Condividi su

Tarek Mitri

Rettore, Università San Giorgio di Beirut, Libano
 biografia
Incertezza e paura sono molto diffuse nel mondo arabo e stanno drammaticamente modellando le vite dei cristiani. Conflitti armati, insicurezza e la crescente influenza di gruppi islamici radicalizzati stanno esacerbando i problemi sociali. Garantire il rispetto della legge, dei diritti umani, una maggior partecipazione politica restano speranze non realizzate, un traguardo distante o un orizzonte più cupo. L’emigrazione dalla regione, soprattutto quella dei cristiani, e il ritiro dalla vita pubblica rivelano un senso di abbandono e impotenza. La paura aumenta per il propagarsi e talvolta per la re-invenzione dell’odio. E’ resa generale attraverso l’ostentazione di atti criminali, minacce e sinistre predizioni.
 
Sette anni fa, trasformazioni radicali e impreviste sembrarono inaugurare una transizione alla democrazia. Insuccessi e delusioni mettono in guardia contro un’accelerazione della storia e oscurano il futuro. I realisti colgono l’instabilità. I cinici prevedono una continua discesa nel caos. Comunque sia, le preoccupazioni di oggi attraversano gruppi etnici e comunità religiose. Tuttavia esse potrebbero essere distinte, anche se non separate. In particolare, la previsione dei Cristiani sul loro immediato futuro è offuscata dalla loro percezione dell’islamismo, visto come irresistibile. Alcuni sono tentati di vedere nel radicalismo islamico un’espressione autentica, anche se eccessiva, dell’Islam stesso. Ogni risorgenza dell’Islam – essi affermano – è un passo indietro e comporta la sottomissione dei cristiani. Essi non sono sufficientemente attenti alla diversità all’interno della comunità musulmana e non conoscono la profondità delle contraddizioni che la dividono. Essi constatano che i movimenti radicali sono capaci di produrre molto male, anche se non sono sufficientemente forti da determinare, radicalmente e rapidamente, trasformazioni sociali e politiche. Inoltre, essi mettono in discussione il silenzio di molti musulmani moderati o la loro incapacità di fronteggiare quei correligionari che essi condannano per la loro crudeltà e per la loro comprensione anacronistica dell’Islam. 
 
Inoltre, un certo numero di cristiani ha dato ascolto ai moniti dei loro governanti: l’alternativa ai regimi dittatoriali è il radicalismo islamico.  Recettivi a questo discorso allarmistico o soccombenti alle pressioni, essi erano inclini a pensare che la stabilità garantisse la loro sopravvivenza come minoranze, mentre le sollevazioni popolari portassero il rischio di una instabilità senza fine. Temendo la minaccia alla loro condizione di marginalità, alcuni di loro si sono ritirati in un’auto marginalizzazione. All’opposto, troviamo cristiani in cui le personali preoccupazioni e apprensioni non hanno offuscato il loro impegno per la libertà di tutti, per diritti umani imprescindibili e per la partecipazione politica democratica, per quanto questi obiettivi sembrino difficili da raggiungere. 
 
In qualche misura, entrambi questi atteggiamenti hanno polarizzato i cristiani lungo tutta la storia recente, fin dalla caduta dell’ordine politico e giuridico ottomano. Ci furono epoche in cui la coscienza centrata sull’essere minoranza venne messa in discussione da coloro che cercavano di   liberarsi del loro status di minoranza e promuovevano azioni inclusive che superassero l’ambito della loro comunità. Ci furono momenti in cui fu possibile scambiarsi queste due opinioni e anche riconciliarle e in cui i loro proponenti dialogavano all’interno delle singole chiese o in corpi ecumenici.
 
Molti cristiani, inclusi coloro per i quali le ferite della storia esacerbavano il senso di comunità, affermavano e rivendicavano il grande ruolo dei loro padri nel risveglio arabo dell’inizio del XX secolo e nella ricerca ininterrotta di identità inclusive. Il ruolo dei cristiani nella formazione di un nuovo ordine sociale e politico superava di gran lunga quello che la loro consistenza numerica normalmente poteva comportare. L’influenza sproporzionata dei cristiani nel passato potrebbe spiegare, anche se solo parzialmente, perché le promesse del passato fossero, col senno di poi, più ambiziose di quanto poi fosse possibile realizzare nella storia successiva. Inoltre, la giustificata delusione di molti ha preparato la strada, secondo alcuni, ad un’amara ritirata in un conservatorismo di preservazione.
 
Alla fine del XX secolo, fu quasi generale la disillusione dei popoli arabi, provocata dai fallimenti sia dei governi nazionali sia dei movimenti. In particolare, per i cristiani questo sentimento fu permeato di ansia, derivante dagli effetti del loro calo numerico, dall’accumularsi di difficoltà economiche, dalla ridotta partecipazione politica e dall’angoscia di fronte al crescente islamismo. Tuttavia, l’ansia particolare della comunità cristiana è vissuta ed espressa anche da un considerevole numero di musulmani che riconoscono che, mentre i cristiani hanno le loro ragioni per essere preoccupati, le loro difficoltà riflettono problemi della società nel suo complesso. Per la maggior parte delle persone, sono in gioco non le relazioni tra maggioranza musulmana e minoranza cristiana, ma la giustizia, la partecipazione politica, i diritti umani e le libertà pubbliche. 
 
Cristiani timorosi non sono immuni dal rischio di amalgamazione. Ogni risorgenza dell’Islam è un passo indietro e porterà alla sottomissione dei Cristiani in uno stato di dhimmi.  Essi sono consapevoli che i movimenti di auto-affermazione nel nome dell’Islam prima e dopo le primavere arabe, si sono nutriti di sentimenti anti cristiani, motivati non solo dalla loro visione manichea della fede o dalla loro concezione di uno stato islamico, ma anche perché essi incolpano i Cristiani di associazione. Non importa quanto queste percezioni siano opinabili, ci saranno sempre persone che non possono o non osano opporsi a coloro che li fanno arrabbiare. Cercano sostituti e spesso li trovano nei loro vicini cristiani. 
 
Sembra quindi più difficile di prima evitare l’errore di concepire e comprendere l’islamismo come un tutto indifferenziato. Comprensibilmente, le vittime del fanatismo e quelli che si ritirano in difesa in un atteggiamento minoritario, hanno poca voglia di differenziazione, distinzioni o sottigliezze.
 
Tuttavia, i leader cristiani e gli intellettuali hanno un obbligo morale e possiedono gli strumenti intellettuali per comprendere e riconoscere la resistenza di molti dei loro compatrioti musulmani alla tendenza egemonica di quello che spesso viene chiamato l’Islam politico. Per molti anni, e per l’esattezza dalla fine degli anni ’70, dopo il trionfo della rivoluzione islamica in Iran e l’emergere di simili fenomeni di rivendicazione nel nome delle religioni, la categoria del fondamentalismo islamico è stata indiscriminatamente usata per caratterizzare una varietà di movimenti politici e religiosi. Agli occhi occidentali, quello era un modo per rendere universale un concetto protestante originariamente definito da un’adesione alla lettera delle scritture e dalla ferma convinzione della loro infallibilità. Le realtà del mondo musulmano richiedevano maggior attenzione alle necessarie distinzioni. I musulmani tradizionalisti, la maggioranza religiosa conservatrice, come viene spesso indicata, accetta, spesso passivamente, un’interpretazione letterale del Corano, la parola increata di Dio affermata dall’ortodossia islamica. Un sedicente risveglio o revival islamico venne portato avanti da due differenti gruppi di musulmani: i militanti della Fratellanza musulmana e i Quietisti salafiti. I primi erano concentrati sul potere statale e la legittimità che deriva dall’applicazione della legge data la Dio, al Shari’ a. I secondi erano politicamente più tranquilli e sostenitori del ritorno all’Islam primitivo attraverso l’imitazione dei padri. Il dissenso tra questi due gruppi ha dato origine a gruppi radicali, organizzazioni jiadiste, come sono spesso chiamate, il cui obiettivo principale è scatenare una guerra santa, jihad, contro gli infedeli, sia non musulmani sia musulmani. 
 
In questa luce, il termine fondamentalismo, orgogliosamente applicato da un gruppo di Americani protestanti negli anni ’20, non potrebbe essere facilmente esteso a forze religiose e politiche in altre regioni e paesi. Tuttavia, occorre ammettere che il termine elude una precisa definizione e sta diventando difficile da evitare. Invece di annacquare il termine, sarebbe sensato dargli una varietà di definizioni che ci aiuterebbero a cercare maggior chiarezza nella spiegazione delle diverse realtà religiose e sociali.  Comunque sia, resta vero che ci sono molti caratteri, comuni a diversi gruppi in diverse società, che sono associati al fondamentalismo. I movimenti fondamentalisti sono sempre reattivi o reazionari. Agiscono, come una comunità assediata, sulla base di minacce percepite e spesso esagerate. Sono selettivi nel rivendicare ed esaltare un certo numero di periodi ed eventi fondanti del passato, in modi che stimolino la formazione di movimenti di massa e la mobilitazione. Si preoccupano di definire confini per attrarre le persone e soddisfare la loro ricerca di distinzione, nutrendo al tempo stesso il loro sospetto o ostilità ei confronti di coloro che vedono come diversi.  I loro nemici sono ovunque il relativismo e il pluralismo. Reagiscono ad impulsi conservatori in risposta a quello che si pensa eroda o indebolisca la loro identità. Gran parte dei fondamentalisti nel mondo arabo si associano a forme selettive di conservatorismo o tradizionalismo.  Al tempo stesso, sono movimenti moderni, non importa se sono presentati come patologie della modernità. 
 
Sette anni fa, sono iniziate le primavere arabe, in modo imprevisto, trasformazioni in una regione che sembrava refrattaria al cambiamento. Per qualche tempo aspettative e speranze hanno elettrizzato un gran numero di persone, giovani e non. La delusione di oggi, sebbene comprensibile, è spesso affrettata e in parte voluta. Serve lo scopo di giustificare i tentativi di rovesciare la transizione, sviare il suo corso, e ritirarsi su identità politiche difensive e reazionarie. Strutture nazionali precarie e la conseguente fragilità della coesione e identità nazionale, ulteriormente esacerbate dal rapido e imprevisto crollo del vecchio ordine, hanno favorito una tendenza ad accentuare i legami primordiali rispetto a quelli civici, che sono costitutivi di una moderna società democratica. Non si possono ignorare la rinascita o re-invenzione delle identità sub-nazionali e le forze centrifughe che operano in molti paesi arabi. Molti membri di comunità, non solo minoranze religiose, sembrano aver perso la loro aspirazione ad uno stato unico per tutti. Alcuni chiedono una struttura di potere che li protegga da un’altra comunità. Stati indeboliti e strategie politiche ed elettorali di mobilitazione accentuano il senso di appartenenza ad una comunità ed incoraggiano l’emergere di narrazioni vittimistiche, emozionali e aggressive. Nel corso del XX secolo, i Cristiani hanno lottato per affermarsi ed essere riconosciuti come cittadini. Ma molti si sono ritirati in comunità centrate sul loro essere minoranza. Molti leaders nella regione fanno poco più che attingere al senso di persecuzione delle comunità senza offrire alternative alla paura e all’incertezza. Molti sono vittime, ma le minoranze etniche e religiose, inclusi i cristiani, rivendicano una condizione straordinaria di vittime. 
 
I leader delle chiese cercano di accompagnare i loro fedeli lungo un cammino difficile. Nel corso della loro storia recente, hanno evitato di porre troppo l’accento sulla militanza di minoranza e sull’identità politica. La nozione di presenza cristiana era il loro antidoto sia al comunitarismo aggressivo sia al ritiro dalla vita pubblica. Allo stesso modo, il ruolo delle istituzioni della Chiesa era definito non solo in termini delle loro funzioni di preservazione ma dall’imperativo fondato nel Vangelo di testimonianza e di servizio al prossimo. Le Chiese non hanno mai concepito cristiani e musulmani come due blocchi monolitici uno di fronte all’altro, e non hanno mai contrapposto i diritti della minoranza alle aspirazioni della maggioranza.  
 
Non occorre dire, tuttavia, che il futuro dei cristiani nel mondo arabo non dipende solo da loro ma anche dai musulmani e dalla capacità di tutti di ricostruire stati basati sulla cittadinanza e sul rispetto della legge, riconoscendo la ricchezza di quel pluralismo religioso e culturale che potrebbe risparmiare al mondo arabo il volto triste dell’uniformità. 
 
Concludo accennando al significato di essere chiamati e chiamarsi minoranza. Il concetto è carico di forti tinte storiche. Per alcuni evoca cospirazioni, manipolazione da parte di poteri stranieri e sovversione del ruolo della maggioranza.  Per altri è associato a protezione e diritti religiosi e culturali. Nei tempi moderni, i cristiani hanno imparato ad affermare la loro consapevolezza di essere cittadini e non minoranze. Rovesciare questo processo, nelle parole e nei fatti, è arrendersi alle forze della reazione. Certo, viviamo in tempi di sofferenza, paura e incertezza. Ma sono anche tempi di cambiamento. I cristiani non sono solo vittime che piangono il loro dramma, ma sono ancora chiamati ad essere attori.