15 Octubre 2018 16:30 | Sala Bolognini

Discorso di Massimo Naro



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Massimo Naro

Teologo cattolico, Italia
 biografía
I vescovi della Sicilia hanno pubblicato, lo scorso 9 maggio, una lettera pastorale che ricorda e ribadisce l’invito che venticinque anni fa, nella Valle dei Templi, ad Agrigento, Giovanni Paolo II rivolse ai mafiosi di quella terra: «Convertitevi!». Nella stessa lettera, i vescovi siciliani ricordano la vicenda del beato Pino Puglisi, parroco ucciso dalla mafia a Brancaccio, un quartiere popolare di Palermo, il 15 settembre 1993, anche in questo caso venticinque anni fa: un anniversario importante, che papa Francesco ha celebrato a Palermo esattamente un mese fa.
 
Don Puglisi, nelle sue catechesi ai giovani della sua parrocchia, già prima della visita apostolica di papa Wojtyła, diceva che era giunto in Sicilia il tempo di «rimboccarsi le maniche», di passare «dalle parole ai fatti», dalle prediche all’azione, di mettere in atto una «controproposta» rispetto alla «cultura della illegalità» promossa dai mafiosi. Tempo di inaugurare uno «stile di vita» fatto al contempo di aspirazioni civili e ispirazioni evangeliche, di «dignità umana» e di «amore cristiano». Tempo di iniziare comportamenti rinnovati e convertiti, che fossero segno inequivocabile della volontà di riscatto dalla schiavitù del male e della mafia.
 
I vescovi siciliani, nella loro lettera pastorale, sottolineano proprio questa negativa corrispondenza che don Puglisi coglieva tra il male e la mafia: la mafia, in una terra come la Sicilia e come il Meridione d’Italia (ma anche come il resto del nostro Paese e come tante altre parti del mondo), è qualcosa di brutto. Il male consiste anche in essa, anche nella mafia. Uno dei volti del male, una sua espressione particolarmente subdola e violenta, persino mortale, è – appunto – la mafia.
 
In questa prospettiva, i vescovi siciliani, nella loro lettera pastorale di qualche mese fa, si rivolgono agli uomini e alle donne di mafia per ripetere pure l’invito rivolto da Francesco «a coloro che, come i mafiosi, vivono nel male e nel peccato, compiendo gravissimi reati e violando le giuste leggi umane oltre che i comandamenti divini: “Aprite il vostro cuore al Signore”», «cambiate» la vostra vita, come il papa ha ripetuto il mese scorso a Palermo.
 
Sempre i vescovi siciliani, a tal proposito, aggiungono: «In quest’ultimo appello riecheggia ciò che già il beato Pino Puglisi diceva in una sua omelia del 20 agosto 1993, nella chiesa parrocchiale di San Gaetano, a Palermo: egli, rivolgendosi immediatamente ai mafiosi di Brancaccio e idealmente a tutti i mafiosi, ricordava che anche loro sono battezzati e, perciò, “figli della chiesa”: “Mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile”».
 
Queste parole descrivono la resistenza cristiana che don Puglisi oppose allo strapotere della mafia. Una resistenza evangelicamente ispirata, perciò non violenta, che tentava di vincere contro il male usando le armi del bene. Le armi del bene erano, per lui, il dialogo, l’impegno educativo e la testimonianza concreta.
 
Innanzitutto, il dialogo: a chi lo insultava e a chi lo minacciava, a chi gli mandava dei segnali di morte, a chi lo riempiva di botte nei vicoli bui di Brancaccio o lo schiaffeggiava in qualche angolo nascosto della sagrestia dov’egli aveva il suo piccolo ufficio, don Puglisi reagiva non tirando pugni, ma tendendo la mano aperta, nella speranza di stringere finalmente le mani dei suoi nemici. Il dialogo, cioè lo sforzo di spiegare le proprie ragioni, di argomentare il proprio punto di vista, di farsi conoscere dagli altri e di conoscere le altrui aspettative e rivendicazioni, era per lui la maniera più efficace e coerente di “porgere l’altra guancia”. Infatti, ciò che Gesù dice ai suoi discepoli, secondo il vangelo di Matteo, non significa essere remissivi, timidi, pavidi. Significa, piuttosto, essere coraggiosi anche se umili, forti anche se miti, decisi anche se pazienti. Questo è il modo di porgere evangelicamente l’altra guancia, questo è il modo di resistere cristianamente al male. E don Puglisi l’aveva ben capito, seguendo il suggerimento che leggiamo nella prima lettera di Pietro: «Chi vi potrà fare del male, se sarete saldi nel bene? E se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate per paura di loro e non turbatevi, […] stando pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia fate questo con dolcezza e rispetto […]. È meglio – se così vuole Dio – soffrire operando il bene che facendo il male» (1Pt 3,13-17). Il dialogo, inteso e praticato così, è un’impresa ardua, che rischia di degenerare nel suo contrario: nel diverbio. Perché di mezzo c’è la difficoltà dei diversi linguaggi, che occorre saper tradurre, apprendere e comprendere (la stessa parola “dialogo”, in greco, significa qualcosa di positivo, due parole che si incontrano e si attraversano a vicenda; ma nella sua traduzione letterale latina, “diverbio”, il dialogo corre il pericolo di significare tutto il contrario, cioè due parole che si contraddicono). Ecco perché il dialogo è già una forma della resistenza. E don Puglisi resisteva così alla mafia, tentando di dialogare con essa.
 
In secondo luogo, la resistenza di don Puglisi consisteva nell’impegno pedagogico. Egli voleva educare i ragazzi del suo quartiere a una nuova visione del mondo, a un nuovo senso della vita: al rispetto reciproco – diceva –, ai valori della cultura e della convivenza civile. Difatti, venne ucciso dai mafiosi perché stava trasformando la sua parrocchia nella “fontana del villaggio” (prendo in prestito questa espressione da Giovanni XXIII), aggregando nel centro sociale da lui fondato le persone di quel quartiere – specie bambini e giovani – per promuoverne una nuova identità comunitaria. La comunità, che voleva far nascere e crescere, era quella civile ed ecclesiale insieme, in ogni caso alternativa al clan mafioso. Si trattava, per lui, di ripensare in prospettiva missionaria la prassi pastorale e la vita parrocchiale, di mettere in circuito le migliori energie ecclesiali con le migliori risorse sociali, di coniugare fede e giustizia. In tal senso, la sua era una pedagogia “performativa”, capace di tradursi in azione e di non risolversi in chiacchiere. Insomma, più che una lezione teorica, una testimonianza credibile e una rete di relazioni, un’alleanza tra uomini e donne di buona volontà, tra adulti e adolescenti, tra gente bisognosa di ricevere aiuto e gente disposta ad offrire soccorso: il “protagonismo dell’abbraccio” tra chi aiuta e chi è aiutato, direbbe papa Francesco, come quando ha parlato ai volontari di Sant’Egidio, a Roma, qualche anno fa. Quando, nel luglio 1992, in Sicilia il governo italiano mise in atto la cosiddetta “Operazione Vespri Siciliani”, mandando nelle strade dell’Isola l’esercito a garantire l’ordine pubblico contro la malavita, un giornalista intervistò lo scrittore Gesualdo Bufalino, chiedendogli cosa secondo lui si dovesse fare ancora per combattere la mafia: lo scrittore, che era stato maestro di scuola elementare, come lo era stato anche il suo amico Leonardo Sciascia, rispose che serviva un «esercito di maestri elementari». Non l’esercito militare, bensì l’esercito scolastico, non la repressione ma la prevenzione. Don Puglisi lo aveva capito a sua volta, dedicandosi all’educazione dei suoi ragazzi e così avviando un’altra resistenza – o una resistenza-altra – alla mafia.
 
Infine, la resistenza al male operata da don Puglisi consisteva nell’immersione totale, sincera e leale, dentro la storia e dentro il mondo. O, più precisamente, nell’immersione dentro il “rovescio” della storia, dentro il “rovescio” del mondo. Cioè nella storia dei più deboli e dei più poveri, degli emarginati e degli anonimi, di quelli di cui le autorità non tenevano conto, di quelli di cui i giornali e le televisioni non parlavano. Il “rovescio” della storia e del mondo è il luogo dannato, la periferia estrema impenetrabile al cosiddetto progresso civile, la frontiera che le cosiddette “persone per bene” preferiscono non oltrepassare, il “deserto dei tartari” da cui persino lo Stato si tiene alla larga, come accade ancora oggi in quartieri come lo Zen di Palermo, o come Scampia a Napoli, o come il Tuscolano e Ostia a Roma. Il “rovescio” del mondo è il posto di Dio stesso, venuto in Cristo Gesù sulle nostre strade, nelle nostre periferie, a contatto reale con la nostra gente. Don Puglisi aveva capito anche questo e perciò viveva la sua testimonianza, la sua martyría, nel quartiere Brancaccio di Palermo, resistendo al male non dal di fuori, da lontano, “dal balcone” direbbe ancora una volta papa Francesco, ma dal di dentro: non soltanto a parole, ma con i fatti; non pianificando indagini sociologiche e piani pastorali, ma accompagnando concretamente quella sua gente, lavorando quotidianamente in mezzo a loro e per loro, distinguendo lucidamente tra il male e il bene, ma senza discriminare tra buoni e cattivi. «Ho fatto questo, affinché anche voi facciate lo stesso»: così dice Gesù ai suoi discepoli, dopo aver lavato loro i piedi, durante l’ultima cena. Don Puglisi lo ricordava certamente, ben sapendo che lavare i piedi, mettersi a servire, può apparire come un’impresa fallimentare, come una fatica inutile (Gesù stesso lo diceva ai suoi amici: consideratevi servi inutili). Per questo la parola d’ordine della sua resistenza al male mafioso risuonava con un timbro umile, ma anche speranzoso: «Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto».
 
A me pare che sia questa la parola d’ordine della resistenza cristiana che tanti altri hanno vissuto in terre di mafia, dal giudice Rosario Livatino, martire per la giustizia in Sicilia, a don Peppe Diana, parroco di Casal di Principe vicino Napoli, per arrivare al giovane William Quijano Zetino, membro della Comunità di Sant’Egidio radicata a El Salvador e operatore della Scuola della Pace nella periferia di Apopa, che diede la sua testimonianza cristiana fino a essere ucciso a colpi di pistola – nel 2009 – dalle maras locali: come don Puglisi, a lui affratellato nel martirio, nella fedeltà al vangelo e nella resistenza al male.