Era il 1993, l’anno dopo la firma della pace costruita a Roma per il Mozambico. La sera della firma, il 4 ottobre 1992, a Santa Maria in Trastevere, al termine di una preghiera di ringraziamento, scoppiò una felicità collettiva, un’ora di canti e balli, molto tamburo africano, uno spettacolo dell’anima e del corpo, dove anche chi era goffo ballava, si univa, faceva trenini, con il card. Etchegaray – lui era più rigido di me, e io ero tra i peggiori, ma liberati dalle paure di sembrare ridicoli dalla felicità- e il vescovo Goncalvez, che era fede e gioia allo stato puro, lui, mozambicano, che aveva vissuto per 26 mesi la fatica del negoziato di pace con don Matteo Zuppi, Andrea Riccardi, e un deputato di Trento, in Italia: una felicità collettiva per qualcosa che non ci riguardava direttamente, che non riguardava il mio io, né l’io di nessuno. Ne ho un ricordo come di una delle felicità più pure, libere, della mia vita. Libera totalmente dal “me”.
Ma pochi mesi dopo leggevo con qualche stupore “I pericoli della solidarietà”, un librettino che fu ripubblicato in Italia nel 2014: Tra l’altro si diceva: “basta, finalmente, con la puzza di incenso della solidarietà”. L’opposto. Iniziava 30 anni fa una stagione di diffidenza progressiva verso il valore del bene comune, fino a quella che mi sembra affermata, oggi, come forse l’unica religione condivisa in Occidente, la religione dell’io e dell’individualismo, che spesso contiene la ricerca della realizzazione di sé senza l’altro, fino agli estremi di una realizzazione contro l’altro, o anche autodistruttiva, contro sé stessi.
Ma non è iniziata trent’anni fa. E’ un filone della storia occidentale che c’è sempre stato, anche se mi sembra che negli ultimi decenni ci sia stata una accelerazione, con l’indebolimento e la frantumazione di molti corpi intermedi e modelli di vita con una forte presenza degli altri, non solo nel mondo contadino, partiti, chiese, famiglie, associazioni, comunità.
Personalmente penso che ci sia un’evidenza, ovvia, da cui partire: la vita non ce la si può dare da soli. La vita, per essere vita, è relazione, o altrimenti è sempre, o finisce per essere, non-vita e negazione della vita. Eppure il nostro tempo ha creato la capacità di produrre la vita “senza-relazione”. Non c’è bisogno di conoscere l’altro, la manipolazione genetica è andata oltre. C’è molta comprensione per il cosiddetto utero in affitto, anche da chi ha scelto un impegno contro lo sfruttamento delle donne, mentre è ben nota la schiavitù di milioni di donne povere. Mi sembra un segno del disorientamento del nostro tempo.
Ma per introdurre e favorire questo panel di oggi, che a mio parere tocca un tema cruciale del presente e del futuro, ho provato a prendere sul serio le parole e il pensiero, che attraversa duemila anni, ma soprattutto dal XVII-XVIII in poi, a favore dell’io. Così voi siete liberi di parlare di altro, e di indicarci delle vie possibili per ricostruire il gusto del “Noi”.
E mi sono tornate in mente quelle di un filosofo olandese, un medico, Bernard de Mandeville, tra ‘600 e ‘700, che era un maestro di aforismi: “Noi diamo l’elemosina ai mendicanti per lo stesso motivo per cui si va dal callista. Per poter camminare in pace”: per estremo egoismo e disinteresse degli altri si può persino essere generosi, per levarsi un impaccio, un impiccio, un fastidio.
Non è esattamente la visione della Comunità di Sant’Egidio, che prova a essere più vicina a quella di Giovanni Crisostomo. Questo arcivescovo di Costantinopoli e padre delle Chiese orientali, della divina liturgia, alle matrone patrizie romane che evidenziavano come tanti mendicanti fingessero malattie che non avevano, come i “tremolanti”, rispondeva che: “Certo, fanno finta. Ma lo fanno per il vostro cuore duro, perché altrimenti neanche li guardereste”. La Comunità di Sant’Egidio in tanti modi prova a vivere quello che suggerisce, nella stessa direzione di Giovanni Crisostomo, papa Francesco. Lui consiglia non solo di darla quell’elemosina, ma di guardare negli occhi la persona a cui la diamo, se possibile di chiedere il nome, e di toccare la sua mano, perché “quella è la carne di Gesù”.
L’individualismo è radicalmente sbagliato? Come “-ismo direi di sì, e contiene un seme di autodistruzione. Come emersione del valore di ogni essere umano e vivente direi di no. C’è una storia di emersione della persona, dell’individualità, che era nascosta e quasi inesistente nel gruppo, che ha permesso in epoca moderna l’emersione dei diritti dei bambini, dei lavoratori, delle donne, dei deboli. E’ una grande conquista della modernità. Anche se già Seneca, rimanendo all’interno del primato del bene comune, ragionava sull’individuo e la verità, e sul rischio della omologazione massificante che può arrivare ad annullare l’io.
Ma si può dire che l’io, come entità autonoma coincide con l’avvento della modernità. Con Locke, l’individuo ha assunto una dignità separata dal gruppo e dallo stato, è cresciuta l’esaltazione dell’homo oeconomicus che persegue i propri interessi come motore della ricchezza. Assieme ai dubbi per gli eccessi. Stuart Mill, per superare le contraddizioni, dovette sostituire la ricerca del maggior piacere come norma di comportamento con quella del miglior piacere, e l’utile così lasciava spazio al progresso. Ma è stato un torrente in crescita, che ha fatto diventare la modernità quasi sinonimo di scoperta dei diritti dell’uomo emancipato dallo stato di “minorità”, come lo chiamava Kant, che definì l’Illuminismo come “la vittoria sull’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”. L’inizio dell’età “adulta” dell’uomo moderno. Mi perdoni la professoressa De Cesaris se provo a mettere all’inizio di questo nostro confronto una sintesi approssimativa, ma penso che sia utile perché è come se ai nostri giorni si fossero spuntate le armi di difesa del “noi”, dentro una pratica quotidiana che sembra avere oltrepassato i limiti. Fino a fare esplodere il desiderio di possesso in femminicidio e autodistruzione – come le tante cronache di questi giorni in Italia. O i desideri e le rabbie estreme che portano alla sproporzione delle guerre e della violenza urbana insensata eppure vera.
Non intendo fare una storia dell’individualismo, e non ne ho la competenza. Ma fornire una cornice a questo confronto, porre alcuni elementi, nella speranza che possiamo trovare ragioni ancora più forti per ricostruire un noi, il senso del bene e di un destino comune, che mi sembra largamente perso oggi, e verso le giovani generazioni, che sono il nostro noi, ma che lo sono talmente poco che gran parte del mondo, in maniera irresponsabile, sta consumando definitivamente le risorse di millenni e milioni di anni in una generazione e continua a negare il cambiamento climatico .
Credo che un punto di arrivo e di partenza sia proprio nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino della Rivoluzione Francese, che si invera nella società in chiave anti-religiosa, quando, al tempo stesso, Libertà, Fraternità e Uguaglianza mi appaiono, come diceva Emile Poulat, l’universalizzazione dei fondamenti evangelici e il più grande successo del cristianesimo, all’inizio della modernità, in chiave secolarizzata. E i diritti dell’individuo lockiano, nella Dichiarazione, è temperata e si muove all’interno della “volontà generale”.
Gli ultimi due secoli e il nostro tempo mi sembra che si siano liberati di questo vincolo, progressivamente. La lista degli autori è lunga, da von Hayek a Weber, Comte, Durkheim, nelle scienze sociali, fino al successo dell’individualismo radicale americano di Robert Nozik, che teorizza una libertà individuale illimitata. Ma siamo alle prese oggi, a mio parere, con una situazione antica e nuova. La caduta del senso del limite e la difficoltà contemporanea di resistere al narcisismo di massa, all’edonismo molecolare, a quello che Alain Laurent chiama “le sabbie mobili della massificazione edonista” come rischio, che potrebbe essere letale, nella società contemporanea.
Il nostro caro amico e maestro in tante cose Vincenzo Paglia, ha scritto pagine densissime sul “crollo del noi”. E pongo a me e a noi la domanda su come sia possibile lavorare a ricostruire un senso profondo di fraternità e comunanza alla stessa famiglia umana, al tempo delle frontiere, nei nuovi nazionalismi, dei sovranismi e di questa massificazione edonista tanto diffusa e naturale da essere quasi senza antidoti.
All’origine del mondo, nel racconto del Libro della Genesi, è posto un progetto e un comandamento sintetico: “Non è bene che l’uomo sia solo”, che non riguarda solo il rapporto tra l’uomo e la donna, ma è la chiave per essere signori del creato e della storia, quando per tre volte Dio rende signori l’uomo e la donna sulla terra, perché fatti “a immagine di Dio”. La relazione è posta dentro l’essenza dell’essere umanità. E’ una consapevolezza che attraversa la storia e il pensiero umano, da Aristotele, che sapeva bene che felicità e amicizia, realizzazione personale, sono strettamente legate, e che “l’uomo è un animale sociale”.
Tutto questo sembra essersi rotto. Teodor Todorov ha osservato come “l’individuo narcisista” si è preso ormai la scena e il self-made man concepisce la propria autonomia come realizzazione dell’ego, fino a una società di rapporti desertificati. Dove l’isolamento e la solitudine sono diventate tra le principali concause di morte.
E mi sembra, che, paradossalmente, vi siano molte assonanze tra la Favola delle Api di de Mandeville, inizio XVIII secolo, e le analisi di Bauman sulla nostra società fluida che produce strutturalmente, per crescere, rifiuti e scarti, fino a intere masse di uomini e donne, come i migranti. La società della Favola delle Api esalta il vizio – ma potremmo sostituire la parola con il principio del piacere e della libertà individuale assoluta, più moderni - e la disuguaglianza nella società come fattori necessari al perseguimento assoluto del proprio interesse e piacere e, quindi, come unico motore possibile per una società felice, almeno per alcuni, al posto di una immobile e infelice per tutti.
Baumann ci ha svelato la nostra società dei consumi come la società che promette felicità nella vita terrena, qui e ora, istantanea e perpetua. Per la prima volta nella storia. La nostra - ha detto questo caro amico e interprete del nostro tempo, attratto da questi incontri mondiali di dialogo e ricerca della pace tra religioni e culture come luogo per alimentare la speranza del cambiamento e vedere “la luce in fondo al tunnel” - “è anche l’unica società che si astenga a giustificare e/o legittimare ogni forma di infelicità (…) che rifiuti di sopportarla e la presenti come abominio che pretende punizione e risarcimento”, restando, così, radicalmente incapace di fare i conti con i limiti e le frustrazioni. Una corsa alla felicità, per lo più, quasi sempre frustrante. Mi sembra che il crollo del noi si accompagni a una grande infelicità nelle nostre società molecolari, segnate da grandi solitudini.
Penso che proprio perché la felicità è un tema centrale, sia necessario a ritrovare il senso del noi e a ricostruirlo. Come sapevano i nostri padri costituenti, dopo il fascismo e gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, quando scelsero di fondare i diritti della persona, che include l’altro e il bene comune, anziché quelli dell’individuo.
E’ con questo sentimento e con queste preoccupazioni, che vorrei darvi la parola, dentro quella che sento come una urgenza personale e planetaria: il bisogno di inventare una nuova fraternità.