Illustri personalità e cari amici,
ringrazio tutti coloro che partecipano a questo nostro incontro di uomini e donne di religione. Sono particolarmente grato alle Autorità di Barcellona e della Catalogna che hanno sostenuto in ogni modo la realizzazione di questo evento, mostrando ancora una volta che questa è una terra europea e mediterranea seria e di grande civiltà, in cui ci si pone il problema del vivere insieme tra diversi. Ci piace la Catalogna, perché è terra di libertà e di pensieri lunghi.
Così sono grato all’iniziativa del Card. Martinez Sistach, che ha proposto di tenere questo incontro qui a Barcellona e lo ha accolto con gioia. Non posso nominare tutte le personalità presenti, ma rivolgo un pensiero deferente al Presidente Dimitri Christofias, con cui ricordiamo i 50 anni di indipendenza della Repubblica di Cipro. Saluto con amicizia il Presidente del Montenegro, Vujanovic e la Signora Rabiatou Diallo, presidente del Consiglio Nazionale di transizione della Guinea.
Il fatto che in tanti partecipino al dialogo e alla preghiera di questi giorni manifesta una volontà: continuare la ricerca della pace nel dialogo spirituale. Abbiamo tutti la coscienza di quanto la pace sia fragile nel mondo contemporaneo. La pace è drammaticamente fragile in tante parti del mondo. Ma non solo. E’ anche fragile nel cuore, nella coscienza degli uomini. Fragile da un punto di vista spirituale. Ci sono stati momenti in cui non appariva così. Con l’89, sembrava che la pace fosse conquistata. La pace era la fine della guerra fredda.
Sono vent’anni, proprio oggi, in cui la Germania si riunificò, un evento sino a poche settimane prima giudicato impossibile. Il grande storico polacco Geremek racconta che, nel novembre 1989, parlò con il cancelliere Kohl, il quale gli disse: “né io né lei vedremo la Germania riunificata”. Un anno dopo, il 3 ottobre 1990, la Germania si riunificava. La storia è piena di sorprese, con il suo intreccio di cause politico-economiche e di forza dello spirito.
Dopo l’89 la pace appariva a portata di mano. C’era chi sosteneva che l’espansione del mercato avrebbe portato il mondo ad un’unità pacifica, quasi fosse la provvidenza. Così non è stato. Finché l’11 settembre 2001 ha rivelato l’abisso di violenza su cui scorreva la storia.
Mi sia permesso un ricordo personale. Qualche giorno prima dell’11 settembre, proprio il 4 settembre 2001, nove anni fa, si chiudeva a Barcellona il nostro incontro delle religioni per la pace, nello stesso spirito di quello odierno: lo spirito di Assisi. Erano presenti alcuni di quelli che oggi sono qui. Al termine dell’incontro di Barcellona del 2001, veniva pubblicato un appello di pace, in cui si leggeva: “La pace è il nome di Dio e chi usa il nome di Dio per odiare l’uomo e per la violenza abbandona la religione pura”. Questo è il nostro spirito: il nome di Dio non può mai giustificare l’odio e la violenza, solo la pace è santa e non la guerra.
Purtroppo, esattamente una settimana dopo, gli Stati Uniti venivano colpiti dal brutale e folle terrorismo che fece tante vittime a New York. Morì gente di tutte le religioni e nazionalità. Quel giorno abbiamo capito quanto siamo legati agli Stati Uniti. Il mondo restò scosso. Altri attentati gravi sarebbero venuti in seguito, tra cui a Madrid nel 2004. Tanti morti e una minaccia costante. Iniziarono anni difficili, segnati dall’esperienza e dalla cultura del conflitto. Come difendersi? –era la domanda. Il nuovo secolo si apriva all’insegna della violenza terroristica. Occorreva approntare gli strumenti adeguati. Negli anni a seguire, nella catena di reazioni, la guerra sarebbe stata riabilitata come strumento efficace per difendere la pace e la sicurezza.
La minaccia terroristica non è cessata. D’altra parte si andava affermando che la guerra era nella natura di un mondo impastato di conflitti. La storia –si sosteneva- ha la sua levatrice nel conflitto: conflitto di civiltà, di religioni, di identità etniche, nazionali. Questa –si ripeteva- è la vera natura dei popoli, delle stesse religioni, delle dinamiche della storia: il conflitto.
Il dialogo appariva una pericolosa ingenuità. Che significava il nostro paziente incontrarsi e dialogare dal 1986, quando Giovanni Paolo II iniziò questo cammino ad Assisi? L’11 settembre –ce lo dissero molti- mostrava l’ingenuità o l’illusione del dialogo. L’11 settembre 2001 sembrava schiacciare, come una montagna di odio, la voce dell’appello di pace levatosi pochi giorni prima da Barcellona. Il dialogo è da sognatori: veniva ripetuto. Inutile. Retorico. A che serve il dialogo?
Eppure a questo cammino, fin dal 1986, hanno partecipato tanti grandi dello spirito, innalzando la loro preghiera per la pace accanto a noi, gli uni accanto agli altri. Siamo fieri di questi legami che sono stati ponti mentre i mondi si dividevano. Anno dopo anno, attraverso le tappe di questo cammino, si è creata tra gente di religione diversa, quasi una famiglia di uomini e donne di dialogo e di cercatori di pace. Lo ricorda bene il caro rabbino Rosen. E con lui l’amico Esslimani e Gregorios Ibrahim. Tante storie spirituali si sono unite alla nostra, come quella, provata nel crogiuolo della persecuzione e della resistenza spirituale della Chiesa russa, rappresentata dall’esarca Filaret del patriarcato di Mosca.
Il mondo del 2000 si scopriva frammentato in tante identità, ben lontano da un’umanità unificata dalla globalizzazione. In varie situazioni, il conflitto identitario, religioso e culturale, rischiava di degenerare in scontro violento. Si volevano arruolare le religioni sotto le bandiere del conflitto. Uomini e donne fragili interiormente si sentivano forti parlando di forza o di guerra. Il fanatismo diventava l’approdo per gente spaesata, debole, ma che faceva il volto duro e aveva l’odio nello sguardo. I vuoti e i mediocri sono sempre la peggiore minaccia.
E’ passato quasi un decennio dal terribile settembre 2001. Dove porta la cultura della guerra? Abbiamo visto il fallimento della guerra per portare la pace. Chi si china pensoso sulla storia, sa quale eredità avvelenata lascino le guerre e il terrorismo. Gli ultimi anni confermano questa sapienza antica: la guerra non rende migliore il mondo. Eppure tanto odio si é seminato. Tanto fanatismo. Tante vite umane sono state sprecate. Non si è lottato contro le grandi povertà. Sono diminuite le risorse a questo fine. Non si è trovata la volontà politica di mettere insieme intelligenze per studiare le vie della lotta alla povertà. Restano aperti gravi situazioni conflittuali, come in Terra Santa. Io credo che la riconciliazione in quella regione, nella sicurezza di Israele, nel disarmo dei violenti e dei terroristi, nella patria per i palestinesi, è difficile: sarà il segno profetico di un’era nuova per il mondo.
Nel decennio trascorso si è infranto il mito che il mercato globale portasse provvidenzialmente alla pace e all’unità del mondo. Si è pure infranto il mito che la guerra possa portare alla pace. Purtroppo però ancora non pochi praticano la violenza, il terrorismo. Ma quello che più mi preoccupa è che si è logorata la speranza di costruire un mondo più umano. La speranza, è il motore dei passi in avanti dell’umanità per ogni generazione. Motiva la pazienza che ci vuole per realizzare un mondo diverso. Diverso significa prima di tutto un mondo in pace. Perché la guerra è l’aspetto più disumano della storia dei popoli.
Si è logorata la speranza di rendere migliore il mondo di domani, dei propri figli, dei figli dei propri figli: questa speranza è il motore di una generazione. E’ stata la speranza della generazione della ricostruzione in Europa. La speranza cede il passo alla rassegnazione, alla cedevolezza compiacente al volto oscuro della storia. La rassegnazione, mascherata di realismo, significa il ripiegamento sul proprio interesse individuale, di gruppo. La rassegnazione significa accettare di essere mediocri, senza sogni, gestori del presente. Non capita questo anche agli uomini di religione? Chiediamocelo! Non sono anch’essi contenti della mediocrità di una vita senza speranza. Senza speranza non sboccia la visione del futuro.
In anni senza speranza, durante la guerra fredda, Giovanni Paolo II scriveva questa poesia:
“io credo tuttavia che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di ‘visione’.”
Non sono anche i sentimenti dell’uomo contemporaneo? Che soffre per mancanza di visione, perché il suo orizzonte si è troppo allargato, è stato invaso da tante luci e segnali. Confuso, si ripiega in se stesso, sfidato da troppi vicini diversi, sente il bisogno di murarsi in se stesso. La cultura del conflitto nasce da una mancanza di visione, di speranza, da una fissazione egotica e miope su di sé o sul proprio gruppo.
Non dobbiamo, cari amici, lavorare perché il decennio che si sta per aprire imbocchi un’altra strada rispetto ai primi dieci anni del 2000? Non dobbiamo forzare i tempi proprio con la forza dello spirito?
Non basta predicare la tolleranza. Non si uniscono gli uomini in superficie. Non si compra l’unità con il mercato. Ci vuole qualcosa di profondo, capace di mettere insieme le tante diversità con il senso di un destino unico. C’è necessità di un movimento profondo. “Il viaggio più lungo /è il viaggio verso l’interno” –scriveva il primo segretario dell’ONU, un mistico, Dag Hammarskjold. Bisogna compiere il viaggio più lungo nel cuore di se stessi per ritrovarsi amici di Dio e amici degli altri. Si rinnova la tradizione duecentesca di interesse per l’altro e di fede, che ebbe il suo vertice nel catalano Ramon Llull: non solo uomo di dialogo, ma prima di tutto appassionato credente. Llull chiamava Dio l’Amato e il credente l’Amico: perché chi crede è amico di Dio e allo stesso tempo amico degli uomini.
Nell’incontro spirituale e amicale si tesse l’unità reale tra gente diversa. Si legge nel Corano: “Metti la tua fiducia in Dio, ti basti la sua protezione” (Sura 33, Al-Ahzab). Le religioni, parlando a un uomo dopo l’altro, attente ai dolori e ai pensieri del singolo, educano ad una visione di sé, dell’altro e del mondo: è la visione di pace.
Bisogna ricostituire le vertebre di un mondo come famiglia dei popoli, nelle differenze, famiglia di civiltà e religioni diverse. Non é un’operazione da poco. C’è bisogno di un tessuto spirituale capace di affermare la dignità della differenza. La pace è un tessuto spirituale e umano capace di far vivere insieme mondi diversi. La pace ha un fondamento spirituale nelle diverse tradizioni religiose. Il rabbino Jonathan Sacks scrive: “La prova della fede consiste nel capire se io sono in grado di lasciare spazio alla differenza: riesco a riconoscere l’immagine di Dio in qualcuno che non corrisponda alla mia immagine, la cui lingua, la cui fede, i cuoi ideali sono diversi dai miei? Se non ci riesco, allora io ho fatto Dio a mia immagine e somiglianza…”. E’ una domanda che ciascuno di noi si può porre.
Questo non è relativismo per cui tutte le religioni sono uguali. Le religioni sono irriducibilmente differenti. Eppure si trova nella propria tradizione religiosa quel messaggio pacifico che fa spazio alla dignità di chi è differente, anzi che riconosce in lui un familiare. Chi è differente mi è ugualmente familiare. Noi dobbiamo evitare la drammatizzazione delle differenze, che è un gioco pericoloso per il clima dei nostri paesi, anche se elettoralmente può sembrare redditizio. Così la presenza dei rom non è una minaccia, ma un problema da affrontare con pazienza e impegno. L’integrazione degli immigrati è un compito epocale da svolgere con intelligenza. Talvolta molto riuscito, come si vede da tanti –penso a Genti di pace- che partecipano a questo nostro incontro.
Diceva un grande europeo, il francese Maurice Schuman, morto quarant’anni fa, all’origine della riconciliazione tra francesi e tedeschi, che si erano combattuti e dell’Unione europea:
“I maestri della storia non sono quelli che si agitano sullo scenario. Possono tutt’al più influire temporaneamente sul corso della storia; non possono orientarla definitivamente. Non c’è che un solo “Maestro della Storia” che orienta definitivamente il destino degli uomini secondo il suo piano; è l’Onnipotente; Egli sceglie i suoi strumenti fra gli uomini di buona volontà”.
Siamo uomini di buona volontà, capaci di orientare la storia! Il dialogo chiama le religioni ad essere pilastri spirituali di un mondo come famiglia. Famiglia è termine semplice, umano, antico, alla portata di tutti, con una sua ingenuità sapiente: il mondo come famiglia esprime la radicale unità dei popoli. E’ un termine naif per la politologia. Lo abbiamo scelto come quadro del nostro convegno, in questa città di Barcellona che sta per inaugurare il tempio della Sacra Famiglia, una costruzione religiosa moderna, che ha osato realizzare la bellezza della famiglia in nome di Dio. La famiglia parla di unità. Bisogna ridare slancio e speranze a tutte le tensioni all’unità nel mondo contemporaneo. In Europa e ovunque.
Dialogando in questi giorni, incontrandosi, riannodando i vincoli strettisi negli anni, donne e uomini di differente religione si rivelano famiglia di cercatori di pace, in cui la diversità non è ostacolo o incomprensione. Diventano un segno di un mondo come famiglia. Benedetto XVI, nel 2007, a Napoli, incontrando i leader delle religioni, convenuti su invito del card. Sepe al nostro convegno, ha dichiarato:
“Nel rispetto delle differenze delle varie religioni, tutti siamo chiamati a lavorare per la pace e ad un impegno fattivo per promuovere la riconciliazione tra i popoli. E’ questo l’autentico ‘spirito di Assisi’, che si oppone ad ogni forma di violenza e all'abuso della religione quale pretesto per la violenza. Di fronte a un mondo lacerato da conflitti, dove talora si giustifica la violenza in nome di Dio, è importante ribadire che… le religioni possono e devono offrire preziose risorse per costruire un’umanità pacifica, perché parlano di pace al cuore dell’uomo…”
Il mondo è irriducibilmente contrassegnato dalla diversità: multipolare politicamente, ma anche multiculturale e multireligioso. Questa complessità si compone nel dialogo paziente. Ma il dialogo ha anche bisogno di luoghi in cui esprimersi. Ha scritto Emile Poulat: “Al di là delle buone volontà individuali c’è bisogno di luoghi che permettano di strutturare questi incontri e di assicurare al lavoro del dialogo la durata che gli è indispensabile”. In questo incontro di Barcellona la diversità non si fa conflitto. Segnalo l’importante presenza a questi lavori della Cina, che ha una sua proiezione in Africa e in Europa e si va confrontando con il suo sviluppo e i problemi spirituali dell’umanità. Con essa l’Indonesia, il Giappone, il Pakistan e l’India. Con l’Asia non ci sono solo affari da fare, ma c’è un dialogo spirituale da intessere in un mondo multipolare. E poi con l’America Latina, l’Africa, banco di prova della coscienza internazionale.
Perché dialogare? Questi anni ci hanno convinto che il dialogo è qualcosa senza cui questo mondo sarebbe molto peggiore. Non se ne possono pesare i risultati. Il dialogo è come la preghiera. Cosa cambia la preghiera? Ma che sarebbe questo mondo senza la preghiera. Che sarebbe stata la vicenda della Guinea senza la preghiera che porta al dialogo? Come sarebbe finita la Costa d’Avorio senza l’incontro tra uomini religiosi che ha fondato la transizione nel dialogo?
Non è un caso che nel cammino dello spirito di Assisi, dialogo e preghiera si intreccino tra di loro. Un grande spirituale del Novecento, Paolo VI, affermava: “Ecco… l’origine trascendente del dialogo… nell’intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime nel dialogo tale rapporto”. Sono le dimensioni spirituali della pace: pace dei cuori, pace dei rapporti umani, dei rapporti tra i popoli.
Per questo crediamo che, mentre il primo decennio del XXI secolo, cominciato l’11 settembre, volge al suo tramonto, bisogna avere il coraggio di forzare un tempo nuovo, capace di fondare in senso spirituale una stagione di pace. In questi giorni si discuterà dei problemi più diversi. Ma c’è una convinzione che percorre tutte le discussioni, non si può dimenticare il fondamento spirituale. Perché è un fondamento di pace. Perché è un fondamento che non viene da noi. Questo crediamo. Crediamo che con la forza debole della fede si può costruire con coraggio un mondo che sia famiglia di popoli.