1. La salute nel XXI secolo
Interrogarsi oggi sulla salute e sul diritto alla salute, richiede a tutti noi di farlo in un contesto globale, sociale, culturale e demografico drammaticamente diverso dal passato, segnato dalla globalizzazione e dalla avvenuta transizione demografica ed epidemiologica. Il primo elemento, la globalizzazione, fa emergere in modo chiaro il fatto che il pianeta è segnato da grandi ineguaglianze, tanto profonde e clamorose da inficiare o addirittura azzerare i sostanziali progressi compiuti in campo medico nel corso del 20° secolo. Si pensi solo al fatto che nel primo anno di vita è muoiono in Islanda 2 bambini su 1000, in Mozambico ben 120 su 1000! O ancora: in Afghanistan il rischio di una donna di morire di parto nel corso della sua vita è di 1 su 11, in Europa si giunge anche ad 1 su 31.800. Queste clamorose differenze sono state persino acutizzate nel corso degli ultimi decenni e la globalizzazione non fa che renderle più visibili e dunque più intollerabili. Per questo ritengo sia molto giusto interrogarsi su questo tema alla luce di un confronto internazionale sulla pace: queste diseguaglianze scavano un solco profondo nella vita e nel destino di interi popoli. Vorrei provare a sintetizzare in alcuni punti le ineguaglianze, anche alla luce dei progressi e dei ritardi in seno all’ SDG (Sustainable Development Goal) numero 3: la buona salute ed il benessere dell’umanità.
Prima di farlo però vorrei introdurre il secondo elemento che ho inizialmente citato: viviamo in una epoca di post transizione demografica. Da allora, grosso modo dai primi anni dell’800, possiamo dire che tutto è davvero cambiato: il rapidissimo passaggio da società caratterizzate da un equilibrio ad alta mortalità/alta natalità ad un nuovo bilanciamento tra bassa mortalità e bassa natalità ha cambiato il volto delle popolazioni umane. Infatti è all’origine della rapidissima espansione, conseguenza della riduzione delle morti infantili: siamo passati da 1 a 7,5 miliardi nel giro di 200 anni, potremmo dire che il 90% della crescita delle popolazioni si è verificato nell’arco dell’1-2% della storia umana. Successivamente si è dilatata l’attesa di vita, più che raddoppiata in tutto il pianeta. Infine è cambiato il volto dei nostri paesi con l’invecchiamento delle popolazioni, ovvero con il veloce aumento degli anziani in rapporto ai giovani, che invece vanno diminuendo in percentuale quasi ovunque nel pianeta. È emerso un nuovo continente, quello degli over 65, età assolutamente marginale e residuale nel passato, che oggi invece rappresenta una quota molto importante dei cittadini di tutto il mondo. È evidente che il fatto di avere oggi oltre 600 milioni di anziani (8,5% del totale) rappresenta una grande conquista ed al tempo stesso una sfida epocale: si stima poi che gli anziani nel 2050 saranno 1,6 miliardi. Ne consegue che il quadro delle malattie che affliggono l’umanità è profondamente cambiato, quel che chiamiamo transizione epidemiologica: siamo passati da un mondo dominato da patologie infettive ad uno dove le malattie cronico degenerative sono diventate sempre più comuni. La grande differenza che vorrei porre alla vostra attenzione è che le prime avevano generalmente un esito del tipo tutto o niente, ovvero morte o guarigione. Le seconde al contrario non prevedono la guarigione ma una costante perdita delle proprie capacità funzionali. Non si guarisce dal diabete, o dall’artrosi o dall’enfisema: queste malattie seppure caratterizzate da una bassa mortalità tendono a farsi compagne della vita e ad infragilirla. Cresce un mondo di soggetti fragili e dipendenti, con molte disabilità.
Torniamo ora al primo dei due punti in discussione, quello delle diseguaglianze
- Ogni giorno 16,000 bambini muoiono prima del compimento del primo anno di vita nel mondo. Muoiono di polmoniti, malaria, diarrea ed altre malattie infettive. A questo tragico dato si aggiunge il fatto che i decessi avvengono in misura 14 volte maggiore in Africa Sub Sahariana che nel resto del mondo. Sono bambini che vivono in aree rurali o nelle periferie delle grandi città. Anche negli anni successivi, nello stesso contesto africano, fino ai 5 anni di età, i più poveri di loro avranno una probabilità doppia di morire rispetto ai loro coetanei più benestanti.
- Un altro indicatore chiave delle diseguaglianze è la mortalità materna, definita come la probabilità di una donna di morire durante gli ultimi sei mesi di gravidanza ed i 42 giorni successivi al parto. Ebbene, il 99% delle morti materne avviene nei paesi in via di sviluppo.
- La Tubercolosi è una delle malattie della povertà, essendo strettamente associate ad una alimentazione povera di proteine. Anche in questo caso il 95% dei decessi associati alla malattia avviene in paesi in via di sviluppo. Muoiono giovani adulti in età produttiva, con tutte le conseguenze economiche, sociali e familiari che ne derivano.
- Questi dati ci sono in qualche modo familiari, siamo tutti abituati a pensare che i paesi più poveri siano ancora afflitti da grandi problemi di salute legati alle malattie infettive. Risulta forse per questo sorprendente che l’87% dei decessi prematuri causati da malattie non comunicabili avviene in paesi a medio e basso reddito. Nel corso del ‘900 è avvenuto uno storico sorpasso, quello dei casi fatali di malattie cronico degenerative rispetto alle patologie infettive e sono proprio i paesi più poveri a pagarne il prezzo più alto. Viene dunque meno il vecchio paradigma per cui gli eventi infettivi appartenevano alla geografica dello sviluppo e le malattie non comunicabili ai paesi ricchi. Si tratta inoltre di patologie costose: diabete, tumori, malattie cardiovascolari, spesso drenano e impoveriscono pazienti e familiari. Si stima che ogni anno siano condotti in povertà per questa ragione, milioni di cittadini in tutto il mondo.
- La diversa distribuzione delle malattie si traduce in un terribile gap dell’attesa di vita: ben 34 anni. Un bambino nato in Sierra Leone potrà aspettarsi di vivere 50 anni, uno in Giappone 84 anni.
- Le diseguaglianze dividono i paesi stessi al loro interno. Negli Stati Uniti la minoranza afroamericana rappresenta il 13% della popolazione ma contrae il 50% di tutte le infezioni da HIV/AIDS.
- Le persistenti diseguaglianze rallentano lo sviluppo. Quasi un miliardo di persone vive nel mondo in periferie miserabili, un quarto della popolazione urbana del pianeta. La probabilità che venga raggiunto l’obiettivo di sostenibilità 3, quello della salute e del benessere per tutti sarà raggiunto solo se anche il target 11, quello di città e comunità sostenibili verrà conquistato.
L’azione della Comunità verso drammatiche diseguaglianze: DREAM.
Emerge a fine anni Novanta la sfida di un mondo separato da tanti gap economici e sociali cui si aggiunge un fenomeno recente e drammatico, costituito dalla pandemia da HIV/AIDS. Un diverso destino attende chi si ammala in Europa e chi in Africa: ai pazienti occidentali viene offerta la cosiddetta "triterapia" - un cocktail di farmaci antivirali che riducono in modo sostanziale la mortalità. Ai sieropositivi africani viene di fatto negato il trattamento e si offrono solo consigli di educazione sanitaria ed interventi di prevenzione. Purtroppo il 95% delle infezioni si verificano proprio nel sud del pianeta. A poche ore di aereo dall’Europa si muore disidratati, disperati, abbandonati, per una malattia che altrove si è imparato ormai a contenere. Nel continente spariscono milioni di vite umane, specie delle generazioni più giovani, falcidiando le categorie professionali, i maestri, gli infermieri, gli stessi medici, quelli che rappresentano il futuro e le prospettive di sviluppo. Si delinea un vero e proprio doppio standard anche perché inizialmente la comunità internazionale stenta a comprendere le dimensioni del dramma che si sta consumando in Africa Sub-Sahariana. Nei documenti ufficiali che contengono le linee guida dei piani sanitari nazionali, o negli accordi promossi dalle agenzie internazionali e anche da parte dei grandi donors, per l’Africa si parla sempre e solo di “prevenzione” della pandemia da AIDS. Si punta molto sulla ricerca di un vaccino, sottovalutando, come si vedrà, la complessità di questa soluzione che ancora non è stata individuata a 30 anni di distanza. In attesa del vaccino si offre la prevenzione: informare sulle modalità di trasmissione dell’AIDS e distribuire profilattici. Nulla è previsto per chi ha già contratto l'infezione.
È in questo contesto che per iniziativa della Comunità di Sant’Egidio nasce DREAM – Drug Resource Enhancement against AIDS and Malnutrition. DREAM è un programma di cura oltre che prevenzione. Il sogno cioè di abolire il doppio standard e destini assai diversi per offrire anche agli africani la possibilità di essere curati. E' anche quello di evitare che l'Africa si destabilizzi sotto il peso di un formidabile killer capace di colpire economie e società.
Negli anni Sant’Egidio è diventata anche una realtà africana, con decine di migliaia di membri nei paesi sub-sahariani. Pur estesa a migliaia di membri, Sant’Egidio si definisce “comunità”, un insieme di persone che si pensa come una famiglia. E in famiglia la storia di uno diventa quella di tutti. Se ci si riconosce fratelli, non è accettabile che la possibilità di sopravvivere dell’uno o dell’altro dipenda dalla mera geografia. DREAM è in primo luogo la risposta al dramma dell’AIDS raccontato e vissuto dai membri africani di Sant’Egidio. Parlerà diffusamente di questo la mia amica Paola Germano in un’altra conferenza. Qui vorrei solo insistere sul fatto che DREAM nasce come un programma per la salute dei paesi poveri e per rispondere alla ineguaglianza di risposta sanitaria legata alla povertà del mondo africano. Oggi DREAM ha un seguito, la sua versione 2.0, dedicata alle malattie non comunicabili che affliggono, come prima ho detto, in larga misura i paesi in via di sviluppo. Alcuni esempi: il cancro della cervice uterina. Primo tumore in paesi come il Mozambico, colpisce moltissime giovani donne, anche per l’azione sinergica del papillomavirus e di quello dell’HIV/AIDS. Eppure si tratta di una patologia evitabile e prevenibile, per la quale esiste un vaccino! Mancano però strutture adeguate per la prevenzione ed il trattamento, così che un tumore ampiamente controllabile nella sua fase precoce miete la vita di oltre 4000 donne ogni anno nel solo Mozambico. DREAM 2.0 lavora anche sul versante delle malattie infettive che hanno ancora grande spazio: non si può dimenticare il grande problema di patologie antiche come la Tubercolosi per le quali occorre un grande sforzo di ricerca ad esempio per poter effettuare diagnosi. DREAM è anche questo: sforzo di ricerca scientifica ed insieme famiglia per i malati.
Ho parlato sinora di diseguaglianze e di risposta di Sant’Egidio a queste nei paesi in via di sviluppo. Occorre tuttavia affrontare l’altro tema della nostra epoca. che ho introdotto all’inizio, quello dell’invecchiamento. Certamente potremmo definirlo come il dramma di una conquista: abbiamo aggiunto anni alla vita ma occorre ora ripensare la vita stessa cui è stata aggiunta una nuova età, quella anziana. Infatti nel corso dei secoli il vecchio ha sempre rappresentato una realtà residuale, quella di un sopravvissuto alle intemperie degli anni. Nella Roma del 1864 gli ultrasessantacinquenni erano 15.000 su un totale di circa 500.000 abitanti, ovvero circa il 3%. Oggi sono circa 700.000, pari al 23%, con un aumento assoluto di 40 volte e relativo di 6 volte.
Questa trasformazione ha interessato dapprima l’Europa ma oggi si estende a tutto il mondo.
a. Tra il 2015 ed il 2050 la proporzione nel pianeta degli over 60 passerà dal 12% al 22%. Dunque quasi una persona su 4 avrà raggiunto la soglia dei 60 anni.
b. Entro il 2020, il numero di persone over 60 supererà quello dei bambini sotto i 5 anni.
c. Nel 2050, l’80% degli anziani vivrà in paesi a medio e basso reddito. La velocità di crescita della popolazione anziana sta accelerando ed è molto più rapida che non in passato.
d. Tutti i paesi debbono affrontare la sfida di sistemi sanitari e sociali all’altezza di questo epocale cambiamento.
Occorre dunque concludere che: tutte le società affrontano un processo di invecchiamento molto rapido con un aumento relativo degli anziani ed una corrispondente riduzione dei giovani. Non siamo culturalmente e umanamente preparati ad affrontare questa profonda trasformazione: alla cultura dello scarto in Occidente, di cui tanto parla papa Francesco, corrisponde la “maledizione” di anziani considerati stregoni in Africa. Chi non è produttivo, autonomo, prestante finisce in Occidente in abbandono e solitudine, magari in un istituto più o meno bene attrezzato, oppure viene considerato un ladro di vita nelle periferie africane.
Ci troviamo di fronte ad un bivio. Espellere la vita fragile o comprenderne il profondo valore umano? C’è una diffusa tentazione di negare la fragilità. Non è infatti difficile accorgersi di come una certa cultura del rifiuto tragga la propria forza dall’idea che gli anziani – e più in generale coloro che sono afflitti da condizioni croniche invalidanti – siano uno scarto. Scarto improduttivo se non addirittura peso sociale, economico, contributivo, gravame sulle spalle dei più. Non ci si rende conto che quello degli anziani è il nostro volto, il nostro destino, la stagione futura delle vite di tutti noi.
Se la vita fragile diviene inutile, è tutta la vita a perdere valore, perché la fragilità sarà la condizione delle ultime decadi per ognuno di noi. È scritto nel nostro futuro. E non si può “abolire” la debolezza o la malattia con una eutanasia più o meno esplicita, così come avviene già oggi in Europa ed in Italia. O con quella che papa Francesco chiama eutanasia nascosta.
Io credo che sulla fragilità e la debolezza si possa, anzi si debba aprire un confronto serio, non ideologico, tra le religioni ed anche con una cultura laica attenta ad un senso non banale della vita. Un confronto che parta dalla serena accettazione che la fragilità è un dato insostituibile, inestricabilmente connesso alla nostra vita, anche in altre età, penso ai bambini. Sorge il dubbio che nella vita fragile si esprime tanto della nostra umanità, sia dal lato di chi dipende, sia da quello di chi aiuta.
Io credo che le religioni abbiano un ruolo centrale nell’affrontare le due crisi che ho descritto, quella delle diseguaglianze di salute e quella dell’invecchiamento: riportare al centro della scena l’essere umano in quella che vorrei definire la sua divina debolezza, oggetto della misericordia di Dio.