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Frère Matthew

Priore della Comunità di Taizé, Francia
 biografia
Cito una lettera (di frère Roger): ”La preghiera non ci allontana dalle preoccupazioni del mondo, al contrario, nulla è più responsabile che pregare. Più si vive una preghiera semplice e umile, più siamo portati ad amare e ad esprimerci attraverso la vita”. Il teologo Olivier Clément ha scritto le parole seguenti nel suo libro: “Un senso alla vita: è il nesso tra una esperienza spirituale profonda e una apertura creativa sul mondo”, che è al cuore degli incontri di Taizé che si articolano da diversi anni sul tema: vita interiore e verità umana. È questo cristianesimo che deve essere l’obiettivo, perché più siamo uomini di preghiera, più diventiamo un uomo, una donna responsabili. La preghiera non ci libera dai compiti di questo mondo, ci rende ancor più responsabili. Niente è più responsabile del fatto di pregare: questo davvero bisogna capirlo e farlo capire ai giovani. La preghiera non è un divertimento, non è una specie di droga, ci impegna nel mistero del Padre, nella potenza dello Spirito Santo, intorno a un viso che ci rivela ogni volto e ci rende servitori di tutti i volti”. 
 
Esito nell’andare oltre, sviluppando questo tema in maniera teorica, perché si può magari avere delle buone intenzioni, ma allontanarsi dalla esperienza delle persone che si trovano in situazioni in cui l’odio è dietro l’angolo. La tentazione è di proporre soluzioni facili, sul momento, ma che aumenterebbero nel tempo la sensazione di essere dimenticati, abbandonati e di dover lottare da soli di fronte ad un nemico che invita all’odio.
 
Quindi, vorrei proporvi di ascoltare qualche testimone. Per riprendere le parole di Oliveri Clément, la preghiera ci impegna nel mistero del Padre, che ci dona un volto che ci rivela tutti i volti, ogni volto e ci rende servitori di ogni volto. Cerchiamo di capire questo volto che il viso ci rivela.
 
In visita in Ucraina in maggio, con due dei miei fratelli, un monsignore, al santuario di Zarvanytsia, ci ha detto: “La preghiera apre uno spazio che consente la guarigione”. Queste parole mi hanno molto colpito, perché vengono da un uomo che è costantemente dinanzi al dolore del proprio popolo. Si vede che è nella vita interiore che l’essere benedetto si ricostituisce. 
 
Naturalmente è un processo che non dà risultati immediati, ma che, accompagnato magari da altre metodologie, apre vie sicure per andar oltre a ciò che ci ha fatto male, al di là. Persone che non possono pregare, sapere che ci sono persone che pregano per loro, li aiuta ad andare oltre gli ostacoli rappresentati dalla guerra. A maggio abbiamo visitato questo ucraino, ha detto: “Ho 32 anni, un terzo della mia vita, è stato dedicato alle conversazioni quotidiane, al pensiero e alle preghiere legate alla guerra russo-ucraina. A volte penso che il mio cuore abbia le dimensioni di un pianeta, ha tanto dolore dovuto alle perdite, ma ancor più speranza per un’Ucraina libera. Per favore, pregate per noi, per la nostra libertà”.
 
A Taizé c’era una giovane del Myanmar, che ci ha parlato del suo Paese, del colpo di stato militare del ’21, dei tanti conflitti: 
 
“Molti conflitti sono scoppiati nel Paese, soprattutto nel nord-est del Myanmar, migliaia di case sono state incendiate e delle persone sono state uccise. Il numero di persone sfollate è aumentato notevolmente, così come il numero dele vittime delle mine e di altre violazioni dei diritti umani. Ancora molte persone non hanno tutela e vivono dove gli aiuti umanitari non riescono a raggiungerle. Lavoro per aiutare queste persone. Faccio visita a loro con la mia équipe e ascolto i loro racconti. Non posso far fronte a tutti i loro bisogni, comunque il fatto di essere con loro, di ascoltarli con il mio cuore più profondo, dà loro conforto e sicurezza. Li rassicura. Non ho mai chiesto alcunché ad alcuno, perché Dio mi ha dato in abbondanza tutto ciò di cui ho bisogno, prima ancora che io glielo chiedessi. Aiuto le persone che hanno bisogno di aiuto e ci sono persone che poi vogliono somigliare a me. di cosa dovrei lamentarmi? Dio non ha mai abbandonato il proprio popolo, mantiene sempre le proprie promesse, è sempre lì per ognuno di noi quando abbiamo bisogno di lui. Grazie, perché continuate a pregare per il Myanmar, per i conflitti. Molte persone della città sono spostate in altre città, dove pensavano di essere sicure, ma la mia famiglia è restata in città”.
 
Come può essere che questa giovane donna possa avere un cuore così gioioso e non affogare nell’odio? Perché è la preghiera che la conduce e la apre al suo popolo, per poterlo aiutare in maniera concreta nello stato di conflitto attuale. La preghiera permette di fa fronte alle situazioni più complesse, è un modo per fermare lo scoraggiamento, quando tutto sembra nero.
 
Una madre di famiglia palestinese attualmente in Francia, la cui famiglia è a Gaza, ci ha scritto: “L’amore che porto per i feriti, i fragili, ci dà ancora della forza. Questo mi fa penare al paralitico che viene portato dai suoi amici per la loro fede. La preghiera è anch’essa una maniera di resistere. Per me è importante, ma sono umana e, dopo l’assassinio di due membri della mia famiglia, la rabbia mi a sommersa, ho gridato, ho pianto. Io sapevo comunque che Dio è qui, con la sofferenza, e il conforto ci sostiene, il suo amore fa diminuire questa sofferenza. Sono convinta che sia con noi tutti”.
 
E questa donna, di passaggio a Taizé, è venuta ogni mattina, dicendo:”Prego per trovare la forza di amare piuttosto che odiare”.
 
Le sue parole sono per noi come una sorta di luce, di lampada che illumina il cammino. 
 
Il 7 marzo di quest’anno abbiamo organizzato una marcia per la pace di 33 chilometri, la stessa che separa Israele e Gaza:. 33 chilometri ci ricordano anche i 33 anni che Gesù ha vissuto sulla terra prima di dare la vita per tutti, prima di distruggere l’odio che separava i popoli. E ci siamo ricordati altresì che nella tradizione talmudica in ogni generazione esistono i giusti, che sono nascosti e non sanno nemmeno di essere tra i giusti. La nostra marcia, quindi, si avvicinava a questa cifra.
 
Volevamo ricordare così che Taizè è nato durante la guerra, che gli anni dell’inizio hanno formato la comunità, con l’accoglienza di frère Roger ad alcuni rifugiati -  alcuni erano ebrei; i contatti fra i prigionieri di guerra tedeschi e la loro liberazione. La nostra marcia è andata oltre la linea di demarcazione del ’40, ’42, che separava in Francia la zona libera dalla zona occupata. Quindi, ascoltare testimonianze e per pregare: ci ha permesso di essere vicini alle sorelle e ai fratelli che soffrono a Gaza, agli ostaggi israeliani e alle loro famiglie, al popolo di Myanmar. Le vittime della guerra del Sudan, le persone ucraine che soffrono per loro esistenza. Questo ci ha aiutato a pregare per le persone che, sotto regimi autoritari, militano per la giustizia e la pace.
 
Ogni partecipante alla marcia ha ricevuto un sasso con il nome di una persona che vive in situazioni di conflitto. Siamo stato invitati a portare il nome di  questa persona con noi durante la marcia, a pregare per questa persona. Questo impegno doveva continuare anche dopo la marcia.
 
La marcia è cominciata con questa preghiera, con la quale vorrei terminare: “Dio fedele, Dio pellegrino, tu cammini sempre davanti a noi. Sei presente con noi in tutta questa giornata. Noi che ci mettiamo in cammino tramite la marcia, la preghiera. Noi siamo grati perché tu ci parli attraverso le testimonianze che noi ascolteremo. Apri il nostro cuore perché possiamo sentire il grido degli innocenti che soffrono per le guerre e per le ingiustizie e ricordare tuo figlio Gesù, che porta la pace e che fa di noi dei pellegrini di pace.
 
Grazie