La diversità nella società certamente non è solo quella che differenzia un individuo da un altro. E’ una diversità di categorie: uno o più indicatori caratterizzano e differenziano dei gruppi di esseri umani. Questi indicatori possono riguardare la classe sociale, la razza, la lingua, l’appartenenza religiosa, il genere, lo statuto giuridico ecc.… Possono essere imposti, assunti o scelti.
Ogni società definisce ciò che la rende quello che è, quindi la diversità che è gestibile e accettata e, al contrario, la differenza che esclude l’altro. L’apartheid è una linea di separazione radicale e ben nota: la razza esclude. La società ateniese, da parte sua, faceva della cittadinanza una barriera quasi invalicabile.
Per evitare questo tipo di esclusione, si può definire la diversità di gruppi in termini di complementarietà: per esempio il genere o la questione sociale. La complementarietà integra le donne nella società, ma nel posto in cui la legge e il costume le mantengono: molte società europee nel XIX° secolo avevano leggi restrittive sull’abbigliamento di genere: un uomo non poteva vestirsi da donna in un luogo pubblico e viceversa (la lista delle eccezioni autorizzate conferma la regola e non lo mette in discussione). La questione sociale è stata spesso gestita in termini di complementarietà. Tito Livio riporta nella sua Storia di Roma, l’apologo “delle membra e dello stomaco” pronunciato dal console Menenio Agrippa quando la plebe volle fare la secessione ritirandosi sul Monte Aventino. Il Console paragona la società al corpo umano: le parti sono diverse, adempiono ciascuna a compiti più o meno nobili e sono dunque ineguali, ma soltanto la loro cooperazione assicura la sopravvivenza del corpo fisico o sociale. La complementarietà ha la meglio sulla conflittualità. E’ un approccio che si ritroverà sia nella democrazia sociale che nella dottrina sociale della Chiesa. (Al contrario la teoria della lotta di classe afferma l’impossibilità del compromesso tra borghesia e proletariato, tra plebe e patriziato. La diversità è pensabile solo in termini di individuo ma non di classe).
Ma questa visione in termini di complementarietà pone il problema dell'uguaglianza. Un operaio e un imprenditore sono uguali? Una donna è uguale a suo marito? Una risposta è la democrazia politica, in cui si definisce un cittadino astratto, che si ritenga voti “nel silenzio delle passioni”, cioè indipendentemente dai determinismi sociali. La democrazia astratta è perfettamente compatibile con una differenziazione radicale della società: la società ateniese o la società americana degli Stati del sud erano democratiche e allo stesso tempo schiaviste. La democrazia europea ha accettato per lungo tempo l’esclusione delle donne dalla cittadinanza. Un gruppo riserva per se stesso la democrazia. Questa non è quindi un universale in sé. Sostenere l’estensione della democrazia come il solo modo per assicurare sia il legame sociale sia l’affermazione della diversità non è abbastanza. La democrazia appare troppo spesso una semplice tecnica che, attraverso il gioco dell’elezione, permetterebbe di far vivere una società sia omogenea che diversificata. Il contratto sociale è un’astrazione, certo necessaria, ma insufficiente.
Poiché l’idea stessa di società presuppone ben più di un contratto tra i suoi membri: presuppone un immaginario condiviso, certo ben al di là di una condivisione di “valori comuni”. La repubblica francese è un buon esempio di questo mito: a partire dalla Rivoluzione francese fino all’interdizione del velo nelle scuole, non c’è mai stato un sistema di valori condivisi nella società francese. Il conflitto tra la Repubblica e la Chiesa cattolica non era soltanto un conflitto politico, opponeva molti valori diversi e in particolare una concezione diversa dell’universalità. La legge sulla laicità del 1905, che ha ratificato la vittoria politica della laicità, ha tuttavia definito quest’ultima come un compromesso fondato sulla libertà religiosa sotto gli occhi dello Stato repubblicano. Se la Repubblica si è costruita il proprio immaginario (cittadinanza e patriottismo), ha organizzato lo spazio in cui altri immaginari (in particolare religiosi) possano esprimersi.
I limiti del modello democratico occidentale moderno consistono nel fatto che questa democrazia astratta ignorava i divari sociali, religiosi, culturali o di genere. Quindi la lotta si è spostata da una richiesta di universalità, nella logica dell’universalismo degli Illuministi, verso la difesa di una democrazia più inclusiva che dovrebbe dare diritti reali a minoranze ignorate o disprezzate. Si sono perciò create due sequenze differenti della gestione della diversità: dapprima la si respinge a vantaggio di un universalismo astratto, poi la si valorizza per farne quasi un valore di tolleranza. In questo senso la lotta antirazzista e la lotta dei femminismi storici dalla fine del XIX° secolo agli anni ’60 si ispirano al modello dell’Illuminismo: ottenere l’uguaglianza, cioè la non considerazione della diversità: interdizione della discriminazione sociale e esigenza dell’abrogazione delle leggi e dei regolamenti che penalizzano le donne (diritto all’aborto, uguaglianza giuridica nell’ambito del matrimonio). In questo senso si potrebbe dire che l’estensione della democrazia permetterebbe di combinare uguaglianza, universalismo (i diritti umani valgono per tutti) e diversità.
Eppure a partire dagli anni ’60 – punto culminante del progresso dei diritti fondati su una uguaglianza universalista – è apparsa un’altra forma di contestazione, che privilegia l’identità piuttosto che l’uguaglianza. Più che chiedere l’uguaglianza delle persone, si difendono le minoranze perché sono diverse. E’ un femminismo che non nega più la differenza sessuale (“Non si nasce donna, lo si diventa” diceva Simone de Beauvoir) ma richiede invece che la femminilità sia riconosciuta nella sua specificità. E’ la richiesta di multiculturalismo, cioè di riconoscere un gruppo perché è diverso, anche nei suoi valori.
Gli anni tra il 1980 e il 2000 vedono quindi lo sviluppo di un movimento di difesa e di promozione delle minoranze, proprio perché diverse e differenti. Quello che appariva come un sistema di valori universali è ormai percepito a sinistra come una nuova forma di dominio (da parte del maschio bianco occidentale), e a destra come la negazione della specificità (e della superiorità) della civiltà occidentale. Ne consegue un paradosso che si è spesso visto nei convegni progressisti: accanto ad uno stand che difende la causa curda o bretone, se ne trova un altro che difende la causa femminista, la causa dei musulmani o il diritto degli omosessuali (mi riferisco per esempio al piazzale dell’università di Berkeley), mentre è ovviamente difficile scorgere un segno di convergenza tra questi movimenti (si può parlare delle donne come di una minoranza? e una minoranza religiosa come può fare sue le rivendicazioni di una minoranza sessuale?). Questo incastro delle minoranze ha dato luogo a frizioni (particolarmente sulla libertà sessuale) e alla moltiplicazione di sottogruppi (per esempio «gay muslims», oppure negli Stati Uniti, lo scivolamento da «blacks» a «discendenti di schiavi», per non includere i nuovi migranti africani o haitiani nella categoria «african american»). Allo stesso modo per la categoria “genere” si vedono emergere dei sottogruppi: LGBT++.
Il dibattito su diversità e universalismo è dunque oggi molto spesso incentrato su questo tema della gestione delle minoranze, che si definiscono sempre più come comunità di scelta (scelgo il mio genere, addirittura la mia razza).
Questo pone un problema: cosa resta dell’universalismo, se non un vago principio di tolleranza, perfettamente compatibile con un’indifferenza all’altro?
La domanda è talmente pressante che il concetto di minoranza si orienta sempre più verso il riferimento a degli indicatori identitari non condivisi, piuttosto che a valori specifici che possano essere discussi e condivisi. Prendiamo per esempio la questione religiosa: non si discute più di etica, e neppure di teologia, ma di identità: scelta di vestiti, prescrizioni alimentari, uso di simboli (che si chiede che vengono protetti dagli altri esigendo di bandire il blasfemo). L’obiezione di coscienza (la difesa della propria integrità religiosa) diventa più importante della solidarietà con gli altri.
Il riferimento all’identità tende a frammentarsi in una ricerca individuale e non nella ricerca di un nuovo collettivo.
Prendiamo due campi apparentemente senza rapporti tra loro: l’abaya (o velo) e il genere. Nei due casi la persona difende la propria scelta come una scelta personale, una costruzione di sé, e rifiuta il rispetto di una norma (religiosa o biologica). Si passa insomma da una rivendicazione collettiva ad un’affermazione individuale. “E’ la mia scelta” è la parola d’ordine oggi. Una cosa interessante nei licei e nelle università in Francia: la tolleranza dei giovani si allarga, ma non come riconoscimento dell’altro quanto piuttosto come indifferenza all’altro: ognuno fa ciò che vuole. L’individualizzazione della differenza non è una vera ricerca di universalismo.
Eppure questa individualizzazione va di pari passo con l’universalismo messo in atto dal neoliberalismo. Quest’ultimo vuole rompere con l’immaginario capitalista delle classi sociali, cioè di comunità relativamente omogenee e date per scontate; il neoliberalismo vede ormai in ogni persona un individuo imprenditore responsabile del proprio destino, il che si accorda molto bene con la cultura dell’individualismo edonistico nata negli anni ’60. Ci troviamo di fronte una forma di individualismo universalista che nega ogni solidarietà collettiva.
Come ritrovare allora un universalismo che faccia anche “comunità”? Purtroppo c’è oggi una tendenza alle «comunità ripiegate», del vivere tra simili, del safe space, non necessariamente ostili all’altro ma autocentrata ed egoista.
Bisogna perciò operare per ricostruire un legame sociale in cui si possano condividere non necessariamente le stesse convinzioni, non sempre gli stessi valori, ma un immaginario di fraternità comune. Ed è ciò che manca oggi.