Ritrovarci a Bologna, città da sempre sensibile alla pace e al dialogo (penso agli anni Sessanta e al card. Lercaro) è un luogo giusto per noi. Ringrazio per l’invito l’Arcivescovo, Mons. Matteo Zuppi, uomo di pace, pacificatore in terre di guerra, oltre a essere per me un fratello. Bologna è una grande occasione e cade in un momento delicato per continuare a svolgere il filo mai interrotto del dialogo, iniziato ad Assisi da Giovanni Paolo II nell’ottobre 1986 al tempo della guerra fredda: dialogo passato attraverso scenari diversi, difficili, bellicosi, ostili, ma anche di insperate paci.
Molti dei presenti, leader, donne e uomini credenti, ne sono stati attori e protagonisti. Molti sono legati a quest’appuntamento, perché sentono il nesso profondo tra un atteggiamento spirituale, la preghiera, e il dialogo. Ricordo solo il vescovo copto Amba Epiphanios, uomo mite e di dialogo, ucciso recentemente per un atto violento in Egitto e amico di questi nostri incontri. Spiritualità e dialogo non sono solo per i religiosi, ma interessano gli umanisti, come scriveva Abraham Yehoshua: "anche se non credo in Dio, la sua presenza nella mente di moltissimi esseri umani mi riguarda e m’interessa".
La guerra fredda, il muro e l’equilibrio del terrore, sembravano travolti dopo l’89 dall’euforia della globalizzazione: quasi una provvidenza che tutto portava allo sviluppo e all’armonia. Tutto –dall’economia, alla finanza, ai media- si unificava, inaugurando la belle époque globale. Si trascurava di negoziare con la globalizzazione vincente. Accanto al gigante dell’economia globalizzata, è mancata un’unificazione spirituale da compiere nel dialogo. I mondi spirituali spesso sono rimasti nei tradizionali orizzonti di ieri. Sovente le religioni non hanno percepito la globalizzazione come avventura dello spirito, pur vivendo incontri inediti e tanti orizzonti problematici. Giovanni Paolo II, preveggente, lo intuì ad Assisi nel 1986.
Invece alcuni settori religiosi si sono legati alle resistenze alla globalizzazione, sacralizzando identità fondamentaliste, contrapposte, talvolta terroriste, staccandosi dal loro retroterra storico-culturale. Il dialogo, arte antica e così religiosa, è stato accantonato per scontrarsi o un parlarsi rapido e antagonista. Si sono legittimate la guerra di religione o la violenza religiosa.
Il mondo globale non ha portato la pace, ma ha prodotto guerre orribili, come in Siria, dove dura dal 2011 (saluto il patriarca Efrem). Oggi il mondo globale, finito l’ottimismo da belle époque, è segnato da divisioni, muri, antagonismi. Molte paure aleggiano nei cuori di gente in cerca di rassicurazioni, anche contrapponendosi come una tribù nemica dell’altra.
Sotto tutte le latitudini la gente ha paura. Eppure, nel Nord del mondo, non abbiamo mai visto tempi così sicuri. Zygmunt Bauman, che ha partecipato ai nostri incontri, ha scritto: “La generazione meglio equipaggiata tecnologicamente della storia umana -la nostra- è anche… afflitta come nessun’altra da sensazioni di insicurezza e di impotenza”. Viviamo la “paura della storia” –diceva Mircea Eliade- che spinge a moltiplicare le difese, a fortificare le identità e i propri spazi, ad attaccare, a parlarsi duro.
Anche le religioni rischiano di essere attratte in opere di fortificazione del proprio spazio e dell’identità, preda di nazionalismi o antagonismi. L’autoreferenzialità delle religioni, chiuse nei recinti, è il sonno dello spirito. Ciò avviene mentre sono in crisi i progetti sull’unità o sulla comunità tra i popoli; si sono attutite le tensioni unitive tra le comunità religiose. Si afferma la prevalenza realista dell’io o del noi circoscritto.
In questi anni, lo Spirito di Assisi, controcorrente, ha puntualmente chiamato a incontrarsi, ha smascherato il fanatismo, affermando che la guerra nel nome della religione è guerra alla religione. Lo Spirito di Assisi chiama ad uscire dalle mura. E’ utile in questo mondo bellicoso? In realtà gli scontri verbali pongono le premesse di antagonismi reali; si caricano gli arsenali mentre si tengono discorsi minacciosi. Non c’è egemonia che tenga insieme un mondo frammentario e complesso. La governance mondiale è lontana.
Eppure c’è bisogno di una visione globale ed ecumenica per vivere, respirare, fare pace e stare in pace: è la coscienza che tutti –donne e uomini, popoli- formiamo un’unica umanità. Le religioni, in un mondo spaventato, diviso e arrabbiato, sono un soffio sereno che alimenta la coscienza del destino comune tra i popoli. Insegnano che gli uomini compiono un grande viaggio verso un destino comune. Lo dicono in tanti modi e diverse lingue spirituali. E’ coscienza basilare, semplice come il pane e necessaria come l’acqua, solida e rasserenante.
Un destino comune nella diversità: "Tutti parenti, tutti differenti" -diceva l'antropologa Germaine Tillion, scampata dal lager nazista, dopo tanto soffrire. Purtroppo, talvolta, la coscienza di comune umanità si perde nell’intrico degli odi e degli interessi, nelle distanze, nelle tortuosità quotidiane, nelle propagande urlate, nei fanatismi, nelle logiche dell’odio. Non si riconosce l’umanità dell’altro. Risorgono disprezzi antichi appena riverniciati, come i nazionalismi che sembravano sepolti o i discorsi sulla razza.
Kapuscinski, con l’esperienza del viaggiatore di mondi, scrive: “ogni volta che l’uomo si è incontrato con l’altro, ha sempre avuto davanti a sé tre possibilità di scelta: fargli guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo”. Per questo, bisogna ravvivare l’arte del dialogo per consolidare il senso del destino comune, via e base della pace e della convivenza. L’arte del dialogo è un parlare vero e pacifico, nutrito di incontri; non aggredirsi usando le parole come armi: avvicina, rispetta e evidenzia quanto è comune. L’arte del dialogo -insiste Bauman- è “qualcosa con cui l’umanità deve confrontarsi più di qualunque altra cosa, perché l’alternativa è troppo orribile…”. L’alternativa è la guerra o un mondo buio di odio! Quel mondo, che non conosce da anni le guerre (guardando da lontano quelle altrui), non ha più l’acuta sensibilità di capire come, in pochi passi, si possa scivolare nel perfido tunnel del conflitto. Bisogna riprendere a vigilare!
Con il dialogo si ricuciono i frantumi del mondo, atomi pericolosi e ponti rotti. Uno spirituale del Novecento, Paolo VI, oggi canonizzato, affermava: “Ecco… l’origine trascendente del dialogo… nell’intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime nel dialogo tale rapporto”. L’uomo religioso è chi dialoga.
Le religioni, nella loro sapienza millenaria, levigate dalla preghiera e dal contatto con il soffrire degli uomini sono laboratori di umanità. Sono organismi vivi: raccolgono e ascoltano gli aneliti dell’uomo e della donna. Non ideologie, ma comunità radicate nelle terre, vicine al dolore, alla gioia e al sudore delle persone, capaci di accoglierne il respiro. Ho visto la preghiera di tanti disperati in luoghi di dolore o nei viaggi terribili dei profughi.
Dal fondo della loro tradizione, per sentieri diversi, le religioni educano al dialogo come trascendenza di sé nella preghiera che si apre all’incontro: eppure i nuovi fondamentalismi vogliono spogliare le religioni del legame profondo e stratificato con la cultura, deculturarle per ridurle ad armi contundenti o a ideologie. Invece le religioni sono anche culture stratificate di popoli: combattono l’ignoranza, anche quando si fa passare per santa, le semplificazioni fanatiche, ricordando la comune umanità, voluta da Dio. Diceva tanti anni fa, un grande compagno del nostro cammino:
“Ogni religione quando esprime il meglio di sé tende alla pace. Siamo consapevoli che la religione in se stessa è una forza debole. E’ aliena dalle armi, dal denaro, dal potere politico… Ma possiede la forza dello spirito che può renderla forte, invincibile e finalmente vittoriosa”.
Per questo è tanto opportuno il richiamo a tornare donne e uomini interiori, come diceva mons. Zuppi. Ne abbiamo tutti bisogno e ne ha bisogno il mondo. Affermava un uomo di Dio, qui a Bologna, Giuseppe Dossetti parecchi anni fa: “la partenza indispensabile oggi mi sembra dichiarare e perseguire lealmente -in tanto baccanale dell’esteriore- l’assoluto primato della interiorità, dell’uomo interiore”.
Le religioni possono rianimare i cantieri dell’unità della famiglia umana, rinvigorire le tensioni unitive, proporre una lingua pacifica. Questo è il senso del nostro incontro.
“Le religioni, oggi più che in passato, devono comprendere la loro responsabilità di lavorare per l’unità della famiglia umana” –diceva Giovanni Paolo II. Religioni e culture possono rianimare questa coscienza vitale, da diffondere tra tutti, nella predicazione e nell’educazione. Non è qualcosa di accademico, ma è semplice come la fede: “Siate semplici con intelligenza!” –insegnava il grande Giovanni Crisostomo.
Sono grato a Bologna che ospita questo incontro. Grato ai tanti volontari che hanno partecipato all’organizzazione di questo convegno generosamente. Ringrazio quanti si sono fatti partecipi del dialogo e della preghiera: è il segno di un orizzonte comune d’unità in cui brillano luci diverse. Un compagno del nostro cammino dal 1987, il card. Carlo Maria Martini, scomparso da anni, -un nome benedetto- chiudeva così il meeting di Milano nel 1993:
“…dall’incontro dei diversi percorsi religiosi viene un grande aiuto per muoversi in maniera meno ripiegata su se stessi, più capaci di cogliere la complessità della vita e del mondo. Si diviene più capaci di cercare, assieme, le soluzioni per i conflitti impossibili… Non c’è futuro nella guerra… Non c’è speranza che le guerre tacciano senza il cambiamento del cuore dell’uomo. Non c’è forza più potente della debolezza della preghiera”.
La preghiera fianco a fianco, senza negare le differenze, il dialogo e l’incontro, come qui a Bologna, manifestano che il futuro vive nel legame tra gli umili cercatori di pace, ovunque realizzabile; che la pace è possibile ed è al fondo di ogni religione, perché è il bel nome di Dio.
Non ci possiamo appiattire sul realismo rapido delle notizie, talvolta cattive o false, facendoci prendere dal pessimismo, dall’emotività o dal senso d’irrilevanza di fronte a una confusione o a un male soverchianti. Il pessimismo è un consigliere di morte. L’uomo e la donna di preghiera sanno che il mondo non è consegnato al male, ma sarà liberato perché Dio non l’ha abbandonato. Costruire ponti di pace, anche di fronte a correnti contrarie, non rassegnarci ai muri e agli abissi, significa credere che molto, che tutto può cambiare.
Vorrei chiudere con le parole di papa Francesco nel trentesimo anniversario di Assisi:
“Noi qui, insieme e in pace, crediamo e speriamo in un mondo fraterno… Il nostro futuro è vivere insieme. Per questo siamo chiamati a liberarci dai pesanti fardelli della diffidenza, dei fondamentalismi e dell’odio. I credenti siano artigiani di pace nell’invocazione a Dio e nell’azione per l’uomo! E noi, come Capi religiosi, siamo tenuti a essere solidi ponti di dialogo, mediatori creativi di pace.”