30 Settembre 2013 16:30 | Basilica di San Bartolomeo all'Isola
Francesco, il Papa dalla fine del mondo
Appena eletto Papa, il cardinale Jorge Mario ha detto che i suoi fratelli cardinali avevano scelto come papa qualcuno che veniva “dalla fine del mondo”. Pensava, senza dubbio, al suo paese natale, l’Argentina, geograficamente remoto rispetto all’Europa. Presumo, tuttavia, che papa Francesco non sia fuggito dalla “fine del mondo”. E questo per due motivi. Il primo perché porta con sé l’aria buona (aires buenos) dell’Argentina nel suo cuore. E secondo, perché allontanandosi da quella “fine del mondo”, è venuto a vivere e a testimoniare la sua fede, nell’altra “fine del mondo”.
Penso alla “fine del mondo” a proposito della quale San Giovanni della Croce dice che sarà una sera in cui “tutti saremo giudicati sull’amore”. Evidentemente si tratta dell’amore verso il prossimo e verso i più poveri di questo mondo. Amore e povertà di cui San Francesco d’Assisi è icona escatologica.
Chiaramente, adottando il nome programmatico di Francesco per il suo papato e venendo a vivere a Roma, città eterna, incastonata nella geografia del poverello di Assisi, papa Francesco vive ora nella “fine del mondo” che gli permette di testimoniare l’amore che ci porta per mano fino alla fine della nostra salvezza.
I. “La fine del mondo” della speranza
Francesco viene dall’Argentina, un paese del continente delle ambiguità, dove i battezzati in Cristo iniziano a preoccuparsi del fatto che nelle loro società –come dice il documento di Aparecida–, “nascono nuove forme di impoverimento, di esclusione e ingiustizia” (DA 521); in cui ci sono molte disuguaglianze sociali, nonostante i loro abitanti riconoscano “una profonda vocazione all’unità” iscritta nei loro cuori (DA 523), della quale la Chiesa si costituisce come “sacramento di comunione, dimora dei popoli, casa dei poveri di Dio” (DA 524).
Nell’America della speranza ci sono coloro che hanno voluto abolire le ingiustizie e le disuguaglianze sociali a forza di rivoluzioni sanguinose. Jorge Mario e tutti i suoi colleghi cardinali e fratelli nell’episcopato hanno proposto ad Aparecida di sanare i mali sociali a partire dalla bontà silenziosa ma reale che c’è nel cuore dei latinoamericani, a partire cioè,dalla forza della solidarietà.
Aparecida ci dice che noi latinoamericani e caraibici ci riconosciamo come una famiglia, ovvero “con un’esperienza singolare di prossimità, fraternità e solidarietà” (DA 525). L’America Latina, sottolineano i vescovi latinoamericani, “non è un fatto geografico; non è nemmeno una somma di popoli e di etnie che si giustappongono. L’America Latina, una e plurale, è la casa comune, la grande patria del fratelli” (DA 525).
I vescovi di Aparecida riaffermano quanto detto ma riconoscono che, nonostante “non ci sia un’altra regione che conti su tanti fattori di unità come l’America Latina, si tratta tuttavia di un’unità lacerata perché attraversata da profonde dominazioni e contraddizioni, ancora incapace e di incorporare in se stessa «tutte le diversità di sangue» e di superare la breccia di stridenti disuguaglianze ed emarginazioni” (DA 527). La profonda contraddizione del continente latinoamericano è che “pur avendo il maggior numero di cattolici, ha anche la maggiore disuguaglianza sociale” (DA ibid).
Il Papa argentino porta nel suo cuore tale contrasto doloroso dell’America Latina, una fede profondamente ferita dall’ingiustizia sociale. Con la prospettiva dell’amore francescano, ha accettato di essere Papa per seminare il dolore di quei popoli lontani come seme di speranza, nella terra del più povero tra i poveri, San Francesco d’Assisi.
II. “La fine del mondo” dell’amore
Da questa terra italiana, culla del poverello di Assisi, si sente un grido evangelizzatore per tutta l’Europa e il mondo intero, questa volta per voce del latinoamericano Papa Francesco che con Aparecida proclama: “Abbiamo bisogno di una nuova Pentecoste! Abbiamo bisogno di andare incontro alle persone, alle famiglie, alle comunità e ai popoli per comunicare e condividere con loro il “senso” di verità e di amore, di gioia e di speranza! Non possiamo restare tranquilli, in attesa passiva, dentro le nostre chiese; urge, invece, correre in tutte le direzioni per proclamare che il male e la morte non hanno l'ultima parola, che l'amore è più forte, che siamo stati liberati e salvati dalla vittoria pasquale del Signore della storia” (AD 548).
L’allora cardinal Bergoglio, ora Papa, che calza sandali francescani, ha firmato ad Aparecida il Documento Conclusivo che, tra altri begli impegni, ha il seguente: “Siamo testimoni e missionari: nelle grandi città e nelle campagne, nelle montagne e nelle foreste della nostra America, in tutti gli ambienti della convivenza sociale, nei più diversi «areopaghi» della vita pubblica delle nazioni, nelle situazioni estreme dell'esistenza, assumendo la nostra sollecitudine per la missione universale della Chiesa ad gentes” (DA ibid).
I cattolici europei si potrebbero offendere se gli si dicesse che i loro paesi sono divenuti terra di missione. E in realtà non lo sono, nel senso canonico della parola ma, come loro, tutti abbiamo bisogno di essere evangelizzati di nuovo, nella prospettiva della “Nuova Evangelizzazione” proposta da Giovanni Paolo II. Benedetto XVI, con il suo zelo per l’evangelizzazione dell’Europa, culla del cristianesimo occidentale ora così scristianizzata, in occasione della conclusione del Sinodo dei Vescovi sull’Evangelizzazione ad ottobre 2012, ha detto che “la nuova evangelizzazione è essenzialmente collegata alla missione ad gentes” (Omelia del 28 ottobre 2012).
Così ha detto il papa tedesco, non solo nel senso che tutti coloro che sono già evangelizzati devono adottare l’atteggiamento missionario e vivere il loro impegno nella fede ma anche nel senso che molti altri hanno bisogno di essere evangelizzati di nuovo, sebbene non appartengano più a paesi di missione.
III. La missione
L’urgenza e l’impegno della missione è il tema che tocca più profondamente il cuore di papa Francesco. Ha fatto di essa il fondamento delle parole che, in occasione della sua visita in Brasile, ha pronunciato di fronte al Comitato dei Coordinatori del CELAM. Ma ora il suo linguaggio adegua quello del documento di Aparecida del 2007 alle esigenze che derivano dalla sua responsabilità papale.
Dopo aver ricordato che la missione non è un’aggiunta ai programmi pastorali vigenti in una diocesi e nelle parrocchie, ha detto che la missione è un’azione paradigmatica che avvolge l’azione pastorale nella sua totalità e la anima.
Ha aggiunto che non è possibile essere missionari di Gesù Cristo nella Chiesa di oggi se non c’è un’autentica conversione pastorale. Ciò ci deve portare a recuperare lo spirito della missione che Cristo ci ha mandato a compiere nel mondo e inoltre a riproporre gli atteggiamenti pastorali e il funzionamento delle strutture ecclesiali cercando il bene dei fedeli e della società.
Il mondo diventa laico, senza Dio. Ma grazie a Dio abbiamo laici battezzati nelle nostre comunità che muoiono dalla voglia di servire la Chiesa nella missione che deve compiere nel mondo di oggi. L’Europa è un esempio del bisogno di passare da una pastorale meramente rurale a un’altra di stile urbano. Ma non smettiamo di coltivare i valori umani e cristiani che sembrano crescere meglio nel mondo rurale. È una missione pastorale di impegno. Bisogna superare la “cultura di sempre”. Bisogna emigrare alla cultura di oggi ma senza perdere lo spirito che ci viene dalla fonte della nostra fede, la Parola di Dio, l’amore comunitario fraterno, la vicinanza umana e la comunione con la natura che Dio ci ha dato.
La missione la realizzano missionari. I missionari sono di Gesù Cristo. Gesù Cristo vive incarnandosi sempre nella realtà in cui viviamo, continua a morire per i peccati del mondo e continua a resuscitare nella speranza dei popoli di vedere giungere un tempo migliore. Di conseguenza, il missionario non smette di essere discepolo di Gesù, il Maestro della storia.
IV. La Chiesa
La realtà che viviamo in questo nostro tempo è la supremazia del potere sul servizio. Un potere che domina ed emargina i più deboli del mondo, che si vedono obbligati a vivere nella periferia dell'esclusione. D'altra parte le ONG si fanno seguaci delle azioni del potere dominante. La Chiesa corre il rischio di smettere di essere chiesa sacerdotale, al servizio, per trasformarsi in chiesa seguace del potere, cioè ambiziosa ed escludente.
Vorremmo invece, ha detto il Papa "una Chiesa Sposa, Madre, Serva, più facilitatrice della fede", una Chiesa di "vicinanza e d'incontro" nel modo "in cui Dio si è rivelato nella storia. È il Dio vicino al suo popolo, vicinanza che raggiunge il punto massimo nell’incarnazione." Il Papa ci invita a deporre "le pastorali distanti","disciplinari, che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti organizzativi... ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza". E' la "rivoluzione della tenerezza" provocata dall'incarnazione del Verbo di Dio.
Il Papa ci invita a evitare le pastorali distanti "incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli". Sono pastorali che non ottengono mai né l’inserimento ecclesiale, né l’appartenenza ecclesiale. "La vicinanza - invece - crea comunione e appartenenza, rende possibile l’incontro. La vicinanza acquisisce forma di dialogo e crea una cultura dell’incontro".
V. Vescovi, pastori e non capi
Come un nuovo San Paolo che dà consigli a Timoteo, Papa Francesco ci dice dall'America Latina, ma già essendo vescovo di Roma, che "I Vescovi devono essere Pastori, vicini alla gente, padri e fratelli, con molta mansuetudine; pazienti e misericordiosi. Uomini che amano la povertà, tanto la povertà interiore come libertà davanti al Signore, quanto la povertà esteriore come semplicità e austerità di vita. Uomini che non abbiano “psicologia da principi”. Uomini che non siano ambiziosi e che siano sposi di una Chiesa senza stare in attesa di un’altra", per salire di rango e potere, crescere in fama ed altre cose estranee al Vangelo.
VI. Cosa può sperare l’Europa da un Papa latinoamericano
Finora abbiamo detto ciò che un Papa latinoamericano può apportare alla Chiesa universale. Chiediamoci ora cosa può sperare un europeo da un Papa latinoamericano. Per questo faccio riferimento ad una conversazione della rivista LIMES con Andrea Riccardi.
Andrea pensa che la Chiesa sia segnata "dal grigiore senile dell`Europa" per dirla con le parole di David Turoldo. E la domanda che si pone Andrea è se la Chiesa del terzo millennio sia una realtà anacronistica. E se lo è, si chiede se tale anacronismo non la converta in qualcosa di arcaico o piuttosto in qualcosa di profetico. Ovvero: la rende un'istituzione non più in sintonia con il nostro tempo o un universo che può recuperare "profeticamente"?
Papa Benedetto XVI, come uomo di scienza aveva la visione della realtà della Chiesa come minoranza, in Europa e nel mondo intero. In base a questa realtà, come grande teologo, Ratzinger diede alla luce il concetto propositivo della Chiesa come "minoranza creativa", cioè, una Chiesa che nonostante sia una minoranza, è capace di cambiare il mondo. Secondo Andrea Riccardi, il problema ha la sua radice nell'idea della "minoranza creativa" come capacità di cambiare il mondo. E' una questione seria, perché l'immagine della Chiesa in Europa e nel mondo intero in generale, è andata oscurandosi sempre di più.
L’Europa è ancora un ambito cruciale. Wojtyla e Ratzinger erano convinti del fatto che se si perdeva l’Europa si perdeva anche il cristianesimo cattolico. Bergoglio pensa lo stesso? Andrea Riccardi pensa di sì, anche se forse l’Europa non sarà la priorità principale di questo Papa, a differenza dei suoi due predecessori. Ma non la lascerà al margine. Francesco adotterà probabilmente una prospettiva pastorale verso il Vecchio continente e vorrà affrontare il problema ecumenico, specialmente con la Chiesa ortodossa.
Non fosse altro che per le sue origini, Papa Bergoglio è anche europeo, queste origini sono molto vive in lui. Bergoglio ha ben presente il problema dell'unità della Chiesa. Ha una "forma mentis" profondamente conciliare: il dialogo e l'incontro sono un pilastro della sua esperienza umana e spirituale. Tuttavia Andrea Riccardi non definirebbe Francesco come un papa teologicamente progressista: è senza dubbio un uomo molto sociale, ma a partire da una prospettiva meramente pastorale.
VII. Cosa aspettiamo noi salvadoregni da Papa Francesco
Vorrei concludere questo intervento proponendovi un’ultima riflessione su quello che noi salvadoregni possiamo aspettarci da papa Francesco. A molti sembrerà che questa domanda cui vorrei rispondere sia posta con uno sguardo meramente provinciale, perché Monsignor Oscar Arnulfo Romero è un cristiano di tutti i popoli. Essendo la Voce dei senza voce, egli si trova in qualunque luogo del mondo dove ci siano esseri umani imbavagliati affinché non dicano la verità; dovunque ci siano poveri vittime dell’ingiustizia sociale, anche lì lui è; ovunque ci siano battezzati che vogliono essere sempre fedeli alla Chiesa secondo il principio “sentire cum ecclesia”, lì è il vescovo Romero; ovunque ci siano persone ricche che praticano la giustizia e la carità, non può mancare la sua presenza sempre amichevole e misericordiosa.
Ho avuto la gioia di fare visita a Jorge Mario Bergoglio per due volte a Buenos Aires, quando era Cardinale e Arcivescovo di quella città. Entrambe le volte sono stato ricevuto come un re. Non senza un certo stupore da parte mia, perché lui, in modo molto naturale, sembrava essere un servitore in casa sua, piuttosto che il padrone di casa. Mi ricevette nel suo studio, che pareva più una stanza di incontri amichevoli e fraterni che un ufficio per clienti o per fedeli.
Nell’ultima delle due visite che gli ho fatto, nel 2012, ho avuto due grandi emozioni. La prima: visitando la casa dei sacerdoti anziani già in pensione, mi sono reso conto che stavano preparando una stanza, che appariva sobria e semplice. Ho chiesto per chi la stessero preparando e il diacono incaricato di servire gli anziani mi ha detto che la stanza era per il Cardinal Bergoglio che, prossimo a ritirarsi, voleva passare gli ultimi anni della sua vita vivendo accanto ai più anziani e servendo i sacerdoti più malati della sua diocesi.
La seconda grande emozione è stata al momento di consegnare nelle sue mani l’ultimo libro che avevo scritto sulla vita di Monsignor Romero. Gli spiegai di essere stato il primo a scrivere una biografia di Monsignor Romero, intorno al 1985. Gli dissi che nella prefazione di quella biografia avevo scritto le mie scuse al lettore per non aver detto nulla della vita di Romero quando era un giovane studente a Roma, non avendone documentazione appropriata. Gli spiegai allora che recentemente avevo trovato un mucchio di fogli scritti a mano dallo stesso Romero, ed erano proprio gli appunti spirituali della sua gioventù.
Con l’inedita documentazione fra le mani, mi sono messo a completare la biografia già scritta, il cui risultato è un bel libro che è una sorta di Diario dell’anima di Monsignor Romero. Il titolo che ho dato al libro è: DOVEVA MORIRE COSÌ, DA SACERDOTE, PERCHÉ COSÌ È VISSUTO.
Questo libro è stata una rivelazione per tutti, poiché fino a quel momento tutti i libri parlavano di Monsignor Romero martire, Monsignor Romero Profeta, Monsignor Romero “Voce dei senza voce” ecc. Nessuno aveva letto nulla di come Romero fosse interiormente, delle sue scelte cristiane e della sua crescita spirituale. Nel libro accosto gli appunti spirituali della giovinezza di Romero con i suoi quaderni spirituali da arcivescovo e ne emerge chiaramente una coerenza, una continuità ed una felice crescita.
L’allora Cardinale Bergoglio mi ringraziò del regalo che gli avevo fatto consegnandogli questo libro e sono sicuro che vi avrà scoperto una dimensione doppiamente gradita ai suoi occhi. Prima di tutto, la personalità cristiana profondamente evangelica di Monsignor Romero e poi la spiritualità al cento per cento ignaziana con cui era scolpita la sua vita, la sua anima, il suo pensiero e il suo cuore.
Mons. Jesús Delgado Acevedo
San Salvador, settembre 2013