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Raj Kumar Srivastava

Centro di Studi per le Società in Sviluppo, India
 biografia

Gratuità significa molte cose per molte persone. Comunemente essa implica un atteggiamento di gratitudine. In un senso più elaborato, essa esprime la nostra gratitudine a Dio per la Sua benevolenza. Questo messaggio di gratuità si diffonde attraverso tutte le grandi culture religiose del mondo. Pressoché universalmente, esso convoglia il sentimento di bontà amorevole, di altruismo, di solidarietà umana, di mutuo sostegno, di umiltà e di reciprocità.
È vero che l’ideale dell’azione disinteressata per il bene altrui è stato gravemente eroso da stili di vita improntati alla divisione, indotti da una visione economicistica del mondo che è divenuta dominante nel corso degli ultimi duecento anni circa. Ma è altrettanto vero che molte persone comuni agiscono in forme significativamente improntate a compassione e si mostrano generosamente sensibili ai più bisognosi, vicini e lontani, al di fuori del quadro concettuale del mercato. Esse sono orientate principalmente dai valori morali di riferimento radicati nei rispettivi sistemi di pensiero. Non si effettua quasi mai una ricognizione aggregata del loro impegno in termini di valore monetario. In effetti, tale impegno è soprattutto rivolto a situazioni puntuali [lett. su piccola scala] e pertanto ignorato dalla seria ricerca accademica. Essi rimangono anche fuori dalla considerazione del mercato.
Il contrario della gratuità è l’avidità. L’avidità è vista dal mercato come un bene. L’economia classica ha ridotto l’essere umano ad Homo Economicus, una creatura definita principalmente come orientata al perseguimento dell’interesse personale. Questa visione riduttiva è portata alle sue estreme conseguenze dai sostenitori della supremazia del mercato. In un film del 2010 (Wall Street: Money Never Sleeps (in Italia: Wall Street – Il denaro non dorme mai)), uno dei protagonisti esprime così questa visione del mondo: “L’avidità in tutte le sue forme … ha caratterizzato … l’innalzamento dell’umanità” e questa avidità è la cura per qualsiasi problema affligga quel “soggetto mal funzionante chiamato Stati Uniti d’America”. In effetti, l’avidità intesa come principio-guida del mondo del mercato spinge ogni individuo ad essere un imprenditore interessato a massimizzare i propri guadagni. L’economia non è più soltanto un ambito o un aspetto della vita. Essa è divenuta il fattore determinante di tutte le altre attività della vita, e questo significa spersonalizzazione dei rapporti umani [vissuti] in termini di scambio e commercio anziché in termini di scambio di doni.
Questo è il nocciolo del moderno imbroglio, una sorta di ottusità [vuoto] nella quale l’uomo, nella sua ricerca individuale del proprio benessere economico, anziché realizzare se stesso, si disperde e si dissocia dall’altro. Questa propensione ad immiserire il prossimo, ne riduce gli attributi e la capacità di essere autenticamente umano. In questa prospettiva, il perseguimento dell’interesse personale è naturale e razionale. Si pone una fede assoluta nella mano invisibile del mercato, per quanto riguarda il superamento della divergenza tra benessere privato e pubblico. Poco importa se ciò conduce ad un mondo infelice.
La società contemporanea, come ogni altra società nella storia, si fonda su una certa quantità di presupposti, in larga misura inespressi, a proposito di chi noi siamo, del tipo di universo nel quale ci troviamo e di cosa sia in definitiva importante per noi. La logica del mercato, che fino a poco tempo fa era parsa possedere tutte le risposte, non spera più di offrire tutte le risposte necessarie a guidare il genere umano. Le recenti discussioni ed agitazioni contro l’inadeguatezza dei mercati e della logica del mercato costituiscono il riconoscimento del fatto che la realtà, nel quadro dell’essenziale unità dell’esistenza, possiede molti volti; in altre parole, costituiscono il rifiuto dell’esclusivismo.
In termini filosofici, non posso far di meglio che citare Jacques Maritain, là dove egli afferma: “Se dono veramente me stesso è allora che sono veramente accolto”. Qui la reciprocità non è più solo un’aspirazione personale, ma diviene anche un fine della società ed un ideale universale. La necessità di armonizzare se stessi con un crescente circolo di relazioni è soltanto l’altro nome della gratuità. Allora la società risulta essere una complessa rete di reciprocità vincolanti piuttosto che un’aggregazione meccanica di un insieme di consumatori basata su relazioni la cui legittimità discende dall’economia di mercato e dalle sue estensioni.
Tuttavia, se la gratuità non diviene una parte vitale della struttura reale del mondo moderno, di cui il mercato costituisce indubbiamente una componente principale, essa non farà presa [abbastanza] per esser presa sul serio dagli induriti cinici del mondo del mercato. Ciò che è necessario prendere sul serio non è la dimensione, ma l’influenza potenzialmente esercitabile dalla gratuità. Tale influenza non si può concretizzare se [la gratuità] viene introdotta come un pacchetto di incentivi morali con la mercificazione che ne consegue. Può concretizzarsi se [la gratuità] diviene un flusso continuativo ed evidente. È in quest’ottica che Larry Hirschhorn e Thomas Gilmore sostengono:
“Le idee morali possono a volte sostituire le risorse finanziarie, perché conducono le persone a lavorare per una causa senza ricompensa ed a contribuirvi con altri beni e servizi di valore. Questo fenomeno costituisce una «valuta morale», una merce che non è solo utile … ma che può essere essenziale per la creazione di consenso e di condizionamento al fine di creare campi d’azione o modificarne l’orientamento”.

In un mondo in cui il mercato o lo stato, o i due combinati, sono divenuti i soli arbitri dei processi sociali, economici e politici, il fenomeno della gratuità è minimamente teorizzato e fatto oggetto di cronaca. Esempi di numerose iniziative comunitarie, trasversali ai confini religiosi, dedicate alla condivisione di risorse per il bene individuale e comune, sono disseminati ovunque, ma rimangono sconosciuti al di fuori delle comunità ove hanno luogo. Dato questo orientamento, c’è una profonda inadeguatezza nei tentativi di identificare i legami tra gratuità e mercato. Un esame empirico di questi tentativi è importante per stabilire se e come la gratuità possa costituire una forza sul mercato.

II
Passo ora dalla discussione sull’idea di gratuità e mercato alla citazione di un grande movimento contemporaneo dell’India, Swadhyaya, di cui posso parlare con una certa dimestichezza dati i miei vent’anni di partecipazione ad esso. Swadhyaya sembra riuscire a creare spazi di superamento dell’interesse privato per vincere la condizione umana di miseria, non combattendo ma utilizzando le opportunità offerte dal mondo del mercato.
Swadhyaya costituisce l’esternalizzazione del principio del bhakti (devozione). Ha due aspetti importanti: la relazione personale col divino e la sua trasformazione in una forza sociale. Questa compenetrazione del personale e del collettivo è facilitata dalla comprensione che noi siamo tutti figli dello stesso Dio e che per servire Dio è necessario servire la Sua creazione. Un orientamento così attivo della devozione trova espressione in numerose concrete attività sociali ed economiche, come la costruzione di un tessuto comunitario, l’agricoltura, la pesca, la silvicoltura, l’orticoltura, l’industria casearia, i servizi vocazionali, la nutrizione, la cura della salute, l’educazione informale, la salvaguardia dell’acqua e diverse attività nel terziario. Questa originale maniera di esprimere gratitudine a Dio attraverso l’offerta di tempo e capacità si risolve in definitiva nella creazione di sostanziose risorse di capitale.
Swadhyaya fa affidamento innanzi tutto sulla generazione interna di risorse di capitale. Il lavoro è la forma prima di capitale. Non si tratta di amore per il lavoro, né di lavoro dell’amore. Si tratta di un itinerario verso l’auto-perfezionamento attraverso un lavoro costruttivo per il bene collettivo – l’attivismo devozionale o krutibhakti. In altre parole, si tratta di una devozione che promuove l’”essere-un-noi” (we-ness) della famiglia umana sotto “la paternità di Dio”. Il ricavo del lavoro dei membri della Swadhyaya, chiamato shram bhakti, è convertito in capitale reale e in definitiva in valore monetario. Swadhyaya rifiuta qualsiasi cosa le giunga gratis, come sussidi o donazioni da fonti esterne. Il volume di beni così generati è piuttosto impressionante. Ogni membro della Swadhyaya è tenuto ad offrire due giorni di lavoro al mese a Dio. Qui la comunità/società è equiparata a Dio in virtù della presenza del divino in ogni cosa. Questo lavoro devozionale, approssimativamente, ammonta a più di due milioni di giorni/uomo all’anno. Consiste di lavoro specializzato, semispecializzato e non specializzato.
La distribuzione e la divisione delle risorse è sempre problematica. Tuttavia, la Swadhyaya ha una soluzione semplice a questo problema. Dato che queste risorse non appartengono ad altri che a Dio, nessuno può reclamare il possesso del prodotto del proprio lavoro. La ricchezza (Lakshmi, nel linguaggio della Swadhyaya) generata dalla vendita di ciò che viene prodotto appartiene a Dio e pertanto è apaurushya, ovvero impersonale. Questa ricchezza è il risultato della devozione collettiva che non è contaminata dall’avidità né da attività disoneste. Viene divisa in due parti. Una parte viene utilizzata per rispondere ai bisogni di breve periodo dei poveri della comunità o per avviare delle piccole imprese. Questa erogazione non è vista come un prestito né come un’elemosina, ma come prasad (l’offerta dei credenti a Dio che viene da Lui benedetta e distribuita tra di loro come Sua grazia alla fine di un servizio religioso). Colui che la riceve non ha l’obbligo di restituirla e comunque nessun interesse deve essere pagato su tali somme. (L’esperienza dimostra che a tutt’oggi non c’è stato un caso di inadempienza). L’erogazione e la riscossione di queste somme sono effettuate con un garbo così delicato da ovviare a qualsiasi senso di inferiorità da parte di colui che riceve. Questo dà luogo a una rete di sicurezza sociale libera dalla sindrome del benefattore e del beneficato. L’altra parte dei ricavi viene depositata in fondi fiduciari per rispondere ai bisogni di lungo periodo della comunità. Tuttavia, non è l’aspetto utilitaristico (l’elemento chiave del mercato) di queste imprese che attrae i membri della Swadhyaya, ma è l’energia spirituale e sociale che essi creano e ricevono, nonché il sentimento di utilità sociale e solidarietà che queste attività generano.

III
La metafora di Karl Marx su “un commercio planetario e un mercato planetario” è una buona rappresentazione dell’attuale mondo del mercato. È la raffigurazione predominante dei nostri tempi. Contrapposta a questa è l’idea di un’economia ispirata dalla gratuità, i cui semi sono racchiusi in diverse tradizioni religiose, e che può essere rinvenuta in molte situazioni. Sebbene i tentativi in questa direzione non siano insignificanti, in confronto al mercato non c’è paragone tra i due. Ci sono evidenti disparità di dimensione. Il mercato può permettersi di aver scarsa considerazione di questi sporadici esempi di iniziative economiche di successo condotte da alcuni indipendenti motivati dai propri convincimenti ed operanti entro comunità locali. Queste sono viste nulla più che come fattori secondari di irritazione, ma alcune punture di zanzara possono diventare pericolose. Questi casi sono indicatori che ci dicono come evitare la natura sfruttatrice del mercato e come rispondere ai bisogni delle comunità che lo compongono facendo affidamento sulle loro risorse, prodotte mettendo in atto l’idea di gratuità. La Swadhyaya è solo un esempio. Ve ne sono molti altri. Alcuni di questi non sono fenomeni del terzo mondo, ma si possono anche trovare nel primo e nel secondo mondo.
Nonostante l’incomparabilità delle rispettive dimensioni, ciò che queste iniziative fondate sulla fede e coinvolgenti piccole comunità ci mostrano in ultima istanza, è che la visione riduttiva dell’economia, sebbene fortemente sostenuta dal mercato, non è il solo modo di mantenere il benessere materiale. Esse sfidano la rappresentazione statalista del mercato che è saldamente determinata da una visione materialistica del mondo. In un mondo dove la fede svolge un ruolo significativo nella sfera pubblica, tali iniziative interferiscono con la sovranità del mercato e possono contribuire significativamente alla riconfigurazione o al cambiamento del mercato in futuro. Non è inverosimile, perché i mercati dipendono anche dal flusso di rappresentazioni, valori e popoli. Credo che un’economia comunitaria costituisca una necessità imprescindibile se il mondo del mercato darà alla gratuità il posto che le compete.