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Marc Lazar

Professore, Sciences Po e LUISS, Francia
 biografia
Dagli anni '90 e ancor di più nel corso di questo primo quarto del nuovo millennio, la letteratura accademica e i media non cessano di analizzare e di evocare la crisi delle democrazie europee. Non è la prima volta. Negli anni Venti, e poi nella decade successiva, queste furono violentemente attaccate dal comunismo, che criticava la democrazia "borghese" al servizio del capitalismo e intendeva instaurare la dittatura del proletariato. Il fascismo e il nazismo disprezzavano la democrazia, la rovesciarono e instaurarono regimi totalitari. Negli anni '60 e '70, un'ondata di protesta si abbatté sull'Europa. A Ovest, alcuni gruppi volevano scatenare una rivoluzione di tipo leninista e fondare un "vero" comunismo. Ma la massa dei contestatori auspicava un ampliamento delle libertà, rivendicava forme di democrazia diretta contro la democrazia rappresentativa, che, nel contempo, attirava coloro che si mobilitavano contro i regimi al potere in Cecoslovacchia e in Polonia.
In effetti, è l'essenza stessa della democrazia quella di nutrire continuamente la propria opposizione. Fondata sui principi di libertà e uguaglianza, essa è regolarmente accusata di non concretizzare la propria promessa. Da qui sorge una domanda essenziale: stiamo attualmente vivendo un nuovo episodio di questa critica ricorrente o assistiamo a un fenomeno in qualche modo inedito? Oggi, la democrazia è in declino in tutto il mondo. Ogni anno, The Economist pubblica un indice della democrazia. Nel 2023, il settimanale britannico ha tracciato un quadro allarmante: meno della metà della popolazione globale vive in una democrazia, e solo il 7,8% in "vere democrazie". La Cina e la Russia criticano costantemente le democrazie, disprezzate e irrise, e si pongono come modelli di potere, ordine, efficienza e successo. Tra gli islamisti, il rifiuto delle democrazie è totale e si accompagna a un odio per i "miscredenti" che si diffonde anche in una parte — minoritaria ma molto attiva e pericolosa — delle comunità musulmane presenti nelle nostre società europee. In Africa, dove la democrazia è debolmente radicata, l'Europa è sempre più severamente messa al bando per il suo passato colonialista che, secondo i critici, smentisce i suoi principi e proclami democratici. Queste accuse si uniscono a quelle avanzate in Europa dalla sinistra radicale e da alcuni settori del mondo accademico, i cui interessanti lavori sul colonialismo e sul post-colonialismo sono talvolta orientati ideologicamente e spesso strumentalizzati politicamente.
Inoltre, le nostre democrazie sono esse stesse destabilizzate. Non semplicemente a causa degli attacchi, spesso provenienti dalla Russia, che si concretizzano in una disinformazione sistematica e un'azione su larga scala sui social media, che hanno peraltro trasformato profondamente i rapporti dei cittadini con l'informazione e la politica. Ma, anche perché sono minate al loro interno. E non solo in Europa. Chi avrebbe potuto immaginare di vedere un giorno negli Stati Uniti le scene del 6 gennaio 2021, con l'assalto al Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump, convinti intimamente che il loro campione avesse vinto le elezioni? Eppure, lo stesso Donald Trump potrebbe essere rieletto nel 2024, nonostante sia ampiamente responsabile dei gravi comportamenti dei suoi sostenitori nel 2021 e sia perseguito dalla giustizia per diverse questioni. E tutto ciò avviene nella più grande democrazia del mondo, che pretende di perseguire una missione universale a favore dell'ideale democratico.
 
Lo stato delle democrazie europee
Qual è quindi lo stato delle democrazie europee? Per rispondere a questa domanda nel modo più concreto possibile, ci concentreremo principalmente su quattro paesi europei: Francia, Germania, Italia e Polonia. I primi tre sono tra i più popolosi dell'Unione europea e furono membri fondatori della Comunità economica europea, mentre l'ultimo è un nuovo arrivato nell'Unione europea ed ha vissuto l'esperienza della dittatura comunista. Le loro storie, istituzioni, i loro sistemi di partiti, le loro culture politiche, i modi di voto e l'organizzazione del rapporto tra Stato e società differiscono ampiamente. Tuttavia, tutti e quattro si trovano di fronte a sfide comparabili, presenti anche nel resto dell'Unione europea. Inoltre, possiamo far riferimento ad un interessante sondaggio, il Barometro della fiducia politica, realizzato ogni anno dal CEVIPOF, un centro di ricerca di Sciences Po. Nel 2024, ha riguardato proprio questi paesi. Per mancanza di tempo, vi risparmio i dettagli dei dati e vi presento i principali risultati.
I quattro paesi sono caratterizzati da una marcata sfiducia politica, che varia leggermente a seconda del contesto nazionale, ma la tendenza generale è chiaramente questa. Sfiducia verso la politica, i governi, i parlamenti nazionali, e il Parlamento europeo. Vi riporto comunque alcuni dati: il 68% dei francesi, il 64% dei polacchi e il 63% degli italiani ritiene che la propria democrazia non funzioni adeguatamente, con una percentuale inferiore per i tedeschi (47%). Una larga maggioranza di polacchi, italiani e francesi afferma che i propri rappresentanti politici siano corrotti, un sentimento condiviso da un tedesco su due. Per l'81% dei francesi, il 77% degli italiani, il 70% dei polacchi e il 66% dei tedeschi, i propri politici non si preoccupano dei cittadini. Infine, l'opinione schiacciante degli abitanti di questi quattro paesi è che i loro rappresentanti politici siano scollegati dalla realtà e si adoperino unicamente per i propri interessi personali.
Tutto ciò spiega in parte l'aumento dell'astensionismo e il voto a favore di partiti contestatari e populisti. Il principio stesso della rappresentanza viene rigettato da intere porzioni della popolazione. I leader politici portano una grande responsabilità in questo rifiuto massivo di cui sono oggetto, e che talvolta si trasforma in avversione, così come nell’apparente disinteresse verso la politica. In effetti, essi sono ben lontani dall’essere esemplari, spesso sembrano ripiegati su sé stessi, costituendo agli occhi dei loro elettori un’oligarchia privilegiata e arrogante.
Il disincanto verso la democrazia ha quindi una profonda radice politica, a cui si aggiungono numerosi fattori sociali. Sebbene il tasso di disoccupazione nell’Unione Europea sia ora inferiore al 6%, la precarizzazione del mercato del lavoro si è diffusa, colpendo in particolare donne, giovani e persone meno istruite e qualificate. Le disuguaglianze di ogni tipo — sociali, di genere, generazionali, territoriali ed educative — si sono ampliate. Tutte le indagini di cui disponiamo mostrano che il deterioramento del potere d’acquisto è divenuto una delle priorità degli europei, insieme all’accesso alla casa, alla protezione sanitaria e alla lotta contro il cambiamento climatico. La democrazia e l’Europa non sembrano più sinonimi di crescita, prosperità, miglioramento del tenore di vita e protezione sociale, come lo erano dagli anni ‘50 fino a cavallo degli anni ‘70-‘80, con differenze a seconda dei paesi e, ancora una volta, con forti disparità sociali. Da qui deriva la preoccupazione per il futuro che gli europei avvertono, così come la diffusione di una sfiducia che non è solo verticale (verso le istituzioni e i loro rappresentanti), ma anche orizzontale. Infatti, il 55% dei tedeschi, il 65% dei francesi, il 66% degli italiani e il 67% dei polacchi concordano con l’affermazione: "non si è mai abbastanza prudenti quando si ha a che fare con gli altri".
Infine, un’interrogazione culturale e identitaria, esasperata da alcuni partiti, scuote le democrazie europee. Questo interrogativo è duplice. Da un lato, come definirsi oggi? Come cittadino di un villaggio, di una città, di una regione, di un paese o dell'Unione Europea? Come conciliare queste diverse appartenenze e identità? Questo smarrimento preoccupa sempre più le nostre società, caratterizzate da un crescente individualismo e dalla difficoltà di costruire una convivenza armoniosa. Dall’altro lato, l’immigrazione e i flussi migratori inquietano gli europei, tanto più che i partiti populisti amplificano tali timori. Il 66% dei tedeschi, il 62% dei francesi, il 52% degli italiani e poco meno di un polacco su due desiderano che il loro paese adotti una politica migratoria più restrittiva. Inoltre, il 65% dei tedeschi, il 61% dei francesi, il 60% degli italiani e oltre la metà dei polacchi ritiene che vi siano troppi immigrati. Questa ostilità è alimentata dalla paura dell'Islam, che molti europei associano all’islamismo radicale e agli attentati che hanno colpito numerosi paesi europei. Una maggioranza di francesi, polacchi, tedeschi e poco meno di un italiano su due considera l'Islam "una minaccia per le nostre istituzioni". La crisi dei due grandi modelli d’integrazione — da un lato, il modello multiculturale, che accetta l’esistenza di comunità differenti, e dall’altro, il modello repubblicano francese, che tollera le diversità nella sfera privata ma esige il rispetto della laicità nello spazio pubblico — alimenta la percezione che l’immigrazione minacci stili di vita considerati tradizionali e atemporali, sebbene questi ultimi siano in realtà in costante evoluzione e arricchiti da apporti esterni.
L'insieme di questi fattori politici, socio-economici e culturali, cui si aggiunge il timore della guerra in corso in Ucraina e il conflitto permanente in Medio Oriente, spiegano l’esasperazione e la rabbia di una larga parte della popolazione, soprattutto tra le fasce meno avvantaggiate e istruite, che vivono principalmente nei comuni rurali, nelle piccole e medie città. Esasperazione e rabbia da cui traggono origine le formazioni populiste, le quali, a loro volta, le accentuano deliberatamente per amplificarle ulteriormente.
Il populismo, per riprendere la definizione proposta da Cas Mudde e Cristóbal Rovira Kaltasser, è una «thin ideology», ossia un'ideologia sottile, che considera la società fondamentalmente divisa in due campi omogenei e antagonistici. Da una parte, il popolo puro, virtuoso, buono; dall’altra, la classe dirigente che costituisce un’élite globalizzata, corrotta e costantemente complottante contro il popolo. Inoltre, il populismo sostiene che la politica è l’espressione della volontà generale, la cui sovranità non dovrebbe incontrare alcun limite. I leader populisti pretendono infatti di incarnare il popolo, e per questo motivo sfruttano pienamente la personalizzazione, la mediatizzazione e la presidenzializzazione della politica. Tuttavia, il populismo è anche una strategia di conquista e, in caso di successo, di gestione del potere, che passa, tra le altre cose, attraverso l’identificazione di nemici e il ricorso alla demagogia, poiché per i populisti non esistono problemi complessi, ma solo soluzioni semplici. Infine, il populismo si configura anche come uno stile, un modo di fare politica che deve necessariamente distinguersi dai politici tradizionali. Tuttavia, il populismo attinge anche a frammenti di ideologie preesistenti alla propria nascita. Per questo motivo esistono populismi di sinistra, molto minoritari in Europa, e soprattutto nazional-populismi di destra. Questi ultimi presentano alcune caratteristiche comuni: il «nativismo», ovvero la preferenza nazionale che porta al rifiuto degli stranieri e degli immigrati e all’ostilità verso l’Islam; il nazionalismo, che sfocia nell'euroscetticismo, se non addirittura nell'eurofobia; una propensione all'autorità, se non all'autoritarismo. I nazional-populisti di destra includono sia partiti di estrema destra, ostili alla democrazia, sia partiti della destra radicale che accettano le regole democratiche ma integrano difficilmente, se non affatto, il liberalismo politico. Questi partiti condividono alcuni punti comuni ma divergono su questioni di politica economica, sociali e di politica internazionale, soprattutto in relazione alla guerra in Ucraina, alla Russia o nel loro atteggiamento verso la NATO e gli Stati Uniti. Nonostante i progressi elettorali ottenuti alle ultime elezioni, al Parlamento Europeo siedono ancora in gruppi diversi.
 
Democrazie in pericolo?
I nazional-populisti di destra rappresentano ormai un fenomeno consolidato. Saldamente radicati nelle nostre società, impongono il loro ritmo, dettano l’agenda politica e mettono i partiti tradizionali sulla difensiva, mentre le loro tematiche, in particolare quelle riguardanti i migranti e l’immigrazione, si diffondono ampiamente. Non costituiscono una malattia della democrazia, ma offrono la prova inconfutabile del profondo disagio democratico.
Tuttavia, tale disagio è ambivalente. Da un lato, secondo il barometro della fiducia politica, quasi un polacco su due, più di un terzo degli italiani, dei tedeschi e dei francesi ritengono che sarebbe molto positivo avere un leader forte che non debba preoccuparsi del Parlamento e delle elezioni. Una piccola minoranza di tedeschi, italiani e polacchi, e persino quasi un francese su quattro, accetta l’idea che l’esercito possa governare il proprio paese. Questa aspirazione all'autorità non significa però una ricerca di autoritarismo, poiché non è un desiderio univoco.
Infatti, emerge con forza anche una richiesta di partecipazione. Il 78% dei polacchi, il 71% dei francesi, il 70% dei tedeschi e il 67% degli italiani ritengono che «la democrazia funzionerebbe meglio se i cittadini fossero coinvolti in modo diretto (petizioni, sorteggio) in tutte le grandi decisioni politiche». Una netta maggioranza di polacchi, italiani, tedeschi e francesi crede che il funzionamento della democrazia migliorerebbe «se le organizzazioni della società civile (associazioni, sindacati) fossero maggiormente coinvolte» in tali decisioni. Inoltre, il 51% dei francesi, il 58% degli italiani, il 72% dei polacchi e il 77% dei tedeschi dichiarano di avere interesse per la politica. Questi dati evidenziano una crescente richiesta di democrazia partecipativa. In realtà, gli europei cercano sia autorità che interazione, la volontà di conciliare il modello «top-down» con quello «bottom-up».
La forza dei nazional-populisti deriva precisamente dal fatto che giocano su entrambi i fronti. Ormai si presentano sia come i garanti per eccellenza del "law and order" sia come i migliori democratici, poiché affermano di esprimere per intero la sovranità popolare. Nei loro programmi, discorsi, nella personalità, nel comportamento e persino nel linguaggio corporeo dei loro leader, associano costantemente riferimenti alla fermezza e proposte di democrazia diretta. Alcuni di loro invocano l’uso sistematico del referendum e una democrazia immediata, cioè gestita senza intermediari e con urgenza.
Se da un lato i nazional-populisti di destra si sono adattati alla democrazia, dall’altro, come già detto, non si sono convertiti al liberalismo politico. Così, in alcuni paesi con scarsa esperienza democratica, come l’Ungheria e la Polonia, essi sfidano le istituzioni democratiche, le sovvertono, riducono al silenzio gli oppositori e soffocano parte delle libertà. Oggi si parla di "democrazia illiberale".
La situazione è diversa nei paesi con un solido radicamento democratico, come ad esempio la Francia e l’Italia. In questi paesi, i nazional-populisti si trovano ad affrontare seri dilemmi quando arrivano al potere: possono mantenere le promesse radicali fatte quando erano all’opposizione o devono fare i conti con la complessità dell’esercizio delle responsabilità?.
Questo porta a una riflessione finale sulla resilienza della democrazia in Europa. A forza di sottolineare, giustamente, i problemi delle nostre democrazie e le loro reali debolezze, tendiamo a dimenticare le loro capacità attrattiva, almeno, ripetiamolo, nei paesi con una democrazia consolidata. Ci si è abituati a insistere su ciò che i nazional-populisti fanno alla democrazia, ma bisogna anche considerare ciò che la democrazia fa ai nazional-populisti. Al momento della Brexit, non solo l'hanno celebrata, ma l'hanno anche proposta come modello da seguire. Oggi, nessuno di loro sostiene più l'uscita dall'Unione Europea, e ancor meno dall'euro, per coloro che operano nella zona della moneta unica. La democrazia, almeno formalmente, è diventata il loro orizzonte insuperabile. Hanno compreso che l'opinione pubblica è legata ai regimi democratici e all'Unione Europea, anche se protesta contro i loro difetti. Che sia puro pragmatismo, opportunismo o un vero processo di acculturazione, il risultato è questo. Così, quando Diritto e Giustizia ha subito la sconfitta elettorale nell’autunno del 2023, non ha imitato Trump. È vero che conta sul Presidente della Repubblica per ostacolare l'azione del governo di Donald Tusk.
Tuttavia, la resilienza non basta per affrontare la sfida populista. Le democrazie europee devono risolvere le questioni economiche e sociali, ma anche quelle ambientali, assicurandosi che le politiche pubbliche volte a combattere il cambiamento climatico non penalizzino i più svantaggiati. Inoltre, è necessario rispondere alle questioni culturali e identitarie, ad esempio regolando i flussi migratori e inventando nuovi modelli di integrazione per gli immigrati. Le democrazie devono anche essere in grado di creare una narrativa nazionale aperao all'Europa. Rifondare ugualmente i valori umanistici di solidarietà e fraternità si impone come esigenza imprescindibile. Dal punto di vista politico, si tratta di avviare un aggiornamento delle istituzioni per renderle più efficaci, più democratiche e così ristabilire la fiducia. Ogni paese ha qui le proprie peculiarità, ma ovunque possono essere sperimentate forme di democrazia partecipativa. Si rivela inoltre fondamentale disporre di classi politiche esemplari, più diversificate nella loro composizione, anche se è impossibile che siano uno specchio perfetto della società, ma aperte ai giovani, alle donne e a una vasta gamma di professioni.
Tuttavia, ci si può porre un interrogativo. Questi sono vasti progetti di rinnovamento. Questo richiede tempo, mentre la pressione populista è forte, così come la sfida posta dai regimi autoritari. Il celebre film di Steven Spielberg "Salvate il soldato Ryan" ci ricorda un'urgenza simile: è la democrazia che dobbiamo salvare. Ed è compito di ogni cittadino.