David Rosen
Rabbino, consigliere speciale della Casa della Famiglia Abramitica (AFH) di Abu Dhabi, Israelebiografia
Il titolo di questo panel può essere compreso su due livelli – il primo è la domanda teologica sul significato della sofferenza, ed il secondo è rappresentato dagli imperativi etico-religiosi che scaturiscono dalla realtà della sofferenza.
Riguardo al significato teologico della sofferenza il saggio della Mishnah, Rabbi Yannai, dichiara: “ non abbiamo la capacità (di spiegare) né la prosperità del malvagio né la sofferenza del giusto” (Etica dei Padri, 4:15). In altre parole, la comprensione umana dell’economia divina e del modo di operare di Dio sono limitate. Ovviamente questo è, in definitiva, il messaggio del libro di Giobbe.
Tuttavia l’ebraismo afferma che “Giusto è il Signore in tutte le sue vie e buono in tutte le sue opere” (Ps 145, 17). L’ebraismo rabbinico risolve l’apparente contraddizione tra questa affermazione e la cruda realtà di questo mondo, dichiarando, con le parole di Rabbi Jacob, che il mondo è come il vestibolo davanti alla sala del banchetto. Perciò, “preparatevi nel vestibolo, affinché possiate entrare nella sala del banchetto” (Mishnah, Etica dei Padri, 4:16). In altre parole, la nostra esistenza corporea è solo la parte iniziale della storia delle nostre anime, e soltanto nell’aldilà (nel Paradiso e nell’Inferno) sarà stabilita la giustizia (il premio e la punizione). In questo senso, secondo il Talmud di Gerusalemme (Trattato Haggigah 2:1), lo stesso Rabbi Jacob avrebbe spiegato che quanto promesso dalla Torah, una vita lunga e benefici durevoli, “si riferisce al mondo che verrà, che è interamente buono … e che dura in eterno”.
Tuttavia, l’oggetto della nostra discussione riguarda anche cosa sia la sofferenza, e quando essa è tale. Vi è una famosa storia chassidica che racconta come uno dei discepoli del grande rabbino di Mezrich gli chiesero di spiegargli il passaggio della Mishnah (Trattato Berachot 9:3) che dice che dobbiamo ringraziare Dio per il male destinato a passare, alla stessa maniera che per il bene. Il rabbino gli disse che avrebbe dovuto recarsi ad Anipol e cercare un uomo chiamato Zusha che glielo avrebbe spiegato.
Il discepolo viaggiò fino al piccolo borgo di Anipol e chiese dove fosse il grande rabbino Zusha. Gli dissero che l’unico Zusha era un uomo umile che viveva in una piccola capanna ai bordi del villaggio. Il discepolo andò alla capanna e bussò alla porta. Un uomo che rispondeva al nome di Zusha arrivò ed aprì la porta. Prima che il discepolo potesse chiedergli alcunché, Zusha gli diede il benvenuto, lo fece sedere ad un piccolo tavolo traballante, e gli offrì di condividere il pane e l’acqua che la sua famiglia stava per consumare. Il discepolo si guardò attorno e vide un domicilio impoverito, squallido, piccolo ed angusto, una famiglia che aveva a malapena di cui vivere, e Zusha stesso non era in gran buona salute. Dopo un po’ il discepolo spiegò la ragione del suo viaggio, che il gran rabbino di Mezrich lo aveva istruito di venire nel borgo di Anipol per incontrare Zusha e per capire le parole della Mishnah secondo le quali bisogna ringraziare Dio sia per il bene che per il male. Zusha lo guardò stupito. “Non ho idea perché quel sant’uomo del rabbino ti abbia mandato da me e non ho idea perché lui pensa che io ti possa raccontare qualcosa riguardo a fare l’esperienza del male”, dichiarò, “Dio a me ha fatto soltanto del bene”.
Il messaggio della storia è chiaro: il fatto che qualcuno percepisca qualcosa come un male o anche una sofferenza dipende dal suo modo fondamentale di porsi di fronte alla vita. Qualcuno che vive nella pienezza del senso della provvidenza divina guarda in maniera diversa a qualcosa che ad altri può sembrare come un male o anche come sofferenza.
In effetti, se per qualcuno lo scopo della vita è il piacere materiale e la soddisfazione personale, allora l'assenza di ciò viene vista come “dolore e sofferenza”. Tuttavia, in una prospettiva religiosa non sono il piacere materiale e la soddisfazione personale lo scopo della nostra esistenza. Lo scopo della nostra esistenza sono il nostro sviluppo etico e spirituale.
Di sicuro l’ebraismo non vede il dolore e la sofferenza come un ideale; tuttavia non li considera necessariamente negativi e privi di valore. E ciò ci porta al secondo aspetto della nostra discussione, e cioè le implicazioni religiose ed etiche di ciò che viene chiamata “sofferenza”.
La Torah non considera la sofferenza essere, troppo spesso, la conseguenza negativa delle nostre azioni negative. Piuttosto vede la sofferenza come qualcosa che ha il potere di farci tornare ai valori ed alle priorità importanti della vita, e persino come qualcosa di storicamente necessario per la riabilitazione del popolo nel suo insieme.
La tragedia collettiva dell’esilio veniva vista nella tradizione ebraica come la conseguenza di aver fallito per non essere stati capaci a vivere secondo lo standard elevato del modo di vivere rivelato da Dio – la Torah. Pertanto, nonostante sappiamo che sono stati i babilonesi a distruggere il Primo Tempio e ad averci esiliati, e che sono stati i romani a distruggere il secondo tempio e ad averci esiliati, durante la liturgia delle Festività del Pellegrinaggio continuiamo a recitare: “A causa dei nostri peccati siamo stati esiliati dalla nostra terra”. La risposta tradizionale ad una tragedia non è quella di dare la colpa ad altri, ma di trovare l’opportunità di fare una ricerca introspettiva in noi stessi, e di sapere che avremmo potuto e dovremmo comportarci diversamente. Ed è precisamente ciò che la Bibbia ci comanda di fare:
“Ma di là (dall’esilio) cercherai il Signore, tuo Dio, e lo troverai, se lo cercherai con tutto il cuore e con tutta l'anima. Nella tua disperazione tutte queste cose ti accadranno; negli ultimi giorni però tornerai al Signore, tuo Dio, e ascolterai la sua voce, poiché il Signore, tuo Dio, è un Dio misericordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l'alleanza che ha giurato ai tuoi padri”, e ti farà tornare nel Paese dei tuoi padri.
Davvero il Talmud celebra il valore purificante della sofferenza. Ma è proprio questo il punto saliente. La sofferenza non è un valore in per sé stessa, ma in quanto ci conduce a comprendere; e, soprattutto, in ciò che ci porta a fare.
Sarà stato ribadito tante volte, ma è pur sempre vero, che due persone possono fare la stessa esperienza o due esperienze simili tra loro – che siano causa di gioia o di sofferenza, ed emergere con risposte diametralmente diverse. Gli esempi tratti dalla shoah sono particolarmente impressionanti. Ho incontrato persone che, dopo l’enorme tragedia della loro esperienza nei campi di concentramento nazisti hanno vissuto vite nell’isolamento e nell’amarezza e nella preoccupazione per sé. Ho anche incontrato molti sopravvissuti la cui esperienza non ha che aumentato la loro umanità, il loro amore per gli altri e l’impegno per il bene comune.
Il valore della sofferenza sta esattamente nella misura in cui ci rende capaci di provare empatia per gli altri. Si dice che il maestro chassidico Rabbi Moshe Leib di Sassov rivendicava di aver capito il significato più profondo del comandamento di Levitico 19:10 “Amerai il tuo prossimo come te stesso…”, ascoltando la conversazione di due contadini russi. L’uno chiese all’altro: “Boris, mi vuoi bene?” Il suo amico rispose: “Ivan, certo che ti voglio bene!”. Ripresero a bere vodka e, un minuto dopo, Ivan chiese: “Boris, lo sai cos’è che mi affligge?” Boris pensò un istante, e poi rispose: “Come faccio a sapere cos’è che ti affligge?” Ivan ribatté: “Boris, se non sai qual è l’origine della mia pena, come puoi dire di volermi bene?”
Amare veramente qualcuno significa avere sensibilità per la sofferenza dell’altro.
Il salmo 145 (verso 9) dichiara che la misericordia di Dio “si espande su tutte le sue creature”. In altre parole, Dio risponde alle sofferenze di tutti (v. anche Esodo 22:26). Perciò, se viviamo nell’ideale più alto della Bibbia, l’Imitatio Dei, emulando gli attributi divini, dobbiamo cercare di provare quanto più possibile l’empatia verso gli altri che soffrono. Quanto più facciamo ciò, tanto più adempiamo al comando di amare il prossimo e tanto più sappiamo essere portatori dell’autentico amore di Dio ed imitatori degli attributi divini.