Illustri partecipanti,
innanzitutto vorrei porgervi il più cordiale saluto dall’Alma Civitas di Atene e dalla Chiesa di Grecia insieme alla benedizione del nostro Primate, sua Beatitudine Hieronymos II, arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia.
E’ davvero un grande onore e fonte di gioia aver avuto il privilegio dell’invito a parlare in questa conferenza su un tema così decisivo come quello dei migranti e dei rifugiati. Ringrazio la Comunità di Sant’Egidio che ha organizzato questo incontro così opportuno e ha raccolto qui partecipanti veramente qualificati.
Vorrei salutare, inoltre, con affetto fraterno e stima l’arcidiocesi di Bologna e sua eccellenza l’arcivescovo Mons. Matteo Zuppi, successore di San Petronio. Sono molto onorato di essere in questa città stupenda, una delle città italiane più belle e singolari. Conoscevo indubbiamente la fama di Bologna ‘la dotta’ poiché ospita la più antica università del mondo occidentale.
Le migrazioni non sono certo un fenomeno sociale recente, anzi sono state parte della storia umana sin dai suoi albori. Le popolazioni migravano da un luogo all’altro, a volte in modo massiccio, dall’Est all’Ovest o viceversa. Negli ultimi 25 anni possiamo, tuttavia, osservare un flusso di migranti e rifugiati sempre maggiore che parte dalle nazioni povere e politicamente in difficoltà e si dirige verso i paesi ricchi e sviluppati. E’ un fenomeno che talvolta provoca tensioni sociali e economiche, instabilità politica.
Le migrazioni sono certamente una questione globale con vari aspetti, difficili e complessi, sui quali si concentrano sia l’attenzione della società che la ricerca scientifica. L’attuale crisi dei migranti e dei rifugiati, sicuramente a causa della congiuntura internazionale predominante, è divenuta uno dei più grossi drammi del nostro tempo. Alcuni stati europei considerano l’intera questione delle migrazioni come un problema di sicurezza interna e esterna, affrontandola con strategie per sopprimerla e limitarla. Questa ‘ricetta’ è, tuttavia, con buona probabilità condannata al fallimento.
Congiuntamente alla grave crisi economica e sociale, in particolare sul versante sud dell’Unione Europea, i rifugiati e i migranti che arrivano sono diventati una componente fondamentale della “questione sociale europea” complessiva.
Di fronte a questa situazione problematica che riguarda l’essenza stessa della nostra società, la Chiesa di Cristo non può e non deve rimanere passiva e senza far nulla. Proprio per la sua vocazione, la Chiesa non può restare indifferente davanti a nessuna questione sociale del nostro tempo. Consapevole della sua missione a servizio degli esseri umani, creati a immagine e somiglianza di Dio, la Chiesa è tenuta a sostenere la dignità dell’uomo e il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.
La Chiesa essendo “il corpo del Verbo di Dio incarnato” ha sentito e compreso le domande della società ed è intervenuta attivamente sviluppando una preziosa opera di carità, frutto della sua prioritaria missione spirituale che è portare la salvezza all’umanità.
La Chiesa deve lottare per la giustizia e essere fedele alla promessa del Signore che ha detto “venite a me voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. ”
La Bibbia contiene la Parola di Dio che è sempre parola opportuna e efficace sia come fonte di “giudizio” che come “salvezza”. Come ‘giudizio’ il Vangelo ci guida a uno spirito di autocritica, introspezione, discernimento di sé e metanoia, mentre come ‘salvezza’ ci porta il messaggio gioioso della salvezza che deriva dalla croce e dalla resurrezione del Signore nostro Gesù Cristo, la sua vittoria sulla morte e sulla corruzione.
In tale prospettiva, l’intera questione delle migrazioni e della condizione dell’essere profughi non poteva essere tralasciata nelle storiche risoluzioni del Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa che si è riunito a Creta su invito e sotto la presidenza di sua Beatitudine il Patriarca ecumenico di Costantinopoli nel suo ruolo di Primus della Chiesa ortodossa. Nel paragrafo 19 della Lettera Enciclica, il Santo e Grande Concilio ha definito in termini teologici chiari l’approccio comune che le Chiese ortodosse locali e i nostri fedeli devono adottare riguardo a questo problema; leggiamo:
“l’attuale crisi dei profughi e dei migranti dovuta a cause politiche, economiche e ambientali che sta divenendo sempre più acuta, è al centro dell’attenzione mondiale. La Chiesa Ortodossa ha sempre considerato, e continua a considerare, quelli che sono perseguitati, in pericolo o nel bisogno secondo l’insegnamento delle parole del Signore: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.” (Mt 25, 35-36) e “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.” (Mt 25, 40). Nel corso della sua storia la Chiesa è sempre stata dalla parte degli “affaticati e oppressi” (cfr Mt 11,28). Mai l’opera filantropica della Chiesa si è limitata solamente a opere buone circostanziate verso i bisognosi e i sofferenti, piuttosto ha sempre cercato di rimuovere le cause dei problemi sociali. Il “ministero” (Ef 4,12) della chiesa è riconosciuto da tutti.
Ci appelliamo dunque prima di tutto a quelli che possono rimuovere le cause che creano la crisi dei profughi affinché prendano decisioni necessarie e appropriate. Ci appelliamo alle autorità civili, ai fedeli ortodossi e a tutti gli altri cittadini delle nazioni in cui queste persone hanno cercato e continuano a cercare rifugio affinché concedano loro ogni possibile aiuto, anche con i loro propri mezzi insufficienti”
È ovvio che per la Chiesa Ortodossa l’ “altro” chiunque esso sia non è né un nemico, né uno straniero, né un essere anonimo. L’ “altro”, anche nel momento più tragico della sua esistenza, rimane l’immagine unica e irrepetibile di Dio, una persona per cui Cristo ha donato il suo sangue, l’ “altro” è nostro fratello, il ‘topos’ (il ‘locum’) dove possiamo incontrare Cristo stesso.
San Giovanni Crisostomo, Arcivescovo di Costantinopoli, padre e dottore universale della Chiesa, dice “non disprezzo nessuno, anche se è uno solo, è una creatura umana, una creatura vivente che sta a cuore a Dio. Anche se è uno schiavo, non posso disprezzarlo, non sono interessato alla sua classe sociale, ma alla sua virtù, non alla sua condizione di signore o di schiavo, ma alla sua anima… perché faccio questo elenco? Perché l’unico Figlio di Dio è divenuto uomo per tutti”
È emblematico quanto afferma Paolo, l’apostolo delle genti, rivolgendosi ai Galati “Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). Ci ricorda che riconoscere l’eguaglianza di tutte le persone ha il suo vero fondamento in Cristo e che l’unità della razza umana è divenuta realtà grazie all’incarnazione del Verbo.
Non dimentichiamo che la seconda persona della Santa e Divina Trinità, il Figlio e Verbo di Dio Padre, è il “migrante e profugo” per eccellenza, il Figlio che iniziò la sua vita terrena come profugo quando la Sacra Famiglia dovette rifugiarsi in Egitto per sfuggire la collera del Re Erode” (Mt 2, 13-15).
Cristo non solo “migra” per amore verso le due altre persone della Una e Santa Trinità ma è anche “migrato” verso il mondo con la sua incarnazione. Il Verbo non ha visitato l’umanità mantenendosi a distanza, ma è divenuto il “topos”, il luogo per eccellenza di amore per ognuno di noi, una vocazione per i cristiani a essere un “locum” di amore. Divenne vero uomo al punto di accettare la morte. Venne per rompere la logica dell’esclusività di un popolo eletto e visse percorrendo strade e città, senza una dimora, accettando che qualsiasi luogo fosse la sua casa.
L’altro diventa, dunque, la nostra salvezza; la possibilità di entrare nel Regno di Dio dipende dal rapporto che sappiamo creare e mantenere con lui.
Cristo ci ha insegnato che l’unico criterio valido per essere suoi discepoli e membri della sua Chiesa è l’amore. Ci ha anche insegnato che come cristiani dobbiamo sentire l’urgenza di amare i nostri fratelli, specialmente quelli nel bisogno e in pericolo, i rifugiati, i migranti, gli “stranieri” sono quelli che dobbiamo raccogliere e di cui dobbiamo preoccuparci Perché “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato.” Questo ha fatto il Signore, ha portato unità, ha appianato “le differenze” abbattendo “i muri di inimicizia” e costruendo “ponti di pace e di amore”.
Mentre discutiamo di unità, dobbiamo domandarci in che modo sia praticabile tra popoli differenti. Qual è il nostro ruolo, il ruolo della Chiesa? Quali sono le nostre responsabilità e che tipo di unità stiamo cercando di costruire in mezzo alle tante tragedie che ci circondano? Quale tipo di unità può esistere tra i ricchi e i poveri? Tra credenti e non credenti? Tra coloro che risiedono in un luogo e gli stranieri? Tra coloro che offrono e accettano e coloro che non vogliono accettare o che non hanno intenzione di offrire nulla?
Veramente l’unità appare irraggiungibile. Non c’è né un unico metodo né un’unica risposta giusta per tutte le domande poste fini qui. Non esiste una chiave che possa aprire tutte le porte. C’è solo un’unica fonte d’ispirazione, Cristo stesso. Siamo chiamati ad imitarlo. L’unico modo che la Chiesa ha per aprirsi al mondo esterno, a tutte le persone e in tutte le circostanze è l’agape, la caritas, l’assistenza reciproca, la solidarietà e la cooperazione. Non l’imposizione, la proibizione, il limitare e ridurre la dignità umana.
In questo spirito, sviluppare in modo stabile un rapporto di cooperazione genuino, sincero e cordiale e di reciproca comprensione tra i cristiani per affrontare i problemi critici del nostro tempo, quali l’attuale crisi dei migranti, è indubbiamente un’assoluta necessità e una sfida originale per la nostra generazione e per le nostre Chiese.
Le Chiese Cristiane tramite la loro comune missione per il Vangelo possono esprimere i valori della fede cristiana e allo stesso tempo influire in termini dinamici nello sviluppo della civiltà europea. Possono affrontare in maniera decisiva e non fatalista tutte le sfide del mondo contemporaneo diventando degli artefici e dedicando la loro attenzione su ogni persona indipendentemente dalle discriminazioni linguistiche, tribali, nazionali, sociali, economiche o religiose. Grazie!