Il titolo di questo panel è piuttosto paradossale: come si fa infatti a ripartire dai poveri, da gente che non conta, dallo “scarto” della nostra società, come direbbe papa Francesco, per costruire una società più umana? Di solito sembra siano i potenti, i ricchi, a rendere possibili i grandi cambiamenti nella società. Oggi è la massa di denaro vero o fittizio in grado di spostare capitali e risorse che produce cambiamenti a volte disastrosi, come l’attuale crisi economica che ci sommerge. Possiamo dunque ripartire dai poveri per una società più umana?
Siamo di fronte a un mondo pieno di ingiustizie. Sarebbe utile ogni tanto rileggere le parole dei profeti, a partire da Amos e Isaia per arrivare fino ad Ezechiele, per imparare a leggere l’ingiustizia del mondo e almeno provare scandalo e vergogna di fronte ad essa. I poveri sono tanti, una buona parte degli abitanti del pianeta. E, mentre il benessere di una parte aumenta, la povertà di altri diminuisce e l’abisso che separa poveri e ricchi cresce a dismisura. La massa dei poveri ci ricorda che non ci salveremo senza di loro, che non potremo sottrarci alle domande che provengono dalla loro condizione. Essi sono infatti innanzitutto una domanda al nostro mondo, al modello di società in cui viviamo. Senza la coscienza del comune destino che ci accomuna a loro non saremo in grado di salvare il mondo e neppure noi stessi, perché il loro bisogno e i loro drammi si affacceranno sempre alla porta del mondo ricco, come avvenne al povero Lazzaro che sedeva con la sua domanda pressante alla porta del ricco che banchettava lautamente. E’ quanto sta avvenendo agli immigrati che arrivano in Europa attraverso l’Italia e altri paesi. Possiamo pure costruire muri nel Mediterraneo, ma i muri non potranno fermare il loro flusso. La storia è fatta di popoli e di migranti che si muovono mossi dal bisogno. Sono flussi che la storia ci dice inarrestabili.
Per questo la Bibbia sempre rimette i credenti di fronte all’ingiustizia nei confronti dei poveri. Il loro “grido” non può non essere ascoltato. Per noi cristiani ascoltare quel grido è parte della nostra vita di fede, non solo per rispondere ad esso, ma perché non esiste il popolo dei cristiani senza i poveri. Essi sono parte integrante della vita cristiana. Scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium: “La Chiesa ha riconosciuto che l’esigenza di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi, per cui non si tratta di una missione riservata solo ad alcuni” (188). La disumanità del mercato globale è sotto gli occhi di tutti: sfruttamento minorile, schiavitù, mercato degli esseri umani, appropriazione e sfruttamento indebito delle risorse del pianeta, con le guerre conseguenti e le miserie annesse. Il profeta Ezechiele direbbe, anticipando di molto i tempi - ma la Bibbia lo fa quasi sempre -, che le ingiustizie a livello globale (ovviamente per il suo mondo) sono la conseguenza del peccato originale dei popoli, quello di chi si innalza sugli altri con il suo potere e la sua ricchezza per derubare e sottomettere. Per questo i poveri richiamano sempre alla verità di un’umanità che non si rassegna al dominio sfrenato e a un potere che si impone e dispone degli altri secondo i propri interessi.
Secondo la Bibbia spesso l’unico che ascolta i poveri è Dio, perché è l’unico a cui sta a cuore che vi sia giustizia e uguaglianza e che i beni da lui creati siano per tutti. Solo a partire da loro sarà possibile ristabilire un mondo umano. Nel Vangelo di Luca l’annuncio del Vangelo ai poveri apre la vita pubblica di Gesù, che si appropria delle parole di Isaia per affermare che è giunto il tempo della realizzazione di un mondo dove non solo ci sia posto per loro, ma dove essi saranno i primi a ricevere la buona notizia del Regno di Dio. Anche negli altri Vangeli il Regno di Dio si manifesta con le guarigioni dei malati, l’amore di Gesù per i poveri, il perdono dei peccatori. Il grido del cieco di Gerico Bartimeo riassume il grido dei poveri che si rivolgono a Gesù per ottenere quello che gli uomini non sanno dare loro. Quel grido squarcia l’indifferenza e il fastidio degli astanti, che lo rimproverano per farlo tacere (Mc 10,46-52) e aprono quell’uomo alla reintegrazione piena nella società che lo aveva escluso. Il cieco, dice il Vangelo, “seguiva Gesù lungo la strada”, viene cioè incluso nella famiglia di Gesù. I poveri vengono inclusi da Gesù liberandoli da un mondo che li teneva ai margini, diventando così parte di un nuovo popolo di “umili e di poveri”, come aveva annunciato il profeta Sofonia (3,12). E’ il popolo di Dio, il popolo di una nuova umanità che Dio aveva voluto fin dalle origini, un popolo di fratelli e sorelle.
Nella vita cristiana non possiamo dimenticare che Gesù si identifica con i poveri, sul cui amore saremo giudicati: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare…” (Mt 25,31ss). E qui entra un’altra osservazione: i poveri in qualche modo ci obbligano alla compassione e al servizio, ci inducono a una gratuità tanto essenziale alla vita ma così estranea al mondo mercato, senza la quale l’umanità non saprà porre al centro del suo vivere e convivere l’unica legge essenziale, quella dell’amore reciproco. Senza i poveri saremmo tutti meno umani, perché ci dimenticheremmo che per vivere bisogna anche dare. E un ricco se lo dimentica troppo facilmente se rimane tra i suoi, o se quando dà, lo fa per interesse. Di fronte al povero invece tu lo puoi fare solo perché dai a fondo perduto, gratuitamente. Per questo la Bibbia raccomanda l’elemosina come gesto semplice ma essenziale che esprime la gratuità dell’amore. Dice il libro del Siracide: “L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati… Figlio, non rifiutare al povero il necessario per la vita, non essere insensibile allo sguardo del bisognoso” (3,31-4,1). Gesù guarda i poveri che lo seguono con compassione. La compassione nella Bibbia è quell’atteggiamento della madre verso il figlio che ha ancora nel suo ventre e sente parte della sua stessa vita. Questo è il modo di vivere del cristiano, ma, mi permetto di dire, che un po’ di cristianesimo vero in più renderebbe il mondo più umano, un po’ di amore in più per i poveri umanizzerebbe una società malata di individualismo e prigioniera del denaro e del benessere, triste ed egoista, che mette al mondo i figli, li fa vivere a lungo, e poi diventa matrigna e si permette di farli morire con una morte dolce, si dice. Peccato che la morte non è mai dolce per nessuno!
Infine concludo con una riflessione al negativo: l’eliminazione del povero compromette la convivenza. Il primo episodio biblico in cui appare un povero si trova nel capitolo quarto della Genesi, posto alle origine della vicenda umana, ed è il racconto di Caino e Abele. Ma Abele in realtà è un senza nome, perché ai poveri non si dà neppure la dignità di un nome. Infatti in ebraico la parola hebel significa nulla, uno scarto, uno che non viene accettato come essenziale per l’altro, Caino. La storia umana è segnata per sempre da questo rifiuto: Caino, il forte, non accetta che la sua umanità si realizza solo includendo hebel, il fratello debole, il nulla, il povero. La storia è segnata da questa violazione e dalla conseguente violenza, che conduce all’eliminazione dell’altro, escludendolo dalla possibilità di essere parte della medesima storia come fratello. La Bibbia pone tutti i rapporti umani sotto il segno di questo rifiuto. Questo episodio suona come un monito che spesso si dimentica: il forte non si realizza se non in rapporto al debole, il ricco non si realizza se non in rapporto al povero, il grande non si realizza se non in rapporto al piccolo, e così via. Per questo nei Vangeli si proclamano le Beatitudini, attraverso cui si afferma che il Regno di Dio si realizzerà quando si formerà quel popolo nuovo di umili e di poveri.