Signor Presidente della Repubblica,
Cari amici della Comunità di Sant’Egidio,
Eccellenze,
Signore e Signori,
All’inizio di questo secolo, possiamo aver pensato che la battaglia per la pace nel mondo fosse già vinta. Oggi sappiamo che non è stato così e che avremo ancora bisogno di lucidità, di perseveranza e soprattutto di molta inventiva per mettere il futuro fuori pericolo. L’incontro internazionale che si apre oggi a Parigi sostiene questa speranza, la più legittima e decisiva che ci sia.
L’umanità non ha mai avuto a disposizione così tanti strumenti d’azione, ma non ne fa sempre l’uso migliore. Eppure, grazie ai prodigiosi progressi della scienza e della tecnica, si potrebbe porre fine, una volta per tutte, alle calamità che affliggono la nostra specie dall’inizio dei tempi. Ne abbiamo avuto dimostrazione negli ultimi decenni. Tra i due e i tre miliardi di nostri contemporanei sono usciti dalla povertà e dalla marginalità. Essi vivono più a lungo e in migliori condizioni di salute. Hanno accesso al sapere, al tempo libero ed agli strumenti della vita moderna. Tutto questo potrebbe benissimo estendersi all’intera umanità. Nessuna generazione, prima della nostra, avrebbe potuto contemplare una simile prospettiva.
Possiamo a buon diritto provare meraviglia per tutto questo. Ma c’è un àmbito in cui sembriamo aver raggiunto il nostro massimo livello di incompetenza collettiva e in cui dimostriamo ogni giorno la nostra impotenza. Un àmbito tra i tanti, certo, ma tale da mettere in pericolo tutto quello che abbiamo realizzato finora, a tutti i livelli.
Se dovessi additare tale àmbito di incompetenza, direi che si tratta della nostra incapacità di gestire i rapporti tra le diverse componenti dell’umanità. Un’incapacità che si avvera in ognuno dei nostri Paesi, anche nei più avanzati di essi; e che si avvera anche a livello del pianeta, dove i conflitti si moltiplicano e si inaspriscono, dove le relazioni tra le grandi potenze si fanno pessime e dove una nuova corsa agli armamenti è ora cominciata, sotto i nostri occhi.
I meno giovani tra noi si ricordano della disastrosa epoca in cui si temeva che gli arsenali nucleari accumulati dalle super-potenze uscissero dai loro silos per riversare sul mondo un incendio apocalittico. Si era instaurato un equilibrio del terrore, fondato sul fatto che chi avesse cercato di distruggere il proprio avversario sarebbe stato a sua volta distrutto. Ci sono stati degli allarmi, dei timori e alcune lunghe notti di angoscia, ma alla fine la saggezza ha prevalso – o forse bisognerebbe dire, più semplicemente, che la follia suicida non ha prevalso. La guerra fredda è finita senza il reciproco annientamento. Tutta l’umanità ha tirato un immenso sospiro di sollievo.
Questo sollievo sembrava giustificato. Gli arsenali dovevano presto cominciare a ridursi considerevolmente. Quando è caduto il Muro di Berlino, nel mondo c’erano settantacinquemila ogive nucleari. Una serie di accordi ha fatto crollare il loro numero a dodicimila. Alcuni leader ci promettevano già un mondo completamente liberato dalle armi atomiche.
Ma poi, negli ultimissimi anni, la corsa agli armamenti è ripresa e non solo in termini di numero di ogive. Oggi ci si applica a sviluppare la qualità degli armamenti, per renderli più precisi, più efficaci, più gestibili e, soprattutto, molto più veloci. Il termine che ricorre senza sosta nella letteratura specialistica è quello di “ipersonico”. Si parla di missili ipersonici quando questi superano la velocità di 6000 chilometri l’ora, ovvero cinque volte la velocità del suono — “Mach 5” nel linguaggio dell’aeronautica. Il più veloce tra quelli sperimentati negli ultimi anni ha sfiorato Mach 28, ovvero circa trentaquattromila chilometri l’ora. Lanciato da un territorio vicino, da un sottomarino o da un veicolo che gira intorno alla Terra, un missile come questo potrebbe raggiungere il proprio obiettivo in qualche secondo. Evidentemente, le autorità del Paese attaccato non avrebbero il tempo di concertarsi per valutare se e con che mezzi rispondere. La risposta dovrebbe necessariamente essere decisa da un computer. E questo potrebbe essere indotto in errore, o hackerato, o programmato male.
Non ho nessuna passione per gli scenari apocalittici. Per carattere, tendo piuttosto a ricercare ragioni di speranza. Ma in un mondo in cui regna il sacro egoismo, in cui così tante nazioni e comunità fondano la propria coesione sull’odio per l’Altro, in cui le principali potenze si insultano ininterrottamente e si parlano a malapena, tutte le derive diventano plausibili.
E qui non parlo più soltanto di bombe e di missili. Consideriamo le grandi tecnologie di punta che fanno da vettori della prodigiosa metamorfosi conosciuta dal mondo nei nostri giorni. Queste offrono apporti benefici di cui godiamo ogni giorno, nel campo della sanità, nella diffusione del sapere e in mille altri settori. Ma queste stesse tecnologie comportano anche, proprio a causa delle loro immense potenzialità, certi rischi cui dobbiamo fare sempre attenzione.
Nel campo dell’intelligenza artificiale, che ha preso il volo soprattutto negli ultimi quindici anni e le cui promesse sono inaudite, ci sono motivi di inquietudine su cui siamo stati messi in guardia da alcuni di coloro che sono direttamente impegnati in tale rivoluzione – scienziati, imprenditori e pensatori vigili. Essi ci dicono che questa tecnologia potrebbe un giorno sfuggirci di mano, che potrebbe persino trasformarsi in una minaccia esistenziale per la nostra specie, e che forse ci sarebbe bisogno di una moratoria su determinati percorsi di ricerca, in attesa di vederci più chiaro.
Non sono uno specialista dell’argomento e certo non mi azzarderei a dare un parere sull’opportunità di una misura simile. Nondimeno, quel che posso dire, come attento osservatore, è che, se una simile moratoria dovesse rivelarsi necessaria, non vedo proprio da chi né in che modo questa potrebbe essere attuata.
In questa nostra epoca, in cui non esiste alcun ordine mondiale degno di questo nome, in cui ci si dimostra incapaci di fermare le guerre che scoppiano, così come di prevenire quelle che si prospettano, in cui nessuna potenza e nessuna istituzione globale dispone più di un’autorità politica o morale incontestata, non si vede davvero come si potrebbe introdurre una moratoria, se questa si rivelasse un giorno necessaria.
Quel che è vero per l’intelligenza artificiale, è vero anche per molti altri settori di punta, a cominciare dalle bio-tecnologie, che hanno a loro volta conosciuto, negli ultimi anni, una fioritura spettacolare, esemplificata, in occasione della pandemia, dalla stupefacente velocità con cui sono stati realizzati i vaccini. È, quello, un settore che continuerà a conoscere straordinari progressi, ma che comporta, anch’esso, rischi di deriva — che si pensi alle armi batteriologiche, a clonazioni azzardate o a velleità eugenetiche che possono spingersi molto lontano, mostruosamente lontano.
Anche qui, non vorrei accumulare ipotesi allarmistiche. Tuttavia, mi sembra necessario dire, con pacatezza ma anche con gravità, che, tenuto conto del vertiginoso sviluppo delle nostre capacità scientifiche e tecniche (sviluppo destinato necessariamente a proseguire negli anni che verranno), abbiamo bisogno di concepire senza ritardi una modalità di governo globale che sia adatta al nuovo stadio di civiltà materiale cui la nostra specie è ora giunta.
Ahimè, ne siamo lontani, ne siamo molto lontani. Al punto che, se si proponesse domani una minaccia grave, legata ad un conflitto armato, a una deriva tecnologica o agli effetti del cambiamento climatico, saremmo probabilmente incapaci di unire le nostre forze per farvi fronte.
Ma voglio ancora credere che sapremo riprendere il controllo di noi stessi e che vedremo presto emergere un’umanità riconciliata, cosciente di condividere lo stesso pianeta e lo stesso destino, e attenta ad evitare che la carovana umana termini il proprio percorso in un baratro. È giunto il momento di immaginare e di costruire un mondo in cui la pace tornerebbe ad essere possibile.
Grazie per la vostra accoglienza e per la vostra attenzione.