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Adriana Gulotta

Coordinator of Schools of Peace, Community of Sant'Egidio, ltaly
 biography

Alla scuola della pace: bambini, giovani e pace

 

Vorrei iniziare partendo da alcune considerazioni.

Questa estate un’ondata di violenze, perpetrate per lo più da giovani terroristi, ha sconvolto diverse città europee: Nizza, Monaco, altre città tedesche, ma non solo: Bagdad, Kabul, e poi Ferguson negli Stati Uniti…. C’è a volte una matrice islamista in alcune di queste azioni. Altre volte sembra esserci solamente un gusto per la violenza, l’assassinio, il gesto efferato, distruttivo ed auto-distruttivo. I giovani fanno paura.

E’ il caso di tanti studenti protagonisti di stragi negli USA, o di adolescenti arruolati nelle maras in Centroamerica, le gang giovanili di paesi come il Salvador o l’Honduras, dove la violenza è diffusa e detiene un triste primato nella società. C’è poi quello che è stato definito “l’archetipo americano del pistolero senza ideologia”, solo contro tutti.  

Soprattutto, circolano armi, tante armi, che si acquistano con troppa facilità. Papa Francesco ha alzato la voce con forza a proposito del commercio delle armi. 

Ma come si arriva a tanta follia? Disturbi psichici? Droga? Radicalizzazione islamista? Non sempre ci sono motivazioni ideologiche o religiose. 

A volte uccidere sembra un gioco in cui i confini con la realtà si confondono. La morte appare, come nei videogiochi, un elemento transitorio, da cui ci si può rialzare, senza conseguenze. 

Altre volte la violenza risulta il modo più efficace per affermarsi. C’è nei giovani un desiderio di fare qualcosa “che lasci un segno”, che faccia uscire dall’anonimato della folla. Un’ansia di protagonismo. Ed in parte si tratta di giovani marginali, periferici, alla ricerca della ribalta per scaricare l’odio accumulato contro la società. Uccidere diviene un’esperienza macabra, una ricerca di forza che sembra non conoscere confini. Terrorizzare manifesta potenza e contesta i poteri da cui i giovani si sentono esclusi. Un fenomeno prima che sociologico, umano –anzi per meglio dire - disumano.

Qui c’entra il vuoto dei cuori e delle menti, insopportabile per i giovani. Come ha scritto Umberto Galimberti: “Quando l'attesa è disabitata dalla speranza nei giovani subentra la noia… dalla noia si passa alla depressione, sempre più diffusa. Senza attesa e senza speranza, il tempo si fa deserto e, in assenza di futuro, rifà la sua comparsa quell'ospite inquietante, chiamato nichilismo . 

Si, il nichilismo sembra, nelle vite vuote di tanti giovani, un ospite sempre più familiare.  I reclutatori di giovani terroristi lo sanno bene. Lo evidenzia il drammatico abbassamento dell’età degli autori dei più recenti attentati: sono bambini reclutati dall’ISIS, da Boko Haram, o in altre guerriglie, attive nel mondo. Inquadrati in milizie più o meno note, sono mandati al fronte per uccidere o per uccidersi come baby-kamikaze. I piccoli combattenti si stima siano oggi più di 300.000,  ma è difficile avere i contorni esatti di questa tragedia. 

Peraltro l’indottrinamento dei bambini e il loro utilizzo non è una novità. I regimi totalitari si sono spesso rivolti ai più giovani per farne degli inconsapevoli collaboratori dei loro progetti di oppressione: è il caso della gioventù hitleriana nel Terzo Reich tedesco o dei giovani cambogiani durante la dittatura di Pol Pot. Oggi ci arrivano le immagini sconcertanti delle scuole dell’ISIS, con il loro carico sanguinario di orrore e di odio.

Ma non si tratta solo di un problema lontano. I giovani foreign fighters, partiti dall’Europa, stanno a dimostrarlo.

Nel vecchio continente, il disagio sociale delle grandi periferie urbane si collega pericolosamente alla mancata integrazione degli immigrati – ancora non integrati come “nuovi europei”. 

Le giovani generazioni, complice anche la mancanza di prospettive causata dalla crisi economica, pagano un prezzo altissimo. La rivolta delle banlieue francesi nel 2005 rivelava un disagio troppo a lungo sottovalutato. Andrea Riccardi già lo indicava in un volume, dal titolo Convivere uscito l’anno successivo: “Vivere insieme fra diversi non è solo un problema delle periferie del mondo, di democrazie iniziali, di Stati senza libertà oppure disegnati con confini arbitrari. È anche una questione europea. (…).” . 

Parole che segnalavano un problema, divenuto oggi, purtroppo, un elemento permanente di conflitto sociale.

È il caso di tanti giovani europei cresciuti in periferia, con poca scuola e senza lavoro, in aree trascurate e divenute quartieri-dormitorio, giovani senza opportunità che trovano negli immigrati –appena arrivati – il capro espiatorio della loro difficile condizione. Ma è anche la vicenda di tanti figli di immigrati, di seconda o terza generazione, che trovano nello “scontro di civiltà” la strada per riappropriarsi di un’identità o individuano nell’islam radicale la possibilità di uscire dalla marginalità. 

È insomma la realtà di un’integrazione mancata, in tante periferie divenute ghetti, in cui la nazionalità o l’etnia, per gli uni e per gli altri, rischia di essere l’unico elemento di identità.

Questa situazione di conflitto sociale nata negli ultimi decenni, si va ad aggiungere ai numerosi problemi causati dalla povertà che determinano spesso il destino di chi è svantaggiato e si sente escluso dal resto della società.

Vivere insieme è sempre di più, nel mondo di oggi, l’altro volto della pace.  Il bisogno di luoghi dove si “impari” la pace e la convivenza, in un mondo sempre più urbanizzato, complesso e spesso conflittuale, è, se possibile, sempre più grande. In questo scenario, dove abbondano i cattivi maestri, sentiamo l’esigenza di moltiplicare le energie per educare le giovani generazioni a rispettare la vita umana, ad amare la pace e rigettare il culto della violenza.

E’ un impegno che Sant’Egidio ha vissuto fin dalle origini. Forse meno noto di quello per la pace in tante situazioni di conflitto o nel dialogo interreligioso. In realtà la sollecitudine per educare alla pace le giovani generazioni coincide con la nascita stessa della Comunità, nel 1968, quando ha iniziato a fare scuola ai bambini marginali di Roma ed è diventata oggi una educazione quotidiana e mondiale che coinvolge centinaia di migliaia di bambini, in Europa, Africa, Asia e Americhe. Nelle Scuole della pace di Sant’Egidio, oltre al sostegno scolastico e affettivo, si offre ai più piccoli la possibilità di imparare a crescere insieme agli altri senza pregiudizi e ostilità. Il nome, Scuole della pace, segnala che il vero centro del lavoro è imparare a “costruire” la pace, in tanti contesti, non solo di guerra, ma ovunque, specie dove vi sono tensioni e conflitti. In periferie abbandonate, questi centri gratuiti pomeridiani, tenuti da giovani volontari, si rivolgono a bambini che non hanno altra alternativa che la strada. Studio, attività, giochi, gite e vacanze sono il veicolo di una cultura di apertura all’altro, alla diversità, che rappresenta il presupposto -ma anche il contenuto- di un’educazione alla pace e alla convivenza. 

In questo modo, alla propaganda della violenza e della forza bruta, Sant’Egidio oppone una “predicazione” quotidiana della pace, che potremmo definire una sorta di “controcultura”.

Ad una logica di mercato  si contrappone una cultura del dono, con la presenza di giovani che senza alcun compenso si prendono cura dei bambini divenendo quelle figure di riferimento su cui contare, quando i genitori sono assenti o lontani.

Al culto della forza come sopraffazione dell’altro, si oppone la forza della non violenza e la simpatia verso il debole. Vorrei sottolineare quest’ultimo aspetto: l’incontro con chi è più debole è un elemento assai importante del “metodo” di Sant’Egidio. Un giovane vicino a un bambino o un ragazzo accanto ad un anziano comincia a comprendere che la debolezza è parte della vita. Non va temuta né esorcizzata. Questo innesca un cambiamento psicologico e antropologico. E’ quella “rivoluzione della tenerezza” di cui ha parlato più volte papa Francesco. Nel deserto emotivo che è la vita di tanti ragazzi, la tenerezza per un piccolo o un debole diviene un elemento di forza e di empatia per l’altro.  Da una parte il giovane marginale scopre di avere un valore e delle capacità. Ma allo stesso tempo ribalta il suo modo di guardare l’altro, che non è più il “nemico”, o la persona da allontanare, o da temere. Si impara a non avere paura di chi è diverso: straniero, povero, anziano,…. Ci si libera, insomma, della cultura del nemico.

Amare la pace e divenire attivisti della pace perché diventi sempre più popolare: questo il nostro obiettivo. Per questo i nostri centri per bambini si chiamano Scuole della pace, ed il nostro movimento giovanile prende il nome di “Giovani per la pace”: la pace è un grande ideale per cui vale la pena di vivere e lottare. E’ un modo diverso di guardare se stessi e gli altri.

Vorrei concludere con un’immagine. E’ tratta da un volume, Noi terroristi, di Mario Giro, che riporta la testimonianza di un ragazzo, Merzoug Hamel, giovane terrorista ora rinchiuso in un carcere marocchino. Mandato ad uccidere degli ebrei all’uscita di una Sinagoga, all’ultimo momento si rifiuta di sparare. Così racconta: “Davanti a me a dieci metri c'era la gente che dovevo colpire. Ma al momento di fare fuoco, gli occhi di alcuni bambini ebrei si sono voltati verso di me e mi hanno fissato, con uno sguardo di purezza, d'innocenza. Sembrava non capissero. Improvvisamente, qualcosa nel più profondo del mio cuore, che non so ancora spiegarmi bene, mi ha fatto cambiare parere [..]" . 

Sono gli occhi di un bambino a fargli cambiare idea e a impedirgli di eseguire l’ordine di uccidere.  Ecco, il nostro lavoro: incontrare e far incontrare gli occhi di un bambino, di un anziano, di un povero, così diverso da me ma anche così simile. Sono gli occhi di un essere umano come me, al di là di ogni pregiudizio, costruzione ideologica o odio. Incontrare quegli occhi, fin da piccoli, cambia nel profondo, tocca il cuore. In quello sguardo reciproco, il piccolo si sente accolto e vince la paura -quella paura che rende aggressivi; il giovane comprende che la sua vita e le sue energie hanno un valore da non sprecare, ma da mettere a frutto per gli altri. 

E’ in questa alleanza degli sguardi, allora, che si semina la pace; che c’è il seme della pace.  

Ma anche il nostro sguardo sui giovani deve cambiare. Spesso siamo prigionieri di quello sguardo senile delle nostre società europee che temono, che hanno paura dei giovani.

Il nostro mondo occidentale sembra non avere più occhi per la condizione giovanile portatrice di rinnovamento e, quando non arriva a criminalizzarla, la lascia ai margini, parcheggiata in spazi vuoti e privi di prospettive, senza farsi sfiorare dal dubbio che forse il sintomo della fine di una civiltà non è da addebitare tanto ai processi migratori o ai gesti disperati dei terroristi, quanto piuttosto al non aver dato senso, idee, speranze, sogni e identità e quindi aver sprecato le proprie giovani generazioni.