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Mario Giro

Essayist, Community of Sant'Egidio, ltaly
 biography

“Africa rising. Africa on the rise. Emerging Africa”. Così titolano giornali economici e libri sul continente. Simbolicamente tali annunci sono stati confermati un anno fa con l’entrata ufficiale nei BRICS del Sudafrica. Malgrado i molti problemi del continente, la fotografia dell’Africa sub-sahariana odierna consiste in questo paradosso: tumultuosa crescita e persistente povertà. Si tratta di una vicenda dalle profonde ripercussioni sociali e culturali: l’Africa cambia e cambiano gli africani. Ciò si aggiunge a uno scenario geopolitico nuovo con la Primavera araba e le sue ripercussioni sul resto del continente.

Primavera araba e Africa
Sulla primavera araba solo alcune brevi considerazioni. I governi arabi sembravano infrangibili eppure hanno dimostrato tutta la loro debolezza. I giovani hanno percepito che i regimi non avevano futuro e se ne sono voluti sbarazzare. Le giovani generazioni del nord Africa e del Medio Oriente si sentono oggi soggetto della loro storia, non oggetto. Reagiscono all’umiliazione in maniera nuova: credono che tutto possa cambiare anche nei loro paesi. Certo sanno di dover rischiare. L’esempio iraniano del 2009, che in una certa misura ha aperto questa nuova fase, e quello tragico della Siria attuale, mostrano come sia difficile contrastare la violenza di poteri che non vogliono cedere. Tuttavia ciò non basta a frenare le auto-convocazioni spontanee che dal dicembre tunisino hanno infiammato progressivamente tutti i paesi arabi e oltre. Cosa chiedono i popoli arabi? Più diritti, meno corruzione, lavoro ma anche libertà, dignità e democrazia. La rivolta “pane e internet” dei “diplomés-chomeurs” ha colto tutti di sorpresa. Non si tratta delle solite jacqueries arabe a cui l’Occidente aveva fatto l’abitudine, né di minacciose masse islamiche fanatizzate. Non c’è stato complotto terrorista. E’ una piazza molto moderna e variopinta, che ora deve affrontare la sfida della democrazia. I primi passi in Tunisia lasciano ben sperare; il nuovo equilibrio di poteri in Egitto –anche se fragile- fa intravedere una strada.

La democrazia in Africa
Molti si sono chiesti se gli avvenimenti nord-africani e mediorientali fossero in grado di contagiare l’Africa sub-sahariana. Si tratta di un interrogativo importante, visto che sono le aree più giovani del pianeta: circa il 70% della popolazione ha meno di 30 anni. Credo però che la domanda vada rovesciata. Una Primavera africana c’è già stata e ha avuto due fasi. La prima è posta all’inizio degli anni Novanta con le Conferenze nazionali sovrane che hanno investito soprattutto i paesi francofoni e determinato la nascita di molte democrazie, certo fragili ma reali. Successivamente l’ondata ha raggiunto anche i paesi anglofoni dell’Africa orientale. Ad essi si deve aggiungere il Mozambico, giunto in quegli stessi anni alla democrazia attraverso la pace negoziata a Sant’Egidio nel ‘92, e il Sudafrica democratico degli accordi del ‘94. Come in tutti i fenomeni di questo tipo, si é assistito poi a un contraccolpo che ha prodotto nuovi colpi di Stato e autoritarismi, senza però riuscire ad invertire la spinta iniziale. La seconda fase della democratizzazione dell’Africa sub-sahariana inizia al tornante del millennio, con la ripresa dell’alternanza in molti paesi, anche se attraverso crisi, come quelle in Costa d’Avorio o Guinea. Esempi di questo periodo sono anche quelli della Liberia (che ha pure l’unico presidente donna dell’Africa) e le due elezioni generali senza scosse in Nigeria, una prima per il gigante d’Africa (anche se ora sottoposto alla destabilizzazione dei Boko Haram). Molte cose si possono dire su queste novità ma malgrado tutto l’Africa si muove verso la democrazia. Le recenti transizioni democratiche guineana e nigerina, la difficile transizione malgascia, la fine della crisi in Costa d’Avorio, sono tutti segnali positivi in questa direzione. Restano ancora zone d’ombra come lo Zimbabwe, il Sudan e il Corno. Tuttavia la maggioranza dei paesi africani ha elezioni pluripartitiche da molti anni e il panorama politico generale ha visto ormai numerose alternanze. Tale scenario non è scevro di sfide e rischi. Tuttavia occorre guardare all’Africa con la percezione che ne hanno gli africani stessi e non solo la nostra. Uno dei limiti europei è la ripetizione ossessiva del mantra della “stabilità”. Come molti si sono spaventati della Primavera araba a causa di tale assillo, così anche rischiano di non capire le complesse evoluzioni africane.

Africa in trasformazione
La trasformazione della società africana avviene a tappe forzate. La globalizzazione sta cambiando la cultura delle giovani generazioni africane urbanizzate, oggi più individualiste dei loro padri. Le esperienze degli africani stessi sono diverse e divaricanti: nell’immaginario collettivo dei giovani svanisce l’Africa come unità –sogno dei padri- ma tutti si sentono diversi. La mentalità dell’africano adulto medio è forse ancora legata ai vecchi miti ma la percezione delle giovani generazioni (maggioritarie) è cambiata. Sta emergendo un continente più diversificato, non solo economicamente, ma anche politicamente e culturalmente. La cultura dei giovani si omologa a quella dei loro coetanei di altri continenti. Una volta le elite africane credevano nei sogni comuni, come l’unità africana. Oggi sta emergendo un ceto medio africano, più istruito e culturalmente globalizzato, ma anche più disarticolato e disinteressato al futuro comune. Il fenomeno è imponente: si tratta del 34% della popolazione totale, oltre 300 milioni di africani . La percentuale dei poverissimi in Africa (quelli con meno di 2 dollari al giorno) è scesa per la prima volta sotto il 50% del totale. Li chiamano la generazione Cheetah opposta a quella Hippo: non aspettano aiuto dal pubblico, vedono ovunque opportunità, si danno da fare e soprattutto non sono legate al vecchio complesso vittimista e paralizzante della controversia sul “colonialismo-imperialismo” come fanno gli Hippo.
Con tale trasformazione l’Africa può ora cambiare una condanna demografica in un plusvalore. La prova sta nella caduta del tasso di mortalità infantile in Africa: dal 2005 a oggi del 4% all’anno, più veloce della Cina negli anni Ottanta quando si preparava a diventare una potenza. Anche se non é ancora il caso di parlare di una rivoluzione sociale, si tratta pur sempre di un grande cambiamento. Le previsioni del FMI dicono che l’Africa sub-sahariana dovrebbe avere uno dei tassi di crescita maggiori del pianeta: oltre il 5% in media, alcuni paesi all’8% e di più. L’Africa è stata il continente meno toccato dalla crisi finanziaria. Nel continente sui crea lavoro e c’è bisogno di manodopera specializzata in tutti i settori. La nuova generazione più istruita è pronta ma c’è anche un afflusso da fuori. Dall’Europa in crisi sempre più lavoratori si spostano in Africa -seguendo all’inverso le antiche rotte coloniali-: portoghesi vanno in Mozambico e Angola ecc. le chiamano migrazioni al contrario.
Eppure c’è ancora la fame, che in Asia è stata vinta. L’Africa si presenta così come il continente del “paradosso economico” che la contraddistingue fin dall’entrata nel nuovo Millennio: crescita e sottosviluppo, tradizione e individualismo. Aumentano i benestanti ma la forchetta tra ricchi e poveri si allarga. I popoli africani sono così sottoposti a tensioni fortissime che li rendono quasi delle polveriere sociali: l’arrivo copioso di investimenti (dall’Asia, ma non solo) ha aumentato la massa di denaro circolante. Numerosi ne hanno approfittato ma più numerosi ancora sono quelli che si riversano in città e attendono di godere dei benefici. La velocità delle regole del mercato non concede tempo alle fragili istituzioni pubbliche, in uno stadio di iniziale democrazia, di inseguire tali impetuosi mutamenti con politiche sociali adeguate .

Tenuta sociale e violenza diffusa
L’Africa si urbanizza velocemente e disordinatamente. Ciò crea opportunità ma anche squilibri. Violenza e degrado del vivere civile diventano la norma. Il fattore più preoccupante a cui si assiste è il diffondersi della violenza diffusa e dei fenomeni criminali in zona urbana e rurale. Fenomeni di tipo “messicano” iniziano a vedersi anche in Africa sub-sahariana. Tutto ciò si aggiunge allo schema del terrorismo o dell’integralismo islamico. Si tratta anche dell’eredità dei conflitti dei decenni precedenti e degli innumerevoli colpi di Stato. La circolazione delle armi si allarga ma oggi c’è anche qualcosa di più. La nascita di bande organizzate, legate talvolta a fenomeni di integralismo religioso o estremismo etnico ma dedite soprattutto al banditismo. Le istituzioni africane sono poste davanti a sfide gigantesche. La stesse transizioni democratiche avvengono in paesi fragili socialmente, in un contesto di precarietà economica che le espone a rischi. Intere aree del continente sono fuori controllo da tempo, come l’est della RD Congo, la RCA, a cui si aggiungono le tradizionali aree di conflitto (Somalia, Sudan ecc.). Torna, anche se parcellizzato, il fenomeno delle “terrae incognitae” che avevamo notato in Africa dopo la fine della guerra fredda. Tale vuoto è riempito da potentati locali, gang o gruppi criminali inseriti nel contesto della globalizzazione, tramite traffici di ogni genere. L’intera area del Sahel ad esempio, che comprende le parti desertiche del Niger, Burkina, Algeria meridionale, Mali, Mauritania e Ciad, è particolarmente vulnerabile, come si è visto nel caso del Mali. Contrabbandieri, trafficanti, terroristi islamici di AQMI, ribelli nomadi ecc. si intrecciano senza ostacolarsi, in un modus vivendi di scambi di armi, informazioni e merci e ora hanno anche occupato un “paese”. I rapimenti di cittadini occidentali nel Sahel avvengono come una remunerativa forma di scambio tra gruppi. Il fenomeno della pirateria sulla costa del Puntland somalo –ora in diminuzione- fa parte di questa degenerazione, così come il controllo di interi paesi da parte dei cartelli della droga (Guinea Bissau). C’è un problema di tenuta sociale del tessuto civile. Un altro fenomeno da considerare è il contenzioso fondiario: sempre di più vi saranno tensioni su questioni legate alla terra, sia a causa del land grabbing operato da grandi imprese occidentali o asiatiche, sia per la maggiore circolazione delle persone che si accalcano sulle stesse terre fertili e ne rivendicano in vario modo il possesso o l’usufrutto. Qui entra in crisi il tradizionale diritto d’uso comune delle terre a vantaggio della proprietà privata con molte conseguenze e un mutamento antropologico.
Un rapporto delle nazioni Unite del 2005 su “Criminalità in Africa“prevedeva il blocco degli investimenti a causa della proliferazione dei fenomeni di illegalità. E’ avvenuto esattamente il contrario: criminalità e violenza diffusa si alimentano reciprocamente con la crescita disordinata della ricchezza. Investimenti cospicui senza modello sociale creano diseguaglianze e mettono sotto stress le società fragili. Ciò ingenera fenomeni sconosciuti in Africa fino a pochi anni fa che rendono la vita più dura, come l’abbandono degli anziani che avviene con caratteristiche tutte africane, come l’utilizzo dell’accusa di stregoneria per emarginare gli anziani o addirittura ucciderli. La famiglia africana tradizionale sparisce dalle grandi città ed è sostituita da una forma locale di famiglia nucleare. Anche verso i poveri e gli indifesi, come i bambini di strada, dove prima c’era sopportazione per un fatto normale, scoppia ora l’intolleranza con manifestazioni violente. Giustificata dal “bisogno di sicurezza”, spesso con un linguaggio del tutto simile a quello utilizzato in Europa, l’emarginazione degli ultimi diviene possibile e il linciaggio frequente. Ciò è avvenuto anche nei confronti degli immigrati di altri paesi africani (vedi il caso dei Mozambicani in Sudafrica ecc). Venuto meno lo Stato autoritario africano e indebolita la struttura familiare o tribale tradizionale, si amplia lo spazio dell’anarchia sociale in società fragili.

La storia cambia
L’Africa diviene il nuovo terreno di competizione globale tra potenze emergenti e vecchie potenze economiche. Appaiono sulla scena nuovi attori come non solo la Cina ma anche l’India, la Corea, i paesi Arabi, la Turchia, la Malesia, la Russia e il Brasile. E’ una questione di scelte politiche e di volontà. Nell’Africa Occidentale e Centrale indipendenti degli anni Settanta i francesi erano saliti a 250.000, dai 120.000 della colonia dieci anni prima. A metà degli anni Ottanta ce n’erano 50.000 solo in Costa d’Avorio, tre volte di più che prima del 1960. C’è stata dunque in Europa una vera “corsa all’Africa”, che non va dimenticata. La presenza europea sul continente è una realtà post coloniale dovuta a una scelta di cooperazione, non un rottame della storia. Fu una scelta europea, anche se non è il caso di fare qui la narrazione della cooperazione delle istituzioni europee con l’Africa. Seppur giustificata dall’interesse economico che i nuovi Stati rappresentavano, quella “corsa” ha creato legami, relazioni, vincoli più forti di quelli dell’epoca coloniale. Oggi che l’Africa è tornata al centro degli interessi vi sono nuovi attori: circa 150/200.000 europei di fronte a quasi un milione di cinesi. Nuove opportunità crescono ogni giorno. Va detto, ad onor del vero, che numerosi studi economici prevedevano ancora pochi anni fa la fine dell’Africa, quasi vi fosse una “fatalità africana” che la destinasse al fallimento totale. Così non è stato.
    Tra i cambiamenti africani, notevole è quello che contraddistingue la produzione culturale e religiosa. Nollywood si candida a diventare il secondo produttore mondiale di film da cassetta con oltre 1000 prodotti all’anno. Modelli nuovi di riuscita sono proposti al grande pubblico. La scena religiosa è in piena trasformazione con la nascita di sette, culti e religioni autoctone, con predicatori la cui audience supera i confini continentali. La progressione folgorante del neo-pentecostalismo ha in Africa centri importanti. Nuove figure antropologiche del successo sociale e dell’ethos economico –molto lontani da quelli tradizionali- si stanno forgiando senza connessione con i mondi culturali precedenti, fossero quelli della colonizzazione o della tradizione. Ciò avrà presto un impatto forte anche sulla politica: emergeranno nuovi leader. Ma già ora la gran parte dei presidenti è neo-cristiana mentre nel mondo a prevalenza islamica aumenta la lotta tra l’islam tradizionale e quello importato del neo-fondamentalismo. La contemporanea debolezza delle strutture sociali e statuali, di cui abbiamo detto, rischia di creare nuove tensioni se i governi non sapranno tenere il passo con le trasformazioni.

La terza liberazione
I primi anni del secolo ci mostrano un’Africa in piena evoluzione. E’ il momento di riformare le nostre visioni vecchie sul continente e acquisirne di nuove. Le sfide sono molteplici e le connessioni con gli altri continenti numerose. Non c’è più solo un’Africa isolata e in attesa: l’Africa viene verso di noi e non solo con l’immigrazione. Non è tra l’altro così lontano il momento in cui i flussi di immigrazione si trasformeranno essi stessi, o diminuiranno. Già alcuni segnali si vedono ora: molti africani vanno alla ricerca di lavoro in paesi del continente più sviluppati.
La crescita disordinata pone una grande sfida: come rafforzare lo Stato perché indirizzi le scelte economiche, adatti le strutture sociali senza però tornare ad essere lo stato autoritario e neo-patrimoniale o cleptocratico che era prima? C’è una grande domanda sulla democrazia africana e sul suo modello futuro.
Alcuni studiosi parlano di terza liberazione a venire. Dopo quella dal colonialismo e quella dalla tirannia dei regimi autoritari, la terza tappa deve essere quella dello sviluppo equilibrato. Questa terza liberazione si rivolge alla società civile: occorre trovare nuove forme di partecipazione democratica nella costruzione del futuro. E’ quello che auguriamo all’Africa che cresce.