30 Settembre 2013 09:00 | A.B.I. Palazzo Altieri Sala della Clemenza
Tornare alla saggezza del cuore
Sono nata negli anni ’50 e dunque appartengo all’ultimo spicchio di mondo che è cresciuto lontano dall’ossessivo e onnipresente chiacchiericcio dei media. Quando ero bambina, il carbone per la stufa veniva portato da un carro trainato da un cavallo, i pomeriggi e le domeniche erano interminabilmente lunghe e vuote, ricche di una noia feconda. Una noia sconosciuta ai bambini di oggi, abituati come sono ad essere sempre intrattenuti da qualche balia elettronica o digitale.
La domenica, allora, era un giorno diverso dagli altri, segnato per tutti - credenti e non credenti – dal rito del pranzo coi nonni o con la famiglia estesa. Nelle case dominava la radio e spesso le persone amavano accompagnare il loro lavoro con il canto. Chiamavamo la maestra ‘signora maestra’ e, al suo ingresso, scattavamo in piedi come soldati. Ricordo ancora il mio bisnonno ripeterci che bisognava finire sui giornali soltanto nel giorno della morte.A volte, leggendo i fumetti o vedendo al cinema del quartiere i primi film di fantascienza giapponesi, almanaccavo sul futuro. Come sarebbe stato il 2000? mi chiedevo. Mi immaginavo scoperte straordinarie. Prima tra tutte, quella di poter volare. Non grandi voli, ma semplicemente,grazie a uno zainetto propulsore, il riuscire a sollevarsi da terra, svolazzando con la leggerezza delle farfalle. Non ci sarebbe stato più bisogno delle macchine, pensavo, e le persone avrebbero acquisito levità e allegria.
E invece il 2000 ha portato tante altre novità, ma non quella da me sperata. Sarà forse per questo che l’ultima notte del 1999 sono stata colta da una febbre altissima e così il passaggio del millennio, invece che in bagordi, l’ho passato in uno stato di semi incoscienza.
Questo mondo - il mondo che si è affacciato nel nuovo millennio - mi fa paura. Non sono una nostalgica dei tempi andati, né sono cieca sui tantissimi benefici che la tecnologia, la diffusione del commercio e l’abbondanza delle informazioni ha portato nelle nostre vite, tuttavia, non posso non essere turbata dalla trama oscura che si nasconde dietro alla loro euforica onnipotenza.
L’universo della mia infanzia era un universo in cui il capitale sociale – vale a dire quell’insieme di valori e norme non scritte che consentono a un gruppo di persone di aiutarsi a vicenda - era ancora vivo e presente. C’era una realtà condivisa di valori di riferimento, di cui la famiglia, la scuola e le istituzioni - quali la Chiesa, da una parte, e il partito comunista, dall’altra - erano i garanti. Tutta l’educazione delle giovani generazioni era volta a creare persone responsabili, capaci di indirizzare le loro energie verso lo sviluppo e il mantenimento dell’equilibrio sociale. Personalmente, sono stata educata ad essere puntuale, onesta, rispettosa dell’autorità, attiva e laboriosa. Sebbene io sia poi diventata un’artista, nessuno, nella mia infanzia mi ha spinto a essere creativa o a privilegiare la mia individualità. La società sovrastava l’individuo, con tutte le conseguenze spesso repressive che poteva comportare. Ricordo, una volta,di aver emesso un trillo di gioia al suono della campanella. Trillo purtroppo arrivato alle orecchie della maestra, la quale, sconvolta da tanta incauta leggerezza, ci fece rimanere un’ora in più in piedi in classe perché non era lecito manifestare la propria felicità per la fine delle lezioni. Terrorizzata dalle possibili conseguenze, non osai confessare che quell’innocente trillo era uscito dalla mia gola.
L’irrompere nelle nostre vite della grande rete mediatica - cioè questo universo in cui le parole e le immagini scorrono ininterrottamente senza conoscere limiti né frontiere e nella quale gli esseri umani sono avvolti fin dai primi istanti della vita - ha creato un mutamento antropologico e culturale di cui è difficile scorgere l’evoluzione.
Personalmente, io ‘twitto’ solo con i miei canarini, ma so di essere un relitto ancestrale. Se cinguetto solo con loro è perché sono un’artista e desidero mantenere intatte, nella mia vita, le dimensioni della profondità e dell’essenzialità. Perché è evidente che tutto questo comunicare, alla fine, non è altro che un mare di chiacchiere, una lastra di ghiaccio sottile posta a tutela delle acque torbidamente profonde che comunque esistono in ogni vita.
Chiacchiero, chiacchiero, chiacchiero. E chiacchierando, mi distraggo. Distrazione! grande amica dei manipolatori del pensiero. Un mondo di uomini distratti è un mondo di inconsapevoli servitori, un mondo di pattinatori che scivolano sulla superficie del ghiaccio senza mai avere il coraggio di abbassare lo sguardo verso ciò che,sotto il ghiaccio, si cela.
La notte, il buio e il silenzio sono stati banditi dalla nostra vita. Dobbiamo essere sempre collegati, sempre attivi, sempre svegli, sempre storditi dal rumore, dalla musica, dalle luci, dai led luminosi, sempre pronti a comprare qualcosa.
Comunicare ed essere eternamente connessi è il diktat dell’uomo contemporaneo, ma questa comunicazione non è più legata alla fisicità della persona. Incontrarsi, stare vicini, guardarsi negli occhi non ha più nessuna importanza, così come non ha nessuna rilevanza che le parole che si usano abbiano una necessità e un fondamento. L’importante è non lasciare spazi vuoti. Il corpo è stato smaterializzato, così come le relazioni, che sono diventate astratte, virtuali. Alla faticosa costruzione di un rapporto reale si è sostituita la fulminea semplicità di un ‘mi piace’ su Facebook, regalando l’illusione che il mondo sia pieno di amici e di persone in grado di condividere i nostri stati d’animo.
La grande forza che ha plasmato questi anni - e che sembra investire sempre con più vigore la società - è quella dell’omogeneizzazione. Da piccola, io avevo soltanto i miei pensieri in testa, ma adesso un bambino, fin dai primi anni, viene martellato da una quantità impressionante di stimoli, uguali per lui e per tutti gli altri, che come una corrente obbligata lo spingeranno verso un’unica direzione - quella dell’omologazione. Omologazione vuol dire che i nostri pensieri - o meglio, ciò che crediamo essere i nostri pensieri - in realtà sono stati pensati da altri per noi.
Naturalmente tutta la cultura si è alimentata di pensieri di altri, ma la cultura è il risultato del duro lavoro di singole persone, di lunghi studi individuali, di elaborazioni solitarie e soprattutto dell’esercizio del pensiero critico. Invece adesso siamo ridotti a rispondere come il cane di Pavlov. Suona una campanella, e tutti abbaiamo. E la campanella può essere l’evento mediatico del giorno: i pedofili, un atto di terrorismo, un omicidio particolarmente efferato o l’ennesimo allarme ambiente. Allora tutti ci infiammiamo, condanniamo, ci schieriamo da una parte o dall’altra, senza venir sfiorati dal dubbio che dietro a questa continua offerta di sempre diversi eventi mediatici si nasconda una precisa volontà di distrarci. Quest’assenza di vuoto, questa mancanza di silenzio, è prima di tutto un’assenza di possibilità di riflettere, cioè di compiere quell’atto che da sempre è il fondamento dell’esistenza in ogni essere umano. Già, perché l’esistenza - nella sua essenza reale, non della parodia della sua rappresentazione mediatica - è una realtà fatta di luci e di ombre. Spesso più ombre che luci.
Sono proprio queste ombre che,dalla notte dei tempi, hanno spinto l’uomo a interrogarsi. E tra tutte le interrogazioni, ce ne è una che è unica e universale. Perché c’è il male? Perché c’è la morte? Perché questa ombra cupa colpisce alcuni con veemenza, mentre altri sembra quasi risparmiarli? Dalla risposta che le diamo dipende il motore propulsore della nostra esistenza individuale.
In tutti noi, nelle zone morte della notte, nelle improvvise solitudini del giorno, si affaccia il pensiero della morte e di tutte le possibili vie da percorrere per riuscire a opporvisi, o per lo meno, a darle un senso.
Il nostro tempo è un tempo che ha rimosso l’immagine della nostra caducità, con tutto il corteo di domande che trascina con sé.
Spesso delle persone mi dicono che nei miei libri ci sono troppe domande. Sono faticose, queste domande. Ormai anche dai libri ci si attente unicamente lo svago – peraltro, più che lecito – un momento di relax, il non essere turbati da alcun pensiero profondo. Preferiamo passeggiare sulla battigia, osservare lo splendore del tramonto, ma non attendere la notte, non attendere che i flutti minacciosi delle onde si abbattano sulle nostre gambe, rischiando di trasportarci nel gorgo nero del mare notturno.
Ma l’uomo, senza ombra, che cos’è? E’ un essere che ha dimenticato la necessità costruttiva del dubbio e dell’inquietudine, della perplessità e dell’interrogazione. E’ Pinocchio la grande profetica metafora di questi nostri tempi trasformati in un ininterrotto Paese dei Balocchi, sul quale lampeggia luminosa e invitante la scritta “Divertitevi!”
Ma, dopo la prima ebbrezza liberatoria, anche il divertimento viene a noia e, per non rischiare di interrompere questo ciclo, ci si inventa forme di distrazioni sempre più estreme. Quando poi, alla fine, anche queste sembrano finite, si apre la landa desolata dell’infelicità e della depressione, delle patologia da distrazione –come la ludopatia - che tanto inflazionano i nostri giorni.
Già, perché la ricerca della felicità, nel suo giro rutilante e vorticoso, produce esattamente il suo opposto: l’infelicità. Oltre ai paesaggi meravigliosi, oltre alle musiche, alle luci, ai colori, c’è solo l’immensa plaga deserta della noia sterile, dell’aggirarsi senza scopo e senza orizzonti.
Aver ridotto la vita dell’essere umano all’esaltazione del proprio ego e all’obbedienza cieca dei suoi voleri lo ha condotto in un vicolo cieco. Eppure, bastava anche solo aver leggiucchiato un qualsiasi libro di spiritualità- induista, buddista, cristiana, islamica - per sapere che l’ego è la grande scimmia che ci domina e che chiunque aspiri ad assaporare la vera libertà nella sua vita, per prima cosa deve intraprendere un cammino di liberazione dalle sue tiranniche esigenze. Invece di disarcionarla, questa scimmia, l’abbiamo invitata a vivere stabilmente sopra di noi, l’abbiamo nutrita e lusingata, ci siamo prostrati ai suoi piedi, dichiarandoci a suo totale servizio. Ci siamo consegnati, mani e piedi, al padrone più bizzarramente esigente, al più folle, più privo di progetti. Il nostro ego, appunto. Perché i suoi progetti sono sempre di breve durata, tesi ad un unico fine: quello di soddisfare il più alto numero di pulsioni e desideri.
L’ego desidera principalmente tre cose. Dominare gli altri, possedere più degli altri e poter vivere senza limiti tutte le possibili suggestioni erotiche. Con questo imprinting martellante, costantemente rafforzato dal bombardamento dei media, come si può pensare di poter costruire una società fondata su valori che la rendano degna di essere umana, cioè in sintonia con quello che faticosamente è stato costruito negli ultimi millenni della nostra storia?
L’uomo contemporaneo è spinto a vivere compresso tra due entità del suo corpo - quella del cervello e quella degli organi genitali. La parte centrale, quella del cuore, è stata divorata dalla marea nera del chiacchiericcio mediatico. La sua intelligenza calda, saggia e pensante è stata sostituita dall’onnipresente strepito dei sentimentalismi, vale a dire dei sentimenti gridati, esibiti, condivisi in fiammate di indignazioni e di condanne che invadono ogni spazio visivo e auditivo delle nostre giornate.
Il sentimentalismo è un ismo, dunque una manipolazione ideologica che ci permette di sentirci buoni senza aver la minima idea di cosa sia il bene, di sentirci nel giusto senza aver provato neppure per un istante ad essere delle persone giuste. Sono solo abiti che indossiamo, abiti che togliamo, senza minimamente modificare la nostra natura profonda.
Ed è proprio in questo panorama di realtà umane fortemente alterate che si inserisce il discorso sulla tutela della vita. E su questo discorso, si posa l’ombra dell’altra potenza che, assieme all’informazione, domina e gestisce i nostri giorni. La potenza della tecnica. La tecnica, o meglio, la tecnocrazia, ha divorato l’etica, facendo apparire dubbi, perplessità e timori relitti arcaici di un tempo ormai alle spalle, che non hanno più alcun senso di esistere.
La tecnica può fare tutto. E in questo poter fare non desidera che ci si interroghi sul limite. E dato che siamo ormai tutti buonisti, non c’è niente di più facile che accondiscendere alle sue volontà, perché è chiaro che la tecnica, che irrompe e manipola le nostre vite, ha un solo scopo: aiutarci nella realizzazione della nostra felicità. Ma in questa ricerca della felicità compaiono,purtroppo,spettri che nessuno avrebbe voluto veder riaffiorare. Lo spettro dei sani, dei forti, degli adatti. Lo spettro di un mondo capace di compiere una rigorosa autoselezione per il bene della collettività.
Nel nostro mondo contemporaneo non è contemplato alcuno spazio per la fragilità, per la malattia, mentre la morte viene ridotta a un’igienica necessità.
Come stupirsi? Una società che ha cancellato l’ombra e il timore del sacro, che ha eliminato il silenzio e il dubbio non può che approdare in spiagge diverse da queste. Una società che ha sostituito il cuore di carne con un cuore di plastica non può che rifuggire tutte le occasioni in cui saremmo costretti a scendere nelle profondità e a tirare fuori ciò che fa di un essere umano davvero un uomo, cioè una persona capace di vivere la sconvolgente rivoluzione della misericordia e della compassione.
Ciò che vediamo accadere tutti i giorni sotto i nostri occhi è soltanto una nuova visione della nostra dimensione umana. Inutile scandalizzarsi e indignarsi. L’uomo viene ormai considerato unicamente come merce, come materia, come possessore di beni, tra i quali rientra,di diritto,anche la vita di altri esseri umani.
Se l’uomo è un oggetto, senza legami con il mistero ed escluso da qualsiasi giudizio, viene naturale pensare che se si desidera un figlio e non si riesce ad averlo, lo si appalti a un utero in affitto. Si può fare e lo si fa. E’ un nostro diritto. Del diritto della povera donna che, per fame, porta in grembo un figlio non suo e del bimbo che nascerà, programmaticamente privato della genealogia, una delle realtà fondanti dell’essere umano, non ci si preoccupa. In fondo la donna riceve i soldi che la aiutano a sconfiggere la miseria e quel bambino è stato molto desiderato e avrà una vita felice.
Per la stessa ragione, si applica una grande selezione prenatale su bambini che hanno - o si presume abbiano - delle anomalie nel fisico e nella mente. Non importa che queste anomalie possano essere anche riparabili - un labbro leporino, l’assenza di un arto - che spesso le macchine sbaglino o che il feto in realtà sia perfettamente sano. L’importante è che noi decidiamo per lui la cosa migliore, che agiamo per il suo bene. Dove ‘il suo bene’ è un criterio poveramente soggettivo e soggetto alla forza omologante della normalità.
Non c’è spazio per anormali di nessun tipo nel mondo di perfetti che stiamo costruendo, così come non c’è spazio perla debolezza della vecchiaia, della malattia, scandalo degli scandali, memoria continua della fragilità che ci attende al varco e che esorcizziamo con sempre nuove pretese di diritti. Il diritto di morire, prima di tutto. Abbandonata la tragica e nobile grandezza del suicidio, possibilità che appartiene a tutti noi, si pretende la risoluzione burocratica della vicenda. E’ lo Stato che dovrebbe garantirci, con una legge ad hoc, il diritto di morire quando riteniamo che la nostra vita non sia più degna di essere vissuta. Viviamo in una società infatuata dalla morte, ma totalmente afona su come vivere.
Che cos’è davvero la vita?
E’ un braccio di forza con l’orgoglio, con l’efficienza, con la perfezione o è un percorso pieno di cadute, di risalite, di istanti di gioia folgorante e di abissi di dolore? E cosa dà senso davvero a una vita? Il possesso di corpi e di cose o qualcosa di molto più complesso da esercitare che si chiama amore? Amore, parola reietta, derisa, giullare vassallo degli organi genitali. Come suona ridicola questa parola ora. Un continente sconosciuto su cui nessuno osa mettere piede. Meglio danzare nei girotondi buonisti piuttosto che avanzare nella terra del bene. Eppure è solo l’amore che ci salverà. Solo riposizionando al centro del nostro essere il cuore, dando a lui il compito di guidarci nella terra delle rupi tarpee,rimetteremo in moto la potenza rinnovatrice della vita.
I tempi che stiamo vivendo sono tempi apocalittici, cioè di svelamento. La musica del Paese dei Balocchi comincia ad incepparsi, alcuni già si accorgono delle grigie orecchie pelose che stanno spuntando sulle loro teste. Siamo alla soglia, siamo al limite, sull’orlo di un cambiamento antropologico difficile da arrestare.
Riparlare del cuore, rimetterlo al centro della nostra vita credo sia l’unico modo di opporsi al degrado dell’umano. L’unico gesto eversivo possibile in questi tempi. perché in fondo ad ogni essere alberga la nostalgia di una condizione diversa.
La profondità del cuore fa paura, perché è l’unica capace davvero di portarci sulle vie del bene e della giustizia, di darci una radice stabile, forte, capace di opporsi ai mutamenti che, sotto il volto benefico, nascondono il ghigno della morte. Morte dell’umanità, della compassione, morte della misericordia.
Il cuore è il nemico dell’ego. Il cuore conosce la gioia del dono e del servizio. Solo il cuore può riportare tra noi lo spirito di maternità, quello spirito capace di accogliere e proteggere tutto ciò che è fragile, consapevole della sacralità della vita e della necessità di difenderla.
Susanna Tamaro