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Il momento attuale si caratterizza per la confusione e lo smarrimento. Mi chiedo come si stiano globalizzando delle società che si sentono come compagne di viaggio, ma che agiscono come se fossero nemiche o almeno sconosciute. Certamente non esiste un progetto globale che renda ragione delle affinità che si scoprono tra le persone che vivono in un mondo sempre più tecnologicamente ed economicamente globalizzato. Si può consumare, per esempio, un prodotto "made in China" ed ignorare il paese che lo ha prodotto, il suo popolo, i suoi costumi, il suo modo di vivere, le sue convinzioni, il suo sistema politico. Siamo sempre più vicini e allo stesso tempo più lontani. Gli "altri" ci interessano al massimo come curiosità antropologica, ma non come persone con cui convivere. Le affinità con i mondi lontani non ci conducono ad una visione globale e globalizzante.
 
Questa ignoranza dell'altro implica sfiducia nei suoi confronti. Come è stato spesso osservato, l'esplosione del globale ha significato un'accentuazione del locale. Nessuno si rassegna a perdere la propria identità, né sul piano culturale – la lingua è un fattore essenziale della cultura – né sul piano della storia – il ritorno alle tradizioni e l'evocazione delle origini fa parte di tante iniziative che vengono prese oggi. Molti populismi si aggrappano a questo punto ed elaborano discorsi di assoluta affermazione di ciò che è proprio e di totale rifiuto di ciò che è estraneo. E qui sta l'inganno. Da un lato, si pensa che tra globale e locale vi sia una contrapposizione insormontabile. Così, si accetta l' "altro" appartenente al mio gruppo o etnia e  si rifiuta l' "altro" che si trova al di fuori della cerchia di coloro che considero miei. Ci sono quindi due tipi di "altro": colui che mi è vicino, il mio "prossimo", e colui che è lontano, il mio "non-prossimo", il connazionale e il rifugiato, l'autoctono e lo straniero, quello del mio paese e quello venuto da fuori.  D'altra parte, si pensa che per proteggere il locale dal globale, si debbano alzare muri (o fili spinati o recinzioni) che non possano essere attraversati e collocare sistemi di detenzione o dissuasione che impediscano all' "altro" globale di entrare nel territorio dell' "altro" locale.
 
Questo approccio comporta, come abbiamo detto, confusione e smarrimento, persino rabbia. Infatti, la "soluzione" dissuasiva non risolve la dialettica tra ciò che è locale e ciò che è globale, piuttosto rende più acute le situazioni e le rende generatrici di conflitti. Le popolazioni si dividono, calpestate da dichiarazioni di personaggi della scena pubblica che, in molti casi, cercano solo di ricavare benefici di gruppo o elettorali da ciò che sostengono. Invece di ricondurre la situazione, tirano la corda in modo che si alzi la tensione e penetri nelle persone il peggiore dei nemici: l'odio e il disprezzo, che è la versione "light" di questo. Si vorrebbe perdere di vista ciò che causa il conflitto e per farlo ci si indigna contro i naufraghi, considerati la causa dell'accaduto, piuttosto che ragionare sulla legittimità della decisione di non lasciarli sbarcare, che si presenta anche come piena di coraggio e protettrice degli interessi dei cittadini quando in realtà manca la più elementare umanità.  
 
Stiamo assistendo alla globalizzazione della disumanità. Ogni giorno c'è una crescente perdita di umanità, spinta da certi poteri di fatto, che lentamente cambia il cuore delle persone. Per parafrasare la metafora profetica (Ezechiele 36, 26), si può affermare che i cuori di carne diventano pietra. La sensibilità delle persone e le immagini della sofferenza dei poveri della terra diventano qualcosa di innocuo. È comune passare dall'altra parte della strada quando qualcuno giace nel bisogno, o banchettare abbondantemente mentre i Lazzari del XXI secolo raccolgono le briciole che cadono dalle esuberanti tavole di chi pensa solo a se stesso. Il fossato tra paesi ricchi e poveri si approfondisce, e nessuno vuole perdere il benessere che possiede, anche a costo di lasciare in sospeso l'umanità di tanti esseri umani. Le società globali possono cambiare una tendenza che sembra generale e condannare così tante persone a una vita priva di dignità?
 
La risposta a questa domanda passa attraverso la proposta di un "umanesimo spirituale". Nel 2012 Andrea Riccardi ha presieduto la cattedra del Collegio dei “Bernardins” a Parigi e ha tenuto la lezione inaugurale della Cattedra sul tema "La globalizzazione, una questione spirituale". In questa lezione il prof. Andrea Riccardi ha fatto riferimento alla "destrutturazione della prossimità" con tre conseguenti crisi: quella della fraternità, della vicinanza ai poveri e della comunione tra le persone. La lettura spirituale della globalizzazione ci porta a constatare che ciò che sta accadendo è una crisi antropológica, le cui radici affondano nella parte più intima della persona umana. Nel nucleo più intimo di ogni essere umano, si gioca un'alternativa decisiva tra l'io e il "noi". Da un lato appare l'io, carico di ragioni per ergersi a protagonista assoluto di una storia costruita su se stesso. D'altra parte, emerge, non senza difficoltà, il "noi", il soggetto collettivo, che crea spazi di fraternità e di comunione, che rendono possibili i progetti di trasformazione di cui l'umanità ha bisogno.
 
La domanda è come si debba propiziare e realizzare il passaggio al "noi" in una circostanza come quella attuale, dominata da un individualismo senza infingimenti, che si manifesta continuamente con messaggi generici del tipo "Prima te stesso", "prenditi cura di stesso, che nessuno lo farà al tuo posto”. L'unico modo per conseguiré il “sorpasso” dell'io è il rafforzamento di un umanesimo spirituale che cresca nell'humus del "noi", l'humus che costituisce la grande famiglia umana. L'umanesimo spirituale si intende quindi in termini collettivi, poiché nasce e cresce con il "noi" e con ciò che unisce tutti gli esseri umani. Proprio lo spirito di Assisi, che si plasma in questo incontro caratterizzato dal dialogo e dall'amicizia, ha come punto di partenza ciò che unisce tutti gli uomini: la propia umanità. Infatti, come ha detto il Cardinale Poupard nella Preghiera per la Pace di Milano (2004), "l'umanità è il cuore di un autentico umanesimo". Esaminiamo la parola "umanità" e i suoi due significati.
 
Ogni essere umano è unito all'altro per il fatto di condividere la stessa condizione umana e appartenere alla stessa "umanità": un uomo riconosce sempre un altro uomo, e lo fa a partire dai diversi linguaggi (verbale, corporale, gestuale, simbolico) che sono come ponti tesi tra le persone. Il riconoscimento dell'altro implica la creazione embrionale di un "noi", la prima cellula di una incipiente umanità ma reale ed efficace. È l'umanità che nasce nell'Eden, dove Adamo ed Eva si incontrano, si riconoscono e si parlano. La parola è il segno inconfondibile dell'apparire della condizione umana. Tuttavia, nell'Eden non sono in due ma in tre: Adamo, Eva e Dio, che scende a passeggiare nel giardino e parla all'umanità che egli stesso ha posto in un luogo pieno di dignità. Fin dal primo momento Dio è al fianco degli esseri umani e forma con loro, in una certa misura, un "noi". L'umanità si costituisce come un "noi", ma avendo Dio come qualcuno ad essa vicino, che la sostiene e la guida nel suo cammino, rinnovata dopo il peccato.
 
Da questa osservazione inizia il secondo significato del termine "umanità". L'umanità è la caratteristica dell'umano. Diciamo, per esempio, che "questa persona ha umanità", cioè che è in grado di commuoversi davanti a chi soffre,  di sperimentare la misericordia verso coloro che sono ai margini della strada senza forza o coraggio, di avvicinarsi a coloro che sono tristi o persi nella mente o nello Spirito. Qui il "noi" appare nella misura in cui l’ “io” si spegne, ed emerge un'energia di amore e compassione che è nascosta in ciò che ogni essere umano ha di più sublime: essere immagine di Dio, creato a somiglianza di Lui. In altre parole, il "noi" è dentro ogni persona, come un tesoro nascosto nel campo, che aspetta che qualcuno lo porti in superficie. Quando l' “io” entra in se stesso e trova il "noi", in quel momento sgorga (ndt: in catalano nel testo) e brilla l'umanesimo spirituale.  
 
Infatti, l'umanesimo spirituale si basa sulla cultura dell'incontro e dell'alterità, dell'amicizia e del dialogo, cioè sulla cultura del "noi", che mette di lato l'onnipotente "io" e disattiva le sue pretese di dominio. Il recupero di ciò che è veramente umano conduce alla formazione di un umanesimo che non è pura filantropia o semplice discorso intellettuale, che non tesse le sue reti sulla spiaggia dell'assistenzialismo ma va in mare aperto, lì dove sono i poveri e i malati, i feriti e coloro che non hanno speranza. Questo è un umanesimo spirituale perché comprende la persona in tutte le sue dimensioni e si sofferma in ciascuna di esse, senza dicotomie di alcun tipo, senza chiedersi cosa appartiene al corpo e cosa appartiene allo spirito.
 
Questa visione comprensiva della persona è tipica dell'uomo spirituale, che vive attento all' "altro": all'Altro che è il Creatore e agli altri che sono le sue creature. L'uomo spirituale è disceso all’interno di se stesso e ha trovato la traccia e la presenza luminosa di Dio e del suo Spirito, che rinnova il volto della terra, cioè il mondo globale. Non si è limitato all'introspezione, che è una conoscenza tenue, in cui non ci sono lotte spirituali contro il male e in cui prevale solo la ricerca di sensazioni e situazioni di benessere. L'introspezione, come il cosiddetto "auto-aiuto", rappresenta il trionfo dell' "io". Al contrario, l'uomo spirituale non si rassegnare a un discorso di tranquillità mentale, ma mette al centro della sua vita le avventure e le ricerche spirituali e fraterne, le preoccupazioni verso i poveri, il grande patto che lega il Dio della pace con gli uomini e le donne  di buona volontà che abitano in tutte le terre.
 
La morte di Dio è la morte dell'uomo, l'indifferenza verso il Creatore tende a relegare i suoi figli e le sue figlie. L'uomo autenticamente spirituale si lascia guidare dallo Spirito e in primo luogo coniuga il verbo "convivere", vivere congiuntamente. Papa Giovanni XXIII scrisse nella sua enciclica Pacem in Terris che "il fatto di vivere insieme deve prima di tutto essere considerato come un fatto spirituale" (n. 31). (ndt: 19) L'umanesimo spirituale è la risposta alle sfide del mondo globale, che deve camminare verso la civiltà dell'amore e della pace. Papa Paolo VI ha affermato nella sua enciclica Populorum Progressio che "Tra le civiltà, un dialogo sincero è di fatto creatore di fraternità” (n. 73). Camminare verso la fraternità universale, quella che non esclude alcun essere umano, quella che integra i lontani e i vicini, che impugna la fiaccola della pace: questo è l'obiettivo dell'umanesimo spirituale di cui il mondo globale ha bisogno.