8 Septiembre 2014 16:30 | Karel de Grote-Hogeschool, Campus Groenplaats, Swaelen room
Incompatibilità dell’Arte con la guerra
Incompatibilità dell’Arte con la guerra: costruzione dell’immaginario e fuga dalla violenza.
Gli artisti dell’Avanguardia negli anni della prima guerra mondiale fuggono dalle guerre e, nomadi per l’Europa, si riuniscono costruendo nella loro arte testimonianze di trasformazione dell’immaginario per la pace e le relazioni transnazionali.
Possiamo dare per scontata la incomunicabilità di campi tra la energia creativa e la energia distruttiva: dobbiamo a Charles Baudelaire la prima affermazione, alla fine dell’Ottocento, della incompatibilità assoluta tra la poesia e la politica, forse anche memore della cacciata dei poeti dalla utopica Repubblica disegnata da Platone.
Certo è che abbiamo quasi un’immagine dell’Europa analoga a quella che stiamo vivendo in questo 2014, negli anni di enormi trasformazioni sociali nell’Europa dei primi due decenni del Novecento: in particolare l’immagine dell’Europa, proprio al tempo della prima guerra mondiale che inaugura il secolo e cui si fa riferimento in questo incontro volto a dichiarare la necessità di una prospettiva pacifica per la costruzione di un futuro degno dell’uomo libero.
Non solo gli scienziati (pensiamo alle grandi scoperte di Einstein – la teoria della relatività – e di Freud – la nascita della psicanalisi, con lo svelamento delle ossessioni interiori della società dell’epoca), ma anche gli artisti realizzano opere rivoluzionarie. Essi si muovono come i nomadi della attuale società globalizzata e soggetta a rivolte e violenze di ogni tipo, attraverso frontiere e si riuniscono di volta in volta in grandi capitali diverse d’Europa, condividendo progetti di nuove forme, linguaggi e teorie scientifiche. Analogo a questa nostra epoca era infatti allora, cento anni fa, il processo di comunicazione e scambio (anche se non esisteva la facilità tecnologica attuale di internet, della radio e della televisione) in un’ansia di relazione e condivisione dei processi creativi in atto. Sarebbe troppo lungo qui ricordare lo sfondo condiviso di dubbi e intuizioni, nell’ambito della cultura artistica e scientifica: dominante tra tutti – anche se in modi e in radici differenti – l’aspirazione ad una libertà dell’uomo che andava oltre l’idea di progetto e rivoluzione terrena. Si trattava della aspirazione al superamento dei limiti fisici della materialità, della materia, per scoprire e svelare il segreto stesso della natura della materia e dei suoi componenti invisibili. Come sappiamo questa ansia tocca scienziati ed artisti: quale che fosse la diversa radice, religiosa o esoterica o laica, i processi di conoscenza e di creazione permangono intrecciati e partecipati nella diversità.
Le esperienze dell’arte cui possiamo fare riferimento nel limitato tempo che abbiamo a disposizione in questa sede, sono direi quelle più eclatanti degli inizi del Novecento, cioè delle avanguardie cosiddette storiche (si usa questo aggettivo per differenziarle dalle nuove avanguardie che si svilupparono dopo la seconda guerra mondiale a partire dal 1946-47). È nell’ambito del Futurismo e del Cubismo ad esempio, che possiamo intravedere non solo quella immagine nomadistica e transnazionale dell’arte, ma anche un processo di ripensamento di sé e delle proprie diverse scelte, quando gli artisti di quei due movimenti passano proprio attraverso l’esperienza della guerra, toccati direttamente o indirettamente, dalla prima guerra mondiale.
Uno dei casi che vorrei ricordare è quello di Umberto Boccioni che, poco prima di morire nel 1916 mentre era stato richiamato al fronte, lancia un suo disperato messaggio contro la guerra e le sue ragioni extra umane e modifica sostanzialmente il suo stesso linguaggio in un’opera rimasta famosa: il ritratto del compositore e pianista di fama internazionale, Ferruccio Busoni. C’è da chiedersi come sia avvenuto il cambiamento dal linguaggio rivoluzionario futurista, peraltro di grande bellezza e significato per la storia mondiale della cultura del Novecento, per tornare a un linguaggio di pittura in senso stretto che si rifà a un prerivoluzionario come Paul Cézanne, per ricomporre in una pittura pura l’immagine dell’uomo.
Non si pone una questione di estetica, ma una questione profonda di mutamento interiore.
Si pone un grande mutamento interiore in Boccioni come in altri (Ardengo Soffici) del gruppo dei futuristi italiani che erano entrati nella guerra nel 1915, come volontari entusiasti.
Sappiamo che l’intervento in guerra dell’Italia fu soggetto ad un dibattito interno alle stesse ideologie pacifiste socialiste e molto è stato ormai chiarito dalla storiografia, delle ragioni storiche che hanno determinato quella scelta. Ma, a determinare il rivolgimento interiore dell’artista, è proprio l’incontro che avviene tra il grande musicista Ferruccio Busoni che eseguiva importanti concerti in tutte le capitali d’Europa e l’artista Umberto Boccioni.
Ferruccio Busoni ci narra, attraverso le sue lettere oramai pubblicate (Ferruccio Busoni, Lettere con il carteggio Busoni-Shönberg, Milano, Edizioni Unicopli-Ricordi, 1988. ed. inglese Londra, Faber & Faber 1987) inviate in tutto il mondo e da tutto il mondo a corrispondenti, artisti, amici ed anche – importantissime - alla moglie, tutto l’orrore dell’animo di un artista di fronte agli eventi devastanti in corso. Come egli afferma, non si tratta di una questione di estetica, ma di umanità. Che cosa pensava egli della guerra? Possiamo citare, per tutte, la lettera di Busoni del 1916, scritta tra l’altro ancora col dolore vivo per la morte del suo amico artista Boccioni. “Il mondo accetta tutto con troppa naturalezza, sia quel che è grande, sia quel che è spaventoso, sia quel che è insolito (e invece perde la testa per i peggiori luoghi comuni). Più delle azioni che la provocano, mi sorprende la docilità stupida con cui oggi la gente accetta supinamente ciò che in tempi andati riguardava solo coloro che erano inclini al “nobile” mestiere della guerra, o ne facevano la propria professione. Questa bella istituzione dell’arruolamento generale (mi si dice che la dobbiamo alla Svizzera) è un mirabile sistema per sottomettere l’individuo”. (Lettere, cit. pp. 342-343).
Sarebbe interessante confrontare le osservazioni di Ferruccio Busoni sulla ricezione di allora della guerra e della violenza, con le attuali riflessioni sulla modalità presente con cui ragioni e immagini di violenza guerresca vengono diffuse e accolte attraverso gli infiniti canali della comunicazione istantanea.
L’amicizia ed il lavoro con Busoni fu molto importante per Boccioni: Busoni ne era consapevole, tanto che il 19 settembre 1916, pochi giorni dopo la improvvisa morte dell’artista (il 17 agosto, a Verona, dove era stato richiamato), egli scrive: “Non riesco a superare il dolore per il caso Boccioni. A parte il fatto che gli volevo bene, era di nuovo, dopo un lungo intervallo, un pittore italiano di importanza storica. E diceva di essere soltanto agli inizi. – Basta –”.
E Boccioni, che aveva vissuto questo scambio con grande intensità, ne aveva scritto in lettere ad amici artisti del suo gruppo: “Sono ospite di questa villa – scrive Boccioni a Pratella, dalla villa di Busoni in San Remigio, il 16 giugno 1916 -. Lavoro molto e in molti sensi. Scrivevo a Marinetti che è terribile elaborare in sé un secolo di pittura. Tanto più quando si vedono i nuovi arrivati al futurismo afferrare le idee, inforcarle e correre a rotta di collo storpiandole…” (M. Drudi Gambillo – T. Fiore, Archivi del Futurismo. Roma, 1958, vol. I, p. 372). Ferruccio Busoni aveva scritto a Boccioni da Zurigo, l’8 luglio 1916: “Sono felicissimo della tua contentezza e maggiormente di averne qualche parte (…). Per entrare nell’arte, bisogna uscirne (tu diresti)…” (ivi, p. 372-373). E dopo pochi giorni, il 26 luglio, Busoni scrive a Boccioni allarmato, perché l’artista è stato richiamato al fronte a Verona: “La tua lettera, tanto buona, mi ha sorpreso… per la inaspettata decisione che da essa apprendo! Stimo e rispetto le tue opinioni senza troppo comprenderle e deploro anzitutto l’interruzione forzata del tuo lavoro, già iniziata con bell’impeto a San Remigio. Sii intanto contento dell’esito di quel soggiorno, fecondo di progressi, di nuove visioni e di innegabili risultati artistici” (ibidem). Boccioni, nelle ultime righe della lettera scritta pochi giorni prima della morte al suo gallerista Walden, a Berlino, appare disperato: “Da questa esistenza io uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte. Non c’è nulla di più terribile dell’arte. Tutto ciò che vedo attualmente è un gioco di fronte ad una pennellata bendata, un verso armonioso, ad un accordo musicale ben composto. Tutto a confronto di ciò è una questione di meccanica, di abitudine, di pazienza, di memorie. Esiste solo l’arte...“ (ibidem).
L’uomo che Ferruccio Busoni vedeva come oggetto d’uso da parte dei poteri che lo portavano alla guerra, incasellandolo, è l’uomo che è al centro delle scritture filmiche, poetiche, letterarie e artistiche, a partire dalla fine della prima guerra mondiale. A questa condizione, nel primo ventennio del Novecento, gli artisti sia futuristi, sia cubisti, sia tutti gli altri, si erano opposti fuggendo dalla stessa guerra: ad esempio i Dada che erano non interventisti, si fanno disertori e vanno a Zurigo e usano una ironia dissacrante che mette in discussione tutte le forme, anche più rivoluzionarie dell’arte stessa, portando fuori dal gioco finanziario dell’arte, quell’arte stessa, dissolvendola. Anche la costruzione dei linguaggi rivoluzionari, come abbiamo detto all’inizio, avviene grazie allo spasmodico movimento in tutta Europa, degli artisti provenienti da tutte le capitali. Parigi è luogo privilegiato dell’incontro e vi si ritrovano, come avviene nel prototipo di collettivo di artisti riuniti a La Ruche a Montparnasse, Wladimir Baranoff-Rossine e Sonia Delaunay, il ceco Joseph Csaky, Ossip Zadkine, Moise Kisling, Marc Chagall, Max Pechstein, Fernand Léger, Jaques Lipchiz, Max Jacob, Blaise Cendrars, Chaim Soutine, Robert Delaunay, Amedeo Modigliani, Constantin Brâncusi, Diego Rivera e naturalmente Guillaume Apollinaire, il poeta teorico del cubismo e tra i primi sostenitori del cinema insieme a Ricciotto Canudo. Sonia Delaunay, che veniva dalla Russia, fugge durante la guerra da Parigi e si reca a Madrid dove crea un suo laboratorio che poi riprenderà col suo rientro nella capitale francese.
In questo clima internazionale, gli apporti dovuti alle esperienze individuali si modulano nel riconoscimento della diversità degli altri, e si condividono alcuni fondamenti comuni della creazione artistica, sommando la memoria delle rivoluzioni culturali precedenti, con le nuove scoperte della scienza.
Questo lavoro di pseudo resistenza alla violenza della guerra (resistenza che è fondata sulla libertà e sulla relazione transnazionale degli artisti stessi: insomma, sul fatto stesso di fare arte), dopo la prima guerra mondiale è sotto scacco. Gli artisti continuano ad affermare le loro posizioni pacifiste e contrastano consapevolmente e chiaramente quei fatti dell’azione politica che hanno fondato l’ideologia della guerra: la produzione di armamenti, il colonialismo, il dominio dell’uomo sull’uomo, la radicalizzazione e strumentalizzazione delle religioni stesse. Ma questa oasi di consapevolezza e di resistenza dell’arte è un’oasi, appunto, e non vi si abbevera la massa, dunque oltre alle persecuzioni serpeggia nella cultura artistica un’inquietudine e un pessimismo insormontabile.
Si spiegano così le tante opere, balletti e film che hanno a tema l’uomo automatico, l’uomo meccanico e meccanizzato, anche nel gioco.
Così, tra le tante cose che sarebbe interessante ricordare, possiamo seguire un filo rosso: l’opera del poeta Blaise Cendrars che, dopo aver scritto il testo poetico letterario La prose du Transsibérienne et de la petite Jeanne de France, nella adolescenza, durante un viaggio da quindicenne nella Russia prerivoluzionaria durante la guerra russo-giapponese, approda a Parigi e lo pubblica insieme a Sonia Delaunay come poema simultaneo, nel 1913.
Come avviene in molti poeti, il viaggio e l’esperienza interiore si intrecciano con il viaggio e l’esperienza reale del mondo. Nella grande produzione di poemi e scritti di Blaise Cendrars, per il nostro tema è interessante ricordare La Fin du Monde filmée par l’Ange, un romanzo-sceneggiatura con 22 illustrazioni di Fernand Léger, l’artista cubista che integra nelle sue immagini lettere dell’alfabeto, numeri, slogan della pubblicità e citazioni, pezzi di frasi, per restituire l’idea della agitazione della grande città. Il testo della Fin du Monde è concepito da Cendrars come la sceneggiatura di un film: il grande poeta vi traccia con umorismo ironico, l’apocalisse del mondo moderno in 55 capitoletti, il primo dei quali inizia così: “Dieu le père est a son bureau américain. Il signe hativement d’innombrables papiers. Il est en brasse de chemise et a en abat-jour vert sur les yeux. Il se lève, allume un gros cigare, consulte sa montre, marche nerveusement dans son cabinet, va et vient en méchonnant son cigar ». Dio riunisce tutti i suoi capi Dipartimento, ovvero i capi di tutte le religioni del mondo: dal Papa al Gran Rabbino, dal Dalai Lama a Rasputin. Il suo bilancio è soddisfacente. La guerra ha riportato alla religione molte anime. Ma il compito è infinito. Per perseguirlo e fare profitti, colpisce il mondo con disgrazie e piaghe. Il mondo si ritrova spopolato e dominato dalla vegetazione, e Dio riconosce la sua sconfitta. È così che un uomo moderno, il poeta Blaise Cendrars, che aveva visto molte cose, che aveva descritto quello che lui chiama l’Homme nouveaux, appena uscito dalla guerra nella quale aveva perso un braccio, immagina la fine del mondo: come attraverso le lenti di una macchina da presa.
Da questa collaborazione con Cendrars, il poeta che per tutta la vita raccontò di se stesso la verità, come in J’ai tué del 1946, Léger imparò molto: pessimismo paradossale che si tradusse nel ’24 nel suo film Ballet méchanique.
Blaise Cendrars, per un anno prima della pubblicazione de La fin du monde, in tutto il 1918 aveva avviato una collaborazione con altri autori e poeti, tra cui Jean Cocteau e Guillaume Apollinaire, per farne il film secondo la sua idea originaria.
Guillaume Apollinaire muore proprio nel 1918, a novembre, e poco dopo in quello stesso anno viene pubblicata la raccolta di suoi testi poetici Poèmes de la paix et de la guerre tra cui i Calligrammes e molti testi realizzati con la scrittura automatica.
Il pessimismo e l’ironia grottesca evocano l’uomo automatico, l’uomo sottoposto che Busoni dichiarava essere il ricercato risultato della guerra e della mobilitazione.