12 Septiembre 2023 09:30 | Humboldt Carrè
Francesca Zuccari: "A partire dalle persone fragili può nascere una umanità nuova costituita non dai legami di sangue ma dall’amore vicendevole" E' il modello di abitare che Sant'Egidio propone nelle sue caseA partire dalle persone fragili può nascere una umanità nuova, una nuova famiglia umana costituita non dai legami di sangue ma dall’amore vicendevole
La fragilità è una condizione che riguarda un grande numero di persone nelle nostre società ma spesso manca riflessione, confronto, dibattito pubblico, politiche efficaci per affrontare questa dimensione complessa della vita nonostante coinvolga in qualche modo tutti, perche è connaturale alla condizione umana. Lo abbiamo visto durante la pandemia che ha evidenziato quanto siamo fragili ed interconnessi.
Oltre la vecchiaia, la malattia, la precarietà economica c’è una condizione sociale sempre più diffusa nelle grandi metropoli, soprattutto del nord del mondo, che rappresenta una aggravante importante di tutte le condizioni di fragilità: la solitudine. Nelle nostre società questo fenomeno è ormai endemicamente presente. Basti pensare che in molte grandi città la metà delle persone vive da sola: e non si tratta solo di persone anziane, che più facilmente sperimentano la riduzione delle reti sociali. E’ un percorso che inizia già dall’età adulta, favorito dall’anonimato e dalla desertificazione della vita sociale nelle grandi città e dall’individualismo sempre più pervasivo. Ma l’isolamento sociale riguarda sempre più anche i giovani, fino ad arrivare a fenomeni come gli Hikikomori, che, chiusi nelle loro stanze, in casa, perdono ogni contatto con il mondo esterno.
E’ ormai acclarata da moltissimi studi la significativa incidenza della solitudine sulla mortalità. L’impatto della solitudine - soprattutto quando diventa vero e proprio isolamento sociale - è diventato talmente grave da indurre alcuni governi come Giappone, la Gran Bretagna, a nominare un ministro della solitudine. Recentemente negli Stati Uniti il responsabile della Sanità pubblica ha dichiarato che la solitudine è una nuova epidemia da affrontare con strategie adeguate.
Ci sarebbe molto da dire su questo argomento ma vorrei sottolineare la forte correlazione tra il fenomeno dell’isolamento sociale e la mancanza dell’alloggio: è un problema con il quale mi confronto quotidianamente nel mio impegno con la Comunità di Sant’Egidio. Si tratta di una fragilità grave che colpisce un numero crescente di persone e che talvolta, quando l’esito è la vita in strada, ne mette a rischio la vita. Una recente indagine condotta a livello europeo stima che il numero di senza dimora in Europa abbia raggiunto le 900.000 persone.
Nei grandi contesti urbani, l’isolamento sociale, la riduzione del numero dei membri della famiglia, le difficoltà economiche, la perdita del lavoro, i problemi di salute, il costo elevato degli affitti, sono le cause frequenti che concorrono a far perdere il bene prezioso della casa, senza il quale vivere è veramente difficile.
Tante persone anche nelle grandi e ricche città europee non dispongono in modo stabile o sicuro di una sistemazione alloggiativa che abbia la caratteristica di una casa. La casa è un valore nella vita di tutti. Non è solo il luogo dove si dorme. E’ il rifugio, la stabilità, la sicurezza. E’ il luogo degli affetti, della memoria, del riposo dalle fatiche ma anche della bellezza di vivere: rappresenta la dignità e l’identità.
Non avere casa vuol dire non avere tutto questo. Si aggiungono poi un gran numero di problemi materiali: difficoltà a mantenere la propria igiene personale, non poter possedere nulla perché non sai dove conservare quello che hai, non avere un luogo dove stare e dove curarti se sei malato. Senza casa è difficile mantenere un lavoro, le relazioni sociali, ricevere la posta, fino all’impossibilità a mantenere la residenza, ottenere i documenti di identità e l’assistenza sociale e sanitaria. Insomma, la casa è un bene insostituibile. Eppure non esistono garanzie sufficienti a impedire di perderlo quando insorgono difficoltà. Avere un alloggio sarebbe un diritto ma nei fatti non sempre è possibile esercitarlo: di fatto, la precarietà abitativa è un fenomeno diffuso e consolidato nei confronti del quale non esiste abbastanza attenzione nelle politiche pubbliche.
Sant’Egidio ha sempre sentito la ferita delle persone che non hanno una casa e sono costrette a vivere in strada o in luoghi di riparo precari. Fin dall’inizio, negli anni 60, la Comunità a Roma visitava e sosteneva le famiglie italiane immigrate dal sud che vivevano in gruppi di baracche in condizioni di grande privazione.
Nei suoi cinquant’anni di vita, Sant’Egidio ha incontrato e aiutato un gran numero di persone senza casa costruendo una rete di accoglienza diffusa in tutte le città dove è presente. Così, accanto al grande impegno per sostenere l’autonomia e quindi la permanenza nella propria abitazione di tante persone sole, infragilite dall’età o dalla malattia, sono nate soluzioni abitative di vario tipo: centri di accoglienza notturna per persone senza dimora per rispondere all’emergenza freddo, centri di transito e di accoglienza per stranieri e rifugiati, ma anche sistemazioni non temporanee ma definitive come case famiglia, comunità alloggio, alloggi e condomini protetti per anziani e disabili, senza tetto.
Non solo posti dove trascorrere la notte, ma luoghi familiari, vere case dove poter ricominciare a vivere, soprattutto nei centri storici delle città, che per altro hanno visto negli anni perdere abitanti a favore dei quartieri residenziali. Case situate non in luoghi periferici come spesso succede alle strutture dedicate ai poveri, ma visibili agli occhi di tutti e integrate nel tessuto cittadino. Nuovi modelli di convivenza che vogliono rappresentare anche una proposta per fronteggiare il grave problema dell’isolamento sociale e il bisogno di tutti di un ambiente familiare.
E’ così che Sant’Egidio, da vari anni, per risolvere il problema della mancanza di alloggio, sperimenta un nuovo modello di abitare con l’obiettivo di promuovere soluzioni non temporanee ma sostenibili e stabili nel tempo. Si tratta delle convivenze tra persone che, supportate dalla Comunità nel reperimento dell’alloggio, decidono di condividere lo stesso appartamento con altri, dividendo le spese.
Vivere insieme, in due o tre, risolve infatti, il problema dell’isolamento sociale, ma anche le difficoltà economiche: è una forma di aiuto reciproco, una risposta al desiderio di compagnia e una possibilità di garantirsi una maggiore assistenza, unendo le proprie risorse economiche per far fronte alle spese di una casa, con la presenza, dove necessario, degli amici della Comunità, che accompagnano e sostengono il buon andamento della convivenza.
Oggi queste convivenze miste tra persone che hanno vissuto in strada o che comunque hanno perso l’alloggio, sono centinaia. Così persone anziane si trovano a vivere insieme a persone senza dimora, oppure disabili o stranieri con senza tetto: non c’è una separazione per categorie. Persone diverse, con un comune bisogno di alloggio, che fraternizzano e iniziano insieme questa felice esperienza di condivisione e compagnia.
Abbiamo sperimentato in profondità che la casa ha un valore terapeutico. Significa poter riprendere in mano la propria vita, non essere più schiavi delle necessità materiali, della preoccupazione di come arrivare al giorno dopo, ma iniziare a pensare al futuro. Grazie alla sicurezza di un luogo dove vivere, abbiamo visto rinascere in modo sorprendente tante persone, quasi oltre le nostre aspettative.
Abitare insieme ad altri, anche se la convivenza a volte può presentare qualche difficoltà, è un’esperienza straordinaria per persone che hanno vissuto situazioni di isolamento grave, senza legami familiari, a volte con scarsissime relazioni sociali. Le case dove sono accolti, diventano spazi di socialità molto significativi attraverso cui apprendere l’arte dell’incontro umano – arte che tutti noi dovremmo vivere - dove ricostruire rapporti sociali e affettivi significativi, indispensabili, assieme alla sicurezza di un luogo dove vivere, per riprendere a costruire una vita migliore. Alcuni nuovi “inquilini” per esempio, hanno ripreso a lavorare, altri hanno espresso il desiderio di ricontattare la propria famiglia.
La cosa che più colpisce, è che, la ritrovata esistenza, suscita in molti di loro il desiderio di vivere la solidarietà, aiutando gratuitamente la Comunità nell’impegno verso i più poveri. E’ un modo molto significativo di trovare una nuova dignità essendo utili per altri e di restituire generosamente quanto si è ricevuto.
E’ così che la fragilità di ciascuno, che non è risolta totalmente dalla soluzione della casa, diventa una risorsa per la collettività. Le persone, prima scartate, divengono protagoniste di azioni a favore di altre persone in difficoltà e comunque del bene comune. Il loro passato difficile, la sofferenza subita, rende sensibili al dolore degli altri e, a volte, più capaci di intuirlo, decifrarlo e entrare in sintonia con chi ancora vive in condizioni di disagio. Siamo testimoni di commoventi storie di amicizia e di sostegno tra persone veramente fragili ma divenute forti nel desiderio e nella possibilità di fare del bene e di essere utili ad altri. E’ quanto l’apostolo Paolo dice nella seconda lettera ai Corinti “quando sono debole è allora che sono forte”. E’ il mistero della debolezza che si rivela in una forza sorprendente di umanità.
Ma allora c’è di più. Le convivenze vogliono essere non sono solo un letto dove dormire, una casa dove abitare, ma vere famiglie nelle città: quelle che molti hanno perduto o non hanno mai avuto. Questa è la differenza con i centri che normalmente accolgono le persone che hanno perso la casa, evidentemente molto utili a breve termine, ma che non rispondono alla grande domanda di relazioni anche affettive, di inclusione, espressa e non espressa.
Vogliamo creare nuove famiglie che ripopolino di umanità i centri storici, le periferie delle nostre città. Attorno ad ogni nuova casa si crea un movimento di persone amiche, attente ai più fragili. Questo movimento attorno a ogni nuova convivenza è molto importante: non si tratta solo di sostenere i nuovi inquilini nelle difficoltà della vita - da soli forse non ce la farebbero - ma di creare luoghi significativi affettivamente, dove tutti, nella propria diversità contino per qualcuno. Non ci sono assistenti e assistiti, operatori sociali e poveri in difficoltà, ma amici, fratelli perché siamo tutti bisognosi di stima, di affetto, alla fin fine, di famiglia.
Così questa esperienza delle convivenze è diventata una vera e propria risposta al problema così grave dell’isolamento e della disgregazione sociale. Una nuova proposta anche per le politiche pubbliche in un tempo segnato dall’individualismo e dalla carenza di attenzione verso le persone più fragili. Di fronte alla crisi della convivenza civile, alla tendenza sempre più diffusa all’isolamento sociale, attorno alle persone più fragili, si può ricostruire un tessuto umano che non esclude ma valorizza le diversità e le fragilità di ognuno.
Non dovremo noi cristiani allora in questo passaggio di epoca farci promotori di un nuovo umanesimo provocando le nostre società a rimettere al centro le persone fragili e il loro bisogno di cura e di sostegno? Sarebbe un guadagno per tutti. La fragilità, con cui prima o poi tutti dobbiamo fare i conti, interroga il nostro individualismo; se presa a cuore, come dovrebbe, può scardinare i meccanismi cinici dell’efficienza e della competizione che finiscono per schiacciare tutti, forti e deboli.
A partire dalle persone fragili può nascere una umanità nuova, una nuova famiglia umana costituita non dai legami di sangue ma dall’amore vicendevole, in cui nessuno è messo da parte e dove proprio le persone fragili in quanto tali, coloro che erano disprezzati, non solo entrano di diritto, ma possono divenirne la linfa vitale.
Questa è la nuova famiglia universale che Gesù voleva creare assieme alle persone più disprezzate nella società del suo tempo chiamandole “i miei fratelli più piccoli”, cioè membri della sua propria famiglia: era un messaggio dirompente per la società di allora ma lo è anche per la nostra.
E’ molto significativo che Papa Francesco, nel messaggio per la Giornata internazionale delle persone con disabilità abbia parlato di un vero e proprio “magistero della fragilità” che, “se venisse ascoltato, renderebbe le nostre società più umane e fraterne”. Il magistero della fragilità – continua il papa - è un carisma che può arricchire la Chiesa ma anche i rapporti tra i popoli: infatti, la consapevolezza di aver bisogno l’uno dell’altro, ci aiuterebbe ad avere relazioni meno ostili e la constatazione che neanche i popoli si salvano da soli spingerebbe a cercare soluzioni per i conflitti insensati che stiamo vivendo!