“La solidarietà è contagiosa”. Non me ne vorrà Catia, di Matera, se le “rubo” il titolo di questa relazione. Catia fa parte di una delle famiglie che si sono rese disponibili per l’accoglienza dopo avere sentito sui tg le notizie in merito al progetto dei corridoi umanitari. Non specialisti, quindi, ma persone che mai prima avevano fatto l’accoglienza. Non professionisti, non persone formate o con esperienza alle spalle e neanche appartenenti ad un circuito religioso o associativo. Piccoli imprenditori che hanno qualcosa da dare e forse anche qualcosa da dire. Nella sua relazione titolata appunto “la solidarietà è contagiosa”, Catia parla di una accoglienza non semplice, il cui esito forse loro speravano diverso: “È molto difficile – scrivono da Matera- raccontare brevemente la complessità e l’intensità dell’esperienza che abbiamo vissuto. È stato molto impegnativo occuparsi quotidianamente di persone con una cultura ed esperienze di vita molto diverse dalle nostre e con in più la difficoltà linguistica”. Ma ad un certo punto Catia osserva: “Voglio sottolineare un aspetto diverso di questa esperienza. Attraverso questo progetto di accoglienza abbiamo scoperto quanta ricchezza e generosità ci sia nella nostra Città. Si è strutturata una “rete” di aiuto ampia e trasversale; le persone più diverse per ceto sociale, livello culturale, orientamento politico, credo religioso ed anche nazionalità si sono “riconosciute” con entusiasmo in questo progetto (…) [Abbiamo ricevuto] Tanti elogi (quasi imbarazzanti), ci è stato ripetuto che stavamo facendo una cosa bellissima e che ci erano grati per la possibilità di dare anche loro un piccolo contributo. Ora che i profughi sono partiti resta una rete di nuove amicizie e relazioni.” La rete di amicizie e relazioni, quindi, come un frutto duraturo dell’accoglienza.
Alla fine di agosto sono andata a trovare le famiglie siriane accolte con i corridoi umanitari in nord Italia: si tratta del modello di accoglienza diffuso e comunitario che dal febbraio 2016 la Comunità di Sant’Egidio insieme alla Tavola Valdese e alla Federazione Evangelica delle Chiese sta portando avanti con il Ministero dell’Interno e degli Esteri italiano.
In questo viaggio estivo ho potuto vedere come sta andando il progetto di integrazione e mi ha colpito lo stupore degli ospiti italiani: stupore perché l’integrazione è più facile di quello che sembrava; perché l’inserimento già sta dando alcuni frutti; perché i bambini siriani già parlano l’italiano ed è passato meno di un anno. Ma soprattutto, o almeno è la cosa che mi hanno raccontato per prima, è la sorpresa di una accoglienza che ha ricostruito la comunità, la “loro” comunità cioè quella degli italiani: “Tutti danno una mano”. L’accompagnamento alle visite mediche, i documenti, la ricerca del lavoro, la spesa, l’insegnamento della lingua, insomma, le responsabilità dell’accoglienza, richiedono di unirsi, di capirsi, di affidarsi l’un l’altro, in una parola richiedono la presenza di una comunità, di una società civile attiva, partecipe.
Apro una parentesi, a proposito del ruolo della società civile, su una polemica italiana che ha avuto risonanza in tutta Europa, una polemica ingiusta e anche inaccettabile: la cosiddetta società civile in tre anni ha salvato la vita a oltre 100.000 persone naufraghe nel mare Mediterraneo e complessivamente sta dando un contributo formidabile all’accoglienza e all’integrazione, ed è una risorsa da sostenere e promuovere. Chiudo la parentesi
La comunità, quindi, come conseguenza e risultato dell’accoglienza. Vengo al punto che mi sembra uno dei tratti significativi della proposta dei corridoi umanitari e che spiega anche i buoni risultati ottenuti: Si chiama sponsorship. È una proposta non nuova, ma nuova per l’Europa, ed è praticata da alcuni paesi tra cui il Canada. La Sponsorship è una forma di ingresso legale su larga scala, programmato e con criteri predefiniti, che prevede il coinvolgimento attivo della società civile nelle sue varie forme: associazioni, parenti, amici et. lo sponsor si fa carico per il primo anno dell’onere dell’accoglienza di un nucleo familiare, di singoli rifugiati o di migranti economici.
La sponsorship è una delle varie modalità che prevede ingressi regolari e controllati, per governare e non subire il fenomeno migratorio. Cosa evita questa modalità: il traffico degli esseri umani, i viaggi pericolosi, i mega centri, le difficoltà di integrazione, una gestione a posteriori e tardiva quando le persone sono arrivate sul nostro territorio, et. Cosa garantisce: un’accoglienza diffusa, con un impatto sociale minore, con prospettive lavorative e di inserimento più facili. È solo una mera proposta organizzativa? C’è qualcosa di più. La comunità, ogni comunità sociale, nasce e si rafforza nell’accoglienza, muore e si isterilisce con i muri. È un dato di fatto.
Il filosofo Levinas scriveva: “Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo” è una citazione che ben riassume uno degli aspetti costitutivi della comunità umana: la mia responsabilità di fronte ad un volto, non un volto familiare, che mi somiglia, non un “io” allo specchio, ma un volto assolutamente estraneo. Per la comunità cristiana questo si invera nelle parole dell’Apostolo Paolo agli Efesini: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei Santi e familiari di Dio” (Ef. 2,19) Discepoli di quel Gesù che come dice Paolo “è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia” (Ef. 2, 14).
Ma che la comunità umana cresce e si rafforza nell’incontro con l’altro e deperisce nella chiusura è vero per ogni comunità umana, sia essa politica, sociale o religiosa. Così è stato anche per la comunità che prende il nome di Unione Europea. Nata nel secondo dopoguerra da un lungimirante progetto di integrazione ma che storicamente ha disegnato i suoi tratti identitari proprio dalla ricchezza delle differenze. Tra le ultime riflessioni di Umberto Eco ve ne è una particolarmente significativa sul tema dell’immigrazione. Cito Umberto Eco: “L’Europa è stata, dalla caduta dell’impero romano in avanti, il risultato di un meticciato culturale riuscito”. È vero per l’immigrazione è vero sempre che “Il principio fondamentale che regge gli affari umani – sosteneva sempre Umberto Eco- è quello della negoziazione (…) è alla base della stessa vita culturale” .
L’accoglienza può fare il miracolo di restituire linfa vitale a comunità, a gruppi, a parrocchie a piccoli paesi, a gruppi di amici, a paesi interi, che si ritrovano di fronte ad un volto che mi guarda come quello di un bambino, di un anziano migrante o rifugiato. È l’opposto di comunità chiuse, centrate su sé stesse, alla ricerca affannosa di ritrovarsi tra “chi mi somiglia”, illuse di controllare la complessità globale tracciando confini e semplificando il mondo dividendolo in “noi e gli altri”, meglio ancora se “prima noi e poi gli altri”.
Papa Francesco in occasione del sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma diceva che: “l’Europa ritrova speranza nella solidarietà che è anche il più efficace antidoto ai moderni populismi (..) i populismi fioriscono proprio dall’egoismo, che chiude in un cerchio ristretto e soffocante e che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e “guardare oltre”, “Anche l’Unione Europea è chiamata oggi a mettersi in discussione, a curare gli inevitabili acciacchi che vengono con gli anni e a trovare percorsi nuovi per proseguire il proprio cammino”. È vero: oggi sui temi dell’immigrazione si gioca la possibilità di una “nuova giovinezza” per l’’Europa .
È una chance che trova l’Europa in ritardo e irrigidita su schemi “vecchi”. Un esempio significativo è il regolamento di Dublino, di cui si è tornati a discutere anche grazie alla positiva iniziativa della Cancelliera Merkel. Dublino è una risposta vecchia ad un fenomeno che ha bisogno di nuovi strumenti anche legislativi. Dublino è, secondo me, la fotografia dell’Europa oggi, impastoiata e bloccata in regole fissate oltre 25 anni fa, solo con qualche minimo ritocco, norme che non solo non governano il fenomeno ma lo complicano creando addirittura una casistica di disagio: i cosiddetti “Dublinanti” che conoscono il drammatico ping pong tra il paese di ingresso e quello di destinazione. Un rifugiato dopo anche anni di presenza in un paese europeo può essere rinviato forzatamente nel primo paese sul quale è arrivato al momento del suo ingresso nei confini europei.
Perché il tema immigrazione è su tutte le prime pagine dei giornali europei? Più oggi che nel 2015? I dati del fenomeno in Europa non ci aiutano a dare una riposta. Nel 2015 gli ingressi in Europa attraverso il mare hanno superato il milione (esattamente 1.015.0789). Nel 2016 gli ingressi sono scesi a 362.753 (solo poco più di un terzo dell’anno precedente). Al 31 agosto del 2017 siamo arrivati a 123.950 . L’anno non è finito, ma che si possa raggiungere il dato del 2015 e anche quello del 2016 sembra altamente improbabile. Questa diminuzione è avvenuta senza gli accordi con la Libia che, come è noto, sono in vigore dal mese scorso. Forse, più che per i dati, questo riaccendersi del dibattito sui migranti, trova la sua spiegazione in buona parte nelle agende elettorali. Importanti paesi europei, tra cui l’Italia e la Germania, affronteranno tra poco decisive tornate elettorali.
Ha ragione chi dice che la prima vittoria del populismo non è alle elezioni ma è quando riesce ad imporre al dibattito politico un tema che diventa “il tema”, come adesso è il tema immigrazione, quando in realtà di temi ce ne sarebbero tanti altri e molto più urgenti. Nessun populismo potrà convincermi che i miei problemi si risolveranno magicamente, che basta fare un muro, che basta allontanare chi ha problemi e che tutto si risolva così. Questa è solo una bugia pericolosa.
Torna utile, a proposito, il metodo proposto da un grande italiano, Alessandro Manzoni, e valido in ogni tempo, che nei Promessi Sposi consigliava di evitare un parlare coì lungo e così storto. Il tema era l’irrazionalità e il caos con cui si affrontava la peste di Milano della quale si incolpavano - neanche a dirlo- i forestieri e quindi anche il giovane protagonista del romanzo, il povero Renzo. Ma un parlare così lungo e così distorto si accorda con le semplificazioni e l’irrazionalità del dibattito attuale sull’immigrazione. Il metodo proposto da Manzoni, che andrebbe recuperato, era: “osservare, ascoltare, paragonare, pensare prima di parlare”. Ragionare e ascoltare prima di parlare è un metodo particolarmente urgente recuperare oggi quando assistiamo con preoccupazione a recrudescenze di intolleranze e fascismi che pensavamo solo un brutto incubo del passato.
Proposte
Dal febbraio 2016 con i corridoi umanitari sono giunti in Italia circa 900 siriani provenienti dal Libano, donne, bambini, uomini malati, anziani hanno fatto il viaggio della speranza con un volo di linea e non sui barconi della morte. Hanno sorvolato il mare e non lo hanno attraversato rischiando di morire. Sono stati organizzati 10 viaggi e l’ultimo è stato il 29 agosto.
Il prossimo ottobre arriverà il primo gruppo dei 500 profughi del Corno d’Africa (Eritrea, Sudan e Somalia) grazie ad un nuovo protocollo siglato dalla Conferenza Episcopale Italiana, attraverso la Caritas Italiana, la Migrantes, la Comunità di Sant’Egidio e i due Ministeri competenti, Interno ed Esteri.
In Francia è giunto il primo gruppo di profughi sempre attraverso i “corridoi Umanitari” che prevede l’arrivo complessivo di 500 profughi dal Libano, con un protocollo sottoscritto dalla Federazione delle chiese protestanti di Francia, la conferenza episcopale francese, il Secours Catolique, la Comunità di Sant’Egidio e il governo francese. Trattative avanzate ci sono per il Belgio, Andorra, il principato di Monaco e altri paesi.
Da questa esperienza e dalla conoscenza del fenomeno migratorio che ha visto la Comunità di Sant’Egidio impegnata da molti decenni ormai, vorrei formulare alcune proposte concrete recentemente riprese anche da Marco Impagliazzo.
- La prima proposta l’ho già brevemente descritta: la sponsorship per profughi e per persone in situazioni di vulnerabilità. Andrebbe prevista l’introduzione a livello europeo di questa forma di ingresso regolare. Per l’Italia è sufficiente reintrodurla nella legislazione perché già esisteva. Ogni paese annualmente, potrebbe determinare il numero di visti da concedere per questa tipologia di ingresso, in questo modo si potrebbe strutturare una sinergia concreta tra la società civile nelle sue varie forme e le istituzioni pubbliche.
- Facilitare e allargare il ricongiungimento familiare (ricordo che è un diritto riconosciuto). C’è da tener presente che attualmente i ricongiungimenti famigliari in alcuni paesi europei sono bloccati, o i tempi per il completamento delle pratiche burocratiche sono lunghissimi (oltre 2 anni). Molti dei viaggi della morte sul mare mediterraneo sono intrapresi da parenti, figli, fratelli di migranti già regolarmente presenti in Europa.
- Allargare e aumentare i numeri per il reinsediamento dei rifugiati dai paesi di transito verso paesi europei. I numeri per questi due anni sono stati di 22 mila persone nei 27 paesi dell’Unione. L’esperienza è stata positiva e quindi è possibile incrementarla.
- Applicare la direttiva europea sulla Protezione Temporanea concedendo permessi per motivi umanitari in caso di afflussi massicci di persone, dovuti a violenza, guerra e disastri ambientali.
- Considerare vie legali di ingresso anche per i migranti economici o i rifugiati ambientali. Dividere tra i richiedenti asilo e i migranti economici non è cosa semplice. Un Senegalese che giunge con i barconi in Italia e ti dice “la mia terra è divenuta un deserto” è un migrante economico o un rifugiato ambientale? L’Europa deve superare il blocco degli ingressi per motivi di lavoro, oggi autorizzati solo per le persone altamente qualificate, i cosiddetti “highly skilled migrants”. Si possono prevedere decreti flussi o quote di ingresso, con accordi bilaterali con i paesi di origine dei migranti che hanno alti tassi di immigrazione. Per l’Italia ad esempio si può prevedere con la Nigeria, la Guinea, il Marocco, il Bangladesh, etc. Ma certamente non si può continuare con la schizofrenia di sostenere che la presenza dei migranti serve (e molto) alle nostre economie e ai nostri sistemi di Welfare e poi anche che “non li vogliamo”. Bloccare e non governare non è soluzione.
- Rafforzare la Cooperazione e rapporti con i paesi africani. Si tratta di rafforzare e consolidare i progressi che si sono realizzati nell’ultimo periodo con l’aumento progressivo dell’aiuto pubblico allo sviluppo, rendendo permanente la crescita dell’aiuto italiano ed europeo. È questo un messaggio euroafricano di speranza per le giovani generazioni del sud.
In conclusione vorrei ritornare alla riflessione di Bauman, lo ricordo lo scorso anno ai nostri incontri ad Assisi, ha osato fare un discorso difficilissimo in questo tempo: quello sulla felicità. Non esiste una felicità senza problemi ma esiste una felicità nell’affrontare e superare i problemi.
La felicità è qualcosa che abbiamo rinunciato a perseguire, come ha osservato Andrea Riccardi, incalzati dal sogno malvagio del terrorismo con il suo progetto oscuro di morte e infelicità. Gli attentati si accaniscono, e non a caso, proprio sui luoghi simbolo del vivere insieme, del conviviale, spensierato, felice vivere insieme, come la Rambla di Barcellona, o il ristorante di Ouagadougou, in Burkina Faso. A proposito dell’attentato di Barcellona qualcuno ha sottolineato che sono state colpite persone appartenenti a 34 nazionalità.
La felicità passa per una vita che accetta la sfida di vivere con gli altri, che accetta il bisogno degli altri ed è un’arte difficilissima. Questa è anche quella che chiamiamo integrazione ma è la via di ogni vita di relazione che non deperisca nell’isolamento: ci vuole attenzione, bisogna discutere, negoziare, rinegoziare, trovare il punto di equilibrio, ricominciare. Conosco le difficoltà dell’integrazione. Conosco i passi avanti, i ritorni indietro, l’apprensione per un adolescente appena arrivato che vede solo nero, i colloqui che vanno male e quelli che un poco si recupera. Conosco, insomma i successi e gli insuccessi, la fatica bellissima, ma pur sempre fatica, dell’integrazione. Chi ha esperienza della vita, almeno un po’, lo sa che la vita insieme è complicata, ma è la vita! Semplificare la vita ignorando i problemi e non affrontandoli è un inganno e non una soluzione! Integrazione, non è una parola semplice, non è una parola scontata o esente da problemi ma è la via irrinunciabile per vivere insieme. Che soluzione c’è? Si tratta di accettare la grande sfida che si prospetta all’orizzonte, l’arte difficilissima di convivere permanentemente con le differenze, è la via dell’integrazione, complessa ma è anche l’unica via dove possiamo incontrare la felicità.