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Elena Malaguti

Pedagogista, Università di Bologna, Italia
 biografia
Introduzione
Buon giorno a tutti e a ciascuno di voi. Ringrazio la Comunità di Sant’Egidio per avermi invitato a questo incontro internazionale che affronta un tema a me molto caro, in particolare riferito ai bambini e alle bambine. 
In qualità di ricercatrice e persona che si occupa di processi educativi, che ha operato in contesti di conflitto armato (come in Bosnia-Erzegovina, Ruanda, Kossovo, Palestina, Italia..) e che lavora con bambini, famiglie, civili, che vivono condizioni di estrema vulnerabilità, fragilità, disabilità e che coopera con molte istituzioni educative, sociali e sanitarie da ormai 30 anni, desidero iniziare chiarendo che la violenza generata dalla guerra è un fenomeno complesso ed eterogeneo per genesi, per difficoltà di rilevazione, per molteplicità di risposte che richiede, a fronte di situazioni che hanno un connotato di tragicità tale da generare morte e distruzione. 
Immaginare la Pace, in primo luogo, significa restare umani impegnandosi a contrastare gli orrori che ogni giorno accadono nel nostro Pianeta trovando strade concrete per rispondere, come adulti, decisori politici, insegnanti, educatori, alle istanze di Pace, di un futuro sostenibile che i giovani ed i bambini richiedono oggi e che stiamo, purtroppo, sistematicamente omettendo di considerare, tradendo, in questo modo, la loro fiducia e perdendo la loro stima.   
In secondo luogo Immaginare la Pace comporta un impegno a rilanciare valori, principi costituzionali a cui far seguire azioni concrete che possano permeare i contesti educativi, formali e informali, per promuovere quella tensione educativa che, almeno in Italia, pare giacere sotto la brace.
In terzo luogo, Immaginare la Pace significa ricordare e ricordarsi, come sanno perfettamente coloro che vivono insieme ai più piccoli, anche con quelli che si trovano in condizioni estreme, che i bambini e le bambine chiedono la Pace perché sono in grado di immaginare e custodire una saggezza interiore che se non lesa e distrutta dalle azioni degli adulti, custodisce in sé il cuore pulsante di un’umanità che desidera vivere in armonia. Nessuno meglio di loro è in grado di insegnare come vivere la pace, come rispettare i diritti come praticare l’arte del gioco. Il punto è che noi adulti chiudiamo il cuore, riduciamo lo sguardo e diventiamo miopi difronte ad istanze di protezione che loro invocano in favore della cultura della performance, della competizione, del rispetto dei confini e della sopraffazione del più forte sul debole.
E’, dunque, opportuno collocare la parola Pace all’interno di cornici culturali chiare per evitare confusioni, per uscire dalle ideologie e perdere le opportunità trasformative che, al contrario, può offrire. 
La parola Pace si pone come fondamento a quelle di equità, diritti, inclusione, il cui humus è costituito da altre parole quali responsabilità — individuale e sociale —, memoria, legalità, cooperazione. La parola Inclusione non può divenire un modo nuovo di dire qualcosa che non produce cambiamenti reali. Essa sottende una realtà disposta ad accogliere le vite di tutte e di tutti senza strutture speciali e progetti straordinari. Per farlo, occorre anche collegare elementi che tra loro possono apparire anche distanti. Inclusione è un diritto di base ed è in relazione con il concetto di «appartenenza». Bambini sopravvissuti alla guerra, rifugiati e persone con disabilità sono nei fondamenti dei processi inclusivi. 
Sono 4, in modo molto sintetico, gli aspetti che intendo porre alla vostra attenzione. 
 
1. Impariamo ad Interrogare i dati
Il rapporto di Save the Children (2023), rivela che più di 8 mila bambini sono morti o sono stati mutilati nel 2021, con una media di 22 al giorno. Sono circa 449 milioni le bambine e i bambini che nel 2021 hanno vissuto in aree in guerra. Di questi, più della metà – circa 230 milioni – si trova nelle zone di conflitto più pericolose, con un aumento del 9% rispetto all'anno precedente. La drammaticità del fenomeno è evidente, perché riguarda un bambino su 6 a livello globale nonostante la rilevazione non includa i milioni di minori della guerra in Ucraina, visto che il conflitto è scoppiato a febbraio del 2022. Le gravi violazioni contro i bambini - che includono il reclutamento, il rapimento, la violenza sessuale, la negazione dell'accesso umanitario, gli attacchi a scuole e ospedali, le uccisioni e le menomazioni - possono avere un impatto profondo sulle loro vite: dal trauma fisico a quello psicologico, a quello culturale, sociale ed educativo, alle disabilità, alle ferite debilitanti o che alterano la vita, fino alla morte. L’uccisione dei bambini significa anche l’annientamento del futuro di quel Paese. Come noto, sempre più spesso i conflitti non contrappongono più gli eserciti di due Paesi nemici, ma fanno intervenire civili contro altri civili armati. La situazione è aggravata dalla distruzione di ospedali e centri sanitari, che nei conflitti assume il carattere di una metodica strategia di guerra. Gli effetti invisibili che la guerra provoca nei bambini non sono affatto meno gravi delle privazioni materiali. La psiche di un bambino può subire ferite incancellabili a seguito di esperienze traumatiche quali un bombardamento, la fuga in preda al panico o la visione di azioni cruente a danno dei propri familiari. Da un punto di vista psicopedagogico gli eventi traumatici più ardui da affrontare sono quelli vissuti da quei bambini e ragazzi che partecipano in prima persona a operazioni di guerra. Dai dati riportati da più fonti accreditate, dalle esperienze di guerra raccolte nelle tante aree coinvolte in conflitti armati, quali Bosnia, Kosovo, Ruanda, Siria, Congo, Mali, Iran, Ucraina, Israele e Palestina, emerge chiaramente come le Dichiarazioni, le leggi e gli accordi internazionali istituiti, alla fine della Seconda guerra mondiale, per proteggere i bambini dalle violenze peggiori che potevano essere commesse contro di loro, rischino di sgretolarsi. Risulta evidente, dunque, che interrogare le cifre, compiere indagini sulle nuove condizioni dei bambini in guerra, che si accostano e si intrecciano alle vecchie, permette di leggere la condizione dei bambini e dei giovani, che vivono in guerra, come un elemento di estrema criticità, fragilità e vulnerabilità di cui dunque, occorre velocemente occuparsi. 
 
2. Impatto delle guerre sui minori
Esiste un’ampia letteratura che documenta gli effetti degli eventi traumatici precoci sullo sviluppo e sul funzionamento psicologico degli individui. L’impatto della violenza come quella generata dalla guerra, che corrisponde alla distruzione dei sistemi politici, culturali, sociali, sanitari ed educativi, ha effetti dirompenti sui bambini e gli adolescenti, che aumentano in modo esponenziale senza protezioni internazionali, non solo da un punto di vista psico-fisico ma anche, sociale ed educativo. La violenza subita rischia di modificare, in modo severo, il processo di ripresa evolutiva (la resilienza) dei bambini e degli adolescenti che sopravvivono a violenze estreme. La sindrome che definisce le conseguenze di un evento traumatico, come noto, è chiamata disturbo da stress post traumatico (PTSD). Esso può insorgere in connessione causale con un evento traumatico di grande impatto, che minaccia la vita o l’incolumità propria o dei caregiver, come appunto la guerra. Lo studio di Manzareno del 2021, ha esaminato i sintomi dello stress traumatico in 1850 bambini: i risultati mostrano che la maggior parte dei bambini esposti a bombardamenti e distruzione di aree residenziali, confinati in casa, testimoni della profanazione di luoghi di culto, esposti a combattimenti e alla visione di cadaveri, rivelano alti livelli di PTSD e che la minaccia all’incolumità della vita vissuta con continuità, l’aver subito o assistito ad atti di violenza ripetuti sulle figure di riferimento porta a traumi e impatti rilevanti, anche a lungo termine. La psiche di un bambino può subire ferite incancellabili a seguito di esperienze traumatiche quali un bombardamento, la fuga in preda al panico o la visione di azioni cruente a danno dei propri familiari. Lo studio condotto da Qouta, (2021) sottolinea l’importanza di avviare interventi in rete e multidisciplinari tempestivi sul bambino traumatizzato e il suo caregiver per promuovere strategie resilienti. La messa a punto di interventi educativi e sociali, secondo alcuni recenti studi, producono un significativo miglioramento nella qualità di vita di questi bambini. 
 
3. Costruire la resilienza
Il costrutto della resilienza sta gradualmente permeando anche nelle politiche, nelle ricerche e nelle iniziative pratiche in favore dei bambini che vivono in aree (post-) di conflitto. La sofferenza in colui che ha subito eventi o un evento di natura traumatica probabilmente è la medesima, ma l’espressione del suo tormento, la rivisitazione emotiva di ciò che lo ha profondamente sconvolto, dipendono da quello che la cultura rende disponibile, alla persona o alla comunità ferita e che tutela il processo di resilienza (Cyrulnik, 2009, p. 13). La consapevolezza dell’impatto che un particolare evento crea nella vita di quella persona o società, nel suo sistema di riferimento, la qualità degli aiuti o la loro mancanza, la protezione, le strategie di resistenza, l’aiuto sociale, economico, o l’incuranza e l’abbandono, attribuiscono a una medesima ferita, un significato differente. Quest’ultimo dipende anche dal modo in cui le culture strutturano i loro racconti e attivano processi di intervento, da come si organizzano permettendo a uno stesso accadimento di trasformarsi e divenire o meno un’occasione di crescita. Se il processo di resilienza si dipana attraverso l’interconnessione fra la persona e i suoi ambienti di riferimento, diviene estremamente importante considerare in che modo la dimensione educativa e l’organizzazione delle comunità (scuola, servizi educativi, territori) possano divenire e porsi, in modo intenzionale, quali mediatori per la costruzione della resilienza attraverso percorsi di accoglienza. Le bambine ed i bambini vedono adulti afflitti, sconfitti dalla vita, spezzati; e non riescono ad abitare un “noi” che sembra loro così misero e dolente. Questo è dunque un aspetto che sembra collegare le vicende di emigrazione, in tempo di pace, con le sopravvivenze a vicende di guerre. Chi ha lasciato un villaggio o una terra si illude che esista un luogo in cui fare ritorno, e forse è possibile. Chi invece ha lasciato un tempo cancellato dalla guerra, non può illudersi, sa che la sua vita è spezzata e non può esservi ritorno. Le bambine ed i bambini hanno come compagni di viaggio questi adulti. E l’educazione, la crescita, è molto più difficile. Crescere, significa aprirsi al   futuro avendo un punto sicuro rappresentato dalla certezza di potere dire “noi”. Ma come è possibile quando il “noi” dovrebbe essere realizzato con adulti che vivono per piangere un passato distrutto? Come è possibile quando non vi sono sistemi di protezione internazionali e i sistemi di accoglienza mancano di un quadro di riferimento complessivo? Come è possibile quando manca la solidarietà e predomina la logica dell’individualismo e dell’indifferenza? Un educatore, un’educatrice, un insegnante ha il dovere di leggere la complessità della realtà e di impegnarsi per cercare di creare contesti, comunità aperte all’interno delle quali ci sia un posto anche per chi vive condizioni di fragilità al fine di accompagnare il progetto di vita.
 
4. Educazione e Pace
La costruzione di percorsi di pace riguarda, quinid, tutti e ciascuno di noi e in particolare chi si occupa di processi educativi. 
Subito dopo il 1945, c’era in molti maestri e maestre una grande speranza: si credeva che le cose sarebbero potute autenticamente cambiare. La generazione di Bruno Ciari, Mario Lodi, Don Milani, Margherita Zoebeli, Alberto Manzi, Andrea Canevaro e i molti che si potrebbero citare, più o meno noti, ha consentito, a partire da quella successiva (ovvero a coloro che sono nati alla fine degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso), di poter sperimentare modelli didattici e educativi fondati su principi democratici che hanno posto le basi dei processi di inclusione contemporanei. Una scuola, quella di quei tempi, e in particolare una rappresentanza significativa di docenti che si riconosceva in alcuni movimenti, come ad esempio quello di Cooperazione Educativa, nato sulla scia del pensiero pedagogico e sociale di Célestin ed Elise Freinet (MCE, 1951),5 o di coloro che assumevano il motto di Don Milani «I Care», che di base si era assunta il compito educativo di ricostruire il Paese che usciva dal secondo conflitto mondiale e l’impegno di ridurre imponenti tassi di analfabetismo, ingiustizie sociali e culturali e di formare le future generazioni svolgendo anche il ruolo di «ascensore sociale». Saremo capaci, di cogliere le sfide attuali, di opporsi a logiche violente di scoprire e indicare itinerari di ricerca, sentieri oltre il confine, «pietre che affiorano» che possano aprire incessantemente «ulteriori» prospettive di collaborazione interistituzionale nell’ottica del rispetto per la fragilità umana, della globalità delle sfaccettature che compongono la sua identità, che si attualizza in molteplici volti, situazioni e proposte educative? I sistemi educativi e scolastici, i cui principi di base sottendono quelli della Costituzione Italiana sono, dunque, chiamati oggi, a risignificare i percorsi di promozione delle culture di pace. Educare alla pace significa suscitare una visione della vita che prepari alla cooperazione, alla fiducia, alla solidarietà, al rispetto, alla comprensione delle altrui posizioni, al dialogo e alla giustizia. Tale prospettiva sottolinea l’importanza di promuovere occasioni per innovare i contesti educativi, come ad esempio anche quelli scolastici ed universitari, in spazi di partecipazione sociale, aperti anche alla cittadinanza, che permettano ai giovani di poter assumere un pensiero critico rispetto a questioni che, comunque, li riguardano. A questo scopo è fondamentale coinvolgere le scuole, le università, gli insegnanti, in un impegno che sia anche metodologico, applicato a riflessioni, contenuti e materiali che permettano di ampliare la comprensione del fenomeno attraverso l’analisi di una pluralità di fonti.
La pace di oggi, scrive ad esempio il maestro Lodi (Lodi, 1986), è figlia della paura della morte della civiltà. Fin quando durerà questa situazione di equilibrio fondato sul terrore? Può durare dieci, venti, cinquant’anni? Può durare tutta la vita che i bambini hanno davanti e che essi hanno il diritto di vivere in pace e sereni? Visionare le parole di Mario Lodi, oggi più che mai, è fondamentale interrogarci sul senso di queste affermazioni, in particolare quando scrive: “- la paura della morte quale strategia per raggiungere la pace” -. 
Questo è un aspetto estremamente interessante che interroga il nostro presente e la misura in cui siamo in grado di realizzare contesti di insegnamento - apprendimento capaci realmente di interrogare la realtà che vivono i bambini ed i giovani, di aiutarli a leggerla e interpretarla, di motivarli, interessarli, rendendoli partecipi del loro processo di crescita e di formazione.  Oggi, in un mondo lacerato poco capace di pensarsi insieme, in cui le guerre lasciano macerie, è necessario assumersi delle responsabilità anche in campo educativo. 
Il tema dell’educazione alla pace è un affare importante che riguarda tutti, la violenza e la guerra distruggono l’arte del dialogo e del vivere. 
Impegniamoci insieme agli allievi, alle famiglie, in dialogo con altri insegnanti e cooperatori per tessere il disegno magnifico di un’umanità che intende vivere in pace conoscendo il mondo con curiosità e libertà. Iniziamo da noi stessi per imparare in primo luogo ad “Educarsi ed Educarci alla pace” praticando una pedagogia non violenta, nei contesti di vita quotidiana, fra i banchi di scuola proponendo approcci alla conoscenza, che permetta loro di cresce liberi non in modo anarchico, non dove tutto è lecito ma offrendo proposte concrete che facilitino il confronto e la capacità critica di analisi della realtà.