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Irineu Silvio Wilges

Obispo católico, Brasil
 biografía

L’AMERICA LATINA NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE

“Globalizzazione” è un vocabolo dalla diffusione relativamente recente. La fine della guerra fredda e dei due blocchi, unitamente alla rivoluzione informatica, hanno avvicinato, messo in contatto, omogeneizzato, continenti e regioni di un pianeta sempre più piccolo.

In realtà, per i cristiani la globalizzazione, sotto altri nomi, è un concetto familiare, fa quasi parte del loro patrimonio genetico. Per più di quattro secoli, alle origini, il Vangelo è stato portato dagli apostoli e dai loro successori in lungo e largo attraverso quel grande spazio, vero e proprio mondo globale ante litteram, rappresentato dall’impero romano. Il libro degli Atti degli Apostoli testimonia l’avventura di questi primi cristiani che non ebbero paura di valicare le frontiere geografiche, linguistiche, culturali, in nome di una parola e di un uomo venuti a salvare l’umanità intera. Lettere, viaggi, iniziative di solidarietà (si pensi alla colletta proposta da Paolo a tutte le comunità per venire in soccorso della comunità di Gerusalemme). In quello slancio di apertura e fiducia nell’incontro con tutti, le prime generazioni cristiane arrivarono fino all’estremo oriente, fino alla lontanissima Cina, animati dalla tensione a portare il Vangelo “fino agli estremi confini della terra”. Oggi la si definirebbe una rete globale, per i cristiani di quell’inizio eroico era la comunione di chi non era più definito dalla razza, la lingua, la cultura, il sesso, il colore della pelle, ma soltanto dall’amore di Cristo, radice di unità profonda tra genti diverse.

Tuttavia, questo inizio così promettente è stato smentito dalla storia. In un mondo diviso e lacerato, anche i cristiani, nel corso dei secoli si sono divisi tra loro, riconoscendosi in tanti mondi chiusi, attorno ai quali erigere barriere e difese. La storia cristiana, indissolubilmente intrecciata alla storia secolare, non si è snodata soltanto nel segno dell’apertura e del dialogo, ma anche della chiusura e dell’incomprensione. La tensione tra dialogo e contrapposizione, tra fiducia nell’incontro con il diverso da sé e chiusura impaurita, è costante nella vicenda storica del cristianesimo e della Chiesa cattolica. Così Francesco d’Assisi si presentava mite e pacifico al Sultano, mentre i suoi compagni di fede crociati si presentavano armati alle porte di Gerusalemme.

In fondo, anche la cosiddetta “scoperta” dell’America è avvenuta nel segno di questa tensione. Con le categorie dell’uomo contemporaneo, oggi possiamo affermare che quell’approdo rappresentò un gigantesco passo in avanti della globalizzazione. Nella coscienza dell’uomo europeo cinquecentesco il mondo “raddoppiava” e il mar Mediterraneo cessava di essere il baricentro della terra per divenire un lago periferico. Ma la scoperta del Nuovo Mondo fu una conquista più che un incontro, e il Vangelo, che pure fece breccia nei cuori di tanti indigeni e poi di tanti schiavi africani, troppo spesso si presentò sotto scorta armata. Incontro e scontro, fusione e aggressione, crogiuolo di genti diverse e razzismo. Tzvetan Todorov ha mostrato bene, in un saggio capitale sulla Conquista dell’America, l’approccio contraddittorio di questi europei e cristiani di fronte alla scoperta dell’Altro, un altro irriducibilmente diverso da sé.

Ho parlato della scoperta americana come di un grande passo verso un mondo globale. Ma l’ allargamento degli orizzonti geografici avvenne solo da una parte dell’Atlantico. Le modalità della conquista e poi dell’instaurazione del sistema coloniale, predisposero l’America iberoamericana a svolgere per secoli un ruolo ancillare, servile, ausiliario, nei confronti della metropoli europea.  Se dalle corti europee era possibile osservare il mondo nella sua globalità, i vicereami del Nuovo Mondo furono relegati in una condizione di isolamento, uniti al resto del pianeta soltanto attraverso i cordoni ombelicali che portavano a Madrid e Lisbona. Ben oltre l’epoca coloniale, quella che nel XIX secolo sarebbe stata definita l’America Latina svolse soprattutto una funzione: fornire materie prime da destinare alle nazioni europee e in seguito agli Stati Uniti, cioè le potenze di quell’Occidente che fino a pochi decenni fa ha esercitato l’egemonia sul pianeta.

Nel tentativo di collocarla in un’ideale carta geopolitica del mondo, Alain Rouquié ha assegnato all’America Latina il posto dell’Estremo Occidente. E’ un’espressione che condensa in modo efficace non solo la storia coloniale, ma anche quella contemporanea. L’America Latina è stata una grande provincia dell’Occidente, una periferia dell’Occidente. Questa collocazione ai margini della grande storia mondiale non ha avuto soltanto conseguenze negative: nel Novecento, ci ha risparmiato la tragedia di due guerre mondiali, che hanno avuto come teatro l’Europa, l’Africa, l’Asia, l’Oceania, ma non l’America. Nella prima metà del XX secolo, essere una periferia lontana e “poco strategica” ha sottratto alla morte milioni di vite. Ma l’interrogativo resta: qual è stato – se c’è stato – il ruolo dei latinoamericani nel grande mondo? Il continente latinoamericano è stato un attore significativo nei grandi scenari internazionali? Se noi guardiamo la storia soltanto con la lente della politica, la risposta è quasi scontata: le nazioni latinoamericane non sembrano essere state “levatrici” della storia. Nel Novecento, il mondo globale, che per vari decenni fu quasi soltanto il mondo dei due blocchi, irruppe alle nostre latitudini solo con la rivoluzione cubana. Dal 1959, cessammo di essere soltanto un fornitore di materie prime, per divenire una posta decisiva della guerra fredda, quasi che i destini del mondo si giocassero in qualche isola caraibica, in America centrale o nelle pampas dell’America meridionale. Ma la storia non è fatta solo dalla politica. E’ un tessuto fatto anche di fedi, culture, incontri.

Non posso parlare, se non brevemente, del cammino intrapreso negli ultimi decenni dai cattolici latinoamericani verso un’America Latina meno periferica. In effetti, la storia della Chiesa latinoamericana del Novecento può essere sintetizzata da questo titolo: dalla periferia al centro. Bisognerebbe parlare del vissuto religioso di centinaia di milioni di fedeli, del loro impegno, delle organizzazioni che sono nate, del peso sociale crescente dei cattolici e dei cristiani nei rispettivi paesi, delle sfide raccolte da tanti uomini e donne di fronte al grande compito di edificare delle società più giuste e umane e di preparare un futuro migliore per i loro figli. Devo però limitarmi a segnalare solo alcune tappe, le più recenti, di questo cammino, adottando una prospettiva forse troppo istituzionale: il Celam, Consiglio Episcopale Latinoamericano, nacque all’indomani della I Conferenza Generale degli episcopati latinoamericani, svoltasi a Rio de Janeiro nel 1955. Una riunione dei pastori di tutti i paesi del subcontinente era un avvenimento straordinario, che aveva come unico antecedente il Concilio Plenario Latinoamericano, convocato da Papa Leone XIII a Roma nel 1899. Rio de Janeiro, Medellin, Puebla, Santo Domingo, Aparecida: questi incontri scandiscono lo sforzo compiuto dalla Chiesa di superare i particolarismi, gli orizzonti ristretti, i localismi, per inserire i cattolici latinoamericani in una cornice globale, mondiale, a partire da un’identità forte: non più soltanto la piccola identità nazionale, regionale, municipale, ma anche quella continentale. Nel cuore di questo cammino, abbiamo vissuto l’esperienza straordinaria del Concilio Vaticano II, l’evento che ha mostrato al mondo il modo nuovo con cui la Chiesa ha voluto rinnovare, “aggiornare”, la sua vocazione originaria a essere fermento di comunione e di fraternità tra tutti i popoli. In questa missione universale, al cattolicesimo latinoamericano sono oggi affidati compiti nuovi e importanti. E’ un’assunzione di responsabilità cui sono chiamate anche le nazioni latinoamericane, che sono ormai entrate, all’alba di questo nuovo millennio, in una fase nuova della loro storia. Sono notevoli i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni:
la fine delle ideologie e del mondo bipolare. Oggi l’America Latina non è più una periferia contesa da due imperi, ma un soggetto che sta acquistando un crescente peso su diversi piani: economico, demografico, politico, religioso. Io stesso provengo da un paese, il Brasile, indicato sempre di più come un sicuro protagonista dell’ordine mondiale prossimo venturo. Se negli anni Sessanta del secolo scorso era scontato parlare dell’America Latina come del continente della dipendenza economica, oggi noi constatiamo che gli effetti dell’attuale grave crisi economica e finanziaria mondiale sono nei nostri paesi meno pesanti che altrove, dopo quasi dieci anni di crescita economica ininterrotta. Gli indicatori relativi all’istruzione, alla salute, all’aspettativa di vita delle nostre popolazioni migliorano di anno in anno. Da circa vent’anni, si va consolidando una stabilità politica che permette ai governi di attuare politiche di modernizzazione delle nostre società, che le avvicinano sempre più a quelle che un tempo venivano definite le società del primo mondo. L’epoca delle caserme e delle guerriglie, della guerra ideologica che ha provocato tanti lutti e tragedie, sembra definitivamente tramontata. In questo mondo sempre più multipolare, l’America Latina non è più una colonia di qualche superpotenza, ma un soggetto politico ed economico capace di muoversi perseguendo liberamente i suoi interessi. Stabilità politica vuol dire oggi soprattutto crescita della democrazia e degli spazi di partecipazione della gente alla gestione del bene comune.

Quelli che sto tratteggiando sono solo alcuni degli elementi incoraggianti di un continente che sta raggiungendo l’età adulta, liberandosi delle tutele che nel passato lo hanno spesso condannato alla marginalità e che sta cercando il suo posto nel mondo globalizzato.

Eppure, accanto a queste luci, vi sono anche significative zone d’ombra. Su quali basi e valori sta verificandosi lo sviluppo delle società latinoamericane? Il Papa Benedetto XVI il 29 giugno ha promulgato l’enciclica Caritas in Veritate, l’ultima di una serie di grandi encicliche che a partire dalla Rerum Novarum hanno progressivamente arricchito il magistero sociale della Chiesa. Il Papa riprende e attualizza l’enciclica Populorum Progressio, documento con il quale Paolo VI nel 1967 auspicava per i popoli della terra, soprattutto quelli più poveri, l’avvio di uno sviluppo che non fosse solo affidato alle logiche del profitto e del progresso materiale, ma rappresentasse per gli esseri umani il passaggio “da condizioni disumane a condizioni più umane”. Paolo VI parlava di sviluppo umano integrale, che riguardasse in modo unitario la totalità della persona in tutte le sue dimensioni. Papa Montini aveva intuito, con spirito profetico, che il mondo andava facendosi sempre più interdipendente - anche se all’epoca non si parlava ancora di globalizzazione - e che la questione sociale non era più soltanto un affare interno alle singole nazioni, ma riguardava i rapporti tra i popoli. A questo proposito, la Chiesa affermava un grande ideale: quello di un’unica famiglia dei popoli, unita da rapporti solidali e fraterni. In questo senso, lo sviluppo, inteso alla luce dell’umanesimo cristiano, diventava la via maestra che poteva condurre a un mondo migliore. Non a caso, Paolo VI parlava dello sviluppo come del nuovo nome della pace.

A quarant’anni di distanza, dobbiamo riconoscere che l’appello di Paolo VI non è stato accolto. Negli ultimi anni abbiamo assistito ai progressi materiali di regioni del mondo un tempo prigioniere della miseria e dell’arretratezza, al loro inserimento nel sistema economico internazionale, alla crescita del loro peso politico. Milioni di uomini e donne sono usciti dalla miseria. Tutto ciò riguarda anche l’America Latina. Tuttavia, come sottolinea Benedetto XVI nell’ultima enciclica, l’attuale grave crisi economica dimostra che uno sviluppo finalizzato solo al profitto e non al bene comune finisce col produrre distorsioni e problemi drammatici, quali l’aumento delle disuguaglianze, la crescita di nuove povertà (si pensi soltanto all’impoverimento delle fasce più anziane della popolazione), gli arricchimenti ingiustificati o addirittura illeciti, i fenomeni della corruzione e della criminalità, alimentati dalla crescita dell’influenza delle grandi reti mafiose internazionali. Ognuno di questi fenomeni distorsivi collegati a uno sviluppo sbagliato è presente in misura più o meno grande nei nostri paesi latinoamericani: segnalo soltanto l’allarmante crescita della violenza nelle nostre società, fenomeno riconducibile senz’altro agli squilibri prodotti da strutture economiche e sociali ingiuste, ma anche alla cultura idolatrica del denaro e del consumo facili, da conseguire a tutti i costi.

Io credo che la proposta di uno sviluppo umano integrale, ripresa oggi da Benedetto XVI, sia resa ancora più attuale dallo straordinario processo di integrazione e interdipendenza, che ormai ci rende tutti legati a un medesimo destino. La crisi economica mondiale è un’occasione per una revisione di vita, personale e sociale, che comporti un rinnovamento culturale e una riscoperta dei valori morali, da porre a fondamento anche degli aspetti economici della vita umana, che non possono essere guidati solo dall’egoismo e dall’interesse individuale. Da questo sforzo potrà germinare una nuova sintesi umanista, capace di orientare lo sviluppo verso il suo vero fine: la costruzione dell’unità e della pace di tutta la famiglia umana.