esperienza dell’incontro. Queste righe furono praticamente dimenticate fino al ventesimo secolo. Eccole: “I frati che se ne vanno tra i musulmani e tra gli altri non cristiani possono considerare il loro ruolo spirituale in due modi: o non fare né liti né contese, essere sottomessi a ogni creatura umana a causa di Dio, e confessare semplicemente di essere cristiani; oppure, se vedono che questa è la volontà di Dio, annunciare la Parola di Dio affinché i non cristiani credano in Dio onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e in suo Figlio Redentore e Salvatore, si facciano battezzare e diventino cristiani”. Con la prima Francesco ipotizza una via di testimonianza evangelica con tutti coloro che non rientrano nella fede della Chiesa. Certo non si tratta di ridurre le proprie convinzioni di coscienza e neppure di tacerle, ma di vivere nel rispetto di quelle degli altri e di vivere con Dio, che non ha creato affinché gli esseri umani si combattano ma si riconoscano uguali davanti a lui e fratelli.
Si dovettero attendere sette secoli perché fosse riscoperto da Charles de Foucauld il metodo della presenza e della condivisione fraterna tra gli altri. Parallelamente, cristiani e testimoni di altre religioni seminavano in silenzio i semi della fraternità universale, preparando la ripresa ufficiale di relazioni degne di Dio.
Il documento Nostra Aetate del concilio Vaticano II fu approvato da numerosi credenti e quando papa Giovanni Paolo II chiamò alla Giornata di preghiera del 27 ottobre 1986, numerosi responsabili delle religioni vennero gioiosi e tracciarono la via degli incontri annuali e del nostro servizio interreligioso che dura durante tutto l’anno.
Si può pensare, davanti alla crescita delle paure, che siamo ricondotti ai tempi delle guerre dette sante e che il lavoro oscuro degli artigiani di pace sia considerato come un fallimento. Tuttavia, la loro opera di estremisti, estremisti non dell’odio ma dell’amore vissuto nel quotidiano, continua a portare frutti. Gli imam uccisi perché rifiutano di disprezzare i non musulmani nelle loro prediche sono un seme d’amore, e la morte di religiosi cristiani, come i monaci di Tibhirine o quella recente in Francia del padre Jacques Hamel, hanno mostrato che le folle comprendono che la risposta all’odio non può essere l’odio. Non dobbiamo vendicare i nostri modelli, dobbiamo essergli fedeli! Un buon numero di reazioni contro le generalizzazioni negative ci portano speranza! Nella società e nella politica sono i frutti di artigiani della presenza tra gli altri e della perseveranza del vivere insieme, a volte anche in condizioni molto difficili. Nell’emozione della morte del vecchio prete francese, la decisione reciproca di rendersi nei luoghi di culto dell’altro è una nuova fiamma. Speriamo che non si spenga.
Nel 1219, San Francesco ha acceso una grande fiamma attraversando l’oceano dell’odio. Io prego perché l’ottavo centenario dell’incontro di Damietta tra tre anni, sia anche l’occasione per il mondo, una volta di più, di comprendere che la via dell’amore è il cammino del cielo. Il 27 ottobre 1986 Damietta è venuta ad Assisi; nel 2019, Assisi deve tornare ad accendere la fiamma a Damietta.
Bisogna andare sull’altra riva, bisogna andare sulla riva dell’altro, e insieme arriveremo sulla riva di Dio.