8 Settembre 2014 16:30 | Auditorium BNP Paribas Fortis

Intervento



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Paul Scheffer

Università di Tilburg, Olanda
 biografia

La società aperta e i suoi credenti

1. Rifiuto, conflitto e accoglimento

Quante volte sentiamo l’irrefutabile affermazione “l’immigrazione è sempre stata con noi”, il concetto che la gente è sempre in movimento e la nostra epoca non è un’eccezione? Il comune di Amsterdam scrive infatti: “Circa metà degli abitanti di Amsterdam sono nati fuori dai Paesi Bassi. Ciò non costituisce nulla di nuovo. Per secoli Amsterdam, in quanto città di immigrati, è stata aperta a genti di diverse origini e fedi. Si pensi agli ebrei portoghesi, agli ugonotti francesi e ai lavoratori stagionali tedeschi”.

Anche se accettiamo che, in una prospettiva storica, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, non si può dubitare che stiamo assistendo a un profondo cambiamento nella composizione delle popolazioni occidentali. La gente si muoveva certamente moltissimo nel XVII secolo, ma ciò non serve a ridurre lo sconvolgimento cui vanno incontro le nostre città oggi. I lavoratori ospiti dal Marocco e dalla Turchia, che stanno modificando le periferie olandesi, non sono semplicemente il corrispondente dei lavoratori stagionali tedeschi che soggiornavano nei Paesi Bassi nei secoli passati. Il fatto che gli ebrei portoghesi facessero rotta per l’Olanda per sfuggire all’inquisizione della Chiesa cattolica non rende naturale che i rifugiati dai dispotismi islamisti dell’Iran e dell’Afghanistan debbano venire a vivere qui.

Le società ospitanti sono esitanti nel rapporto coi nuovi arrivati; le popolazioni residenti stanno diventando visibilmente più rigide e orientate a rifuggire il mondo esterno. C’è bisogno di un approccio più sincero alle frizioni e ai conflitti che discendono sempre dall’arrivo di gruppi di migranti di significative dimensioni. Le precedenti generazioni di storici e sociologi ci hanno lasciato un significativo corpus di lavori a cui attingere. Oscar Handlin, il più noto storico dell’immigrazione in America, è una fonte d’ispirazione. In The Uprooted (1952), egli descrive le cause e gli effetti delle migrazioni dall’Europa all’America. Queste possono essere riassunte in una frase: “La storia dell’immigrazione è una storia dell’alienazione e delle sue conseguenze”. Alienazione e perdita sono elementi essenziali di ogni descrizione dell’arrivo di migranti in un ambiente sconosciuto.

Handlin pensa principalmente a quelli che arrivavano, “perché gli effetti della migrazione sono stati più duri per i migranti che per la società in cui si sono inseriti”. Egli narra la storia di quei milioni di persone lasciate alla deriva dall’industrializzazione e dalla stupefacente crescita della popolazione nella seconda metà del XIX secolo. La dislocazione e la povertà che ne derivavano, soprattutto nelle aree rurali, portarono a migrazioni di massa da paesi come l’Irlanda, la Germania, l’Italia, la Svezia, la Norvegia e la Polonia. Enormi forze economiche e sociali erano in azione, e le persone furono sradicate dagli ambienti che occupavano da secoli. Difficilmente qualcuno di essi ha salutato questa come una liberazione, dice Handlin, poiché essa significava soprattutto separazione.

In ambienti non familiari, molti videro un rifugio nelle certezze della propria religione. “In tal senso tutti gli immigrati erano conservatori… tutti cercavano di riorientare le proprie idee nel quadro di un rafforzamento delle istituzioni religiose e culturali che li avrebbero resi saldi contro il Nuovo Mondo estraneo”. Questo intenso desiderio di ritornare alle vecchie strutture e abitudini serviva come aiuto per sopravvivere in un ambiente urbano. È facile capire perché molti immigrati cercassero di perpetuare la vita di paese in città straniere, il che rende particolarmente arduo capire per quale ragione gli immigrati siano descritti così spesso come grandi innovatori.

Nella loro nuova terra così disorientante e piena di pericoli le persone avvertivano il bisogno del sostegno della propria religione, ma la conservazione della fede religiosa costituiva una sfida: “L’ambiente stesso, in tutta la sua estraneità, confusione e libertà, rendeva difficile preservare ciò che a casa era dato per assodato”. Il risultato finale era anche troppo spesso un senso di non appartenenza a nessun luogo e a nessun tempo. “In questo modo si erano completamente alienati dalla cultura in cui si erano introdotti, così come da quella che avevano lasciato”. Questa è un’esperienza condivisa da molti immigrati contemporanei quando tentano di entrare in contatto con una società nuova.

Non furono soltanto gli stessi migranti ad essere colpiti dall’insicurezza. Quelli che già vivevano nella nuova terra, che in fin dei conti non era uno spazio vuoto, ma possedeva propri costumi e tradizioni, furono sbalestrati. Handlin riconosce la loro parte di storia: “Era tutto così bello qui intorno, avrebbero detto più tardi, prima che arrivassero gli altri. Gli altri portavano modi di vita stranieri e lingue incomprensibili, vestiti forestieri e cibi strani, erano poveri, lavoravano sodo, e pagavano affitti più alti per sistemazioni peggiori”.

In uno studio precedente, Handlin aveva esaminato la reazione dei bostoniani del XIX secolo all’arrivo di immigrati irlandesi che giunsero in gran numero. Dopo che i due gruppi si scontrarono, ci volle almeno mezzo secolo perché la città ritrovasse il suo equilibrio. “Il conflitto fra i gruppi lasciò una cicatrice permanente che sfigurò la struttura della vita sociale di Boston”. Tuttavia l’approccio di Handlin fu fine ed egli evitò di far ricadere il biasimo sull’una o l’altra parte. Utilizzò espressioni caute come “diffidenza latente” e “disagio sociale” per descrivere gli atteggiamenti dei residenti.

Non è difficile comprendere reazioni come queste. La gente vedeva il proprio mondo modificato dagli immigrati e istintivamente anelava a tornare a una concezione condivisa della comunità quale essa era stata prima. Basta poco per convincere coloro che non si sentono più a casa nel loro ambiente, del fatto che tutti noi prima o poi ce ne dovremo andare. Nell’espressione, spesso ostile, “straniero nella tua stessa terra” si cela il riconoscimento che le migrazioni hanno portato gente di ogni parte del mondo a stabilirsi nelle principali città di oggi. Dobbiamo guardare in faccia il sentimento, provato dalle popolazioni residenti, che una società ben conosciuta si stia perdendo, così come dobbiamo riconoscere il sentimento di sradicamento tra molti nuovi arrivati.

Eppure questa alienazione non dura per sempre, anzi è vero il contrario. Già negli anni ’20 il sociologo statunitense Robert E. Park descriveva quello che veniva allora definito il ciclo delle relazioni razziali come qualcosa che inizia con l’isolamento e il rifiuto e si evolve, attraverso contatto, competizione e conflitto, verso l’accoglimento e l’assimilazione. C’è una logica sottesa a questo: all’arrivo i migranti tendono a restare fra loro, in parte anche a causa dell’atteggiamento di rifiuto che percepiscono nella società intorno a loro. Negli anni seguenti gli immigrati e i loro figli lottano per ottenere un posto per sé nella nuova terra, e ciò porta a rivalità e conflitto. La questione di come tutti possono vivere insieme diviene ineludibile. Se si trova una risposta soddisfacente, i discendenti dei primi migranti verranno assorbiti più o meno agevolmente nella società. Questa è una prospettiva auspicabile e si rifà al modello familiare delle tre generazioni.

Certo, tale processo non può essere davvero diviso in fasi o in generazioni così chiaramente, ma la questione centrale è che ogni storia di migrazioni comporta conflitti. È stato ed è così in America e il modello si va ripetendo nell’Europa contemporanea. È difficile sapere quanto lungo o duro sarà il periodo del conflitto, ma la fase del rifiuto si sta progressivamente avviando al termine. Dovremmo vedere le attuali frizioni come passaggio della ricerca di modi in cui i nuovi arrivati e gli antichi residenti possano convivere. Il conflitto ha in molti modi un effetto di socializzazione.

L’emancipazione non può essere raggiunta senza pionieri. In quella pentola a pressione che sono stati gli ultimissimi anni, c’è stata un’indubbia accelerazione di questi sviluppi. Il conflitto è in fin dei conti un segno d’integrazione, così dovremmo fare una valutazione realistica della rabbia e della frustrazione di molti figli di immigrati. Molto più spesso di quanto possiamo immaginare dietro ciò che essi dicono si nasconde una bruciante ambizione di far parte della società. Nel 1918 il sociologo Georg Simmel scrisse sul significato del conflitto. La sua posizione sull’indifferenza è totalmente negativa, mentre sostiene che il conflitto abbia in sé qualcosa di positivo: “La nostra opposizione ci fa sentire che non siamo completamente in balia delle circostanze. Ci permette di mettere coscientemente alla prova la nostra forza e solo così dà vitalità e reciprocità a situazioni dalle quali senza un simile correttivo, fuggiremmo ad ogni costo”.

L’immigrazione è l’aspetto più visibile della globalizzazione, la quale dà a molti la sensazione che il mondo loro familiare stia svanendo. Ciò non viene ancora avvertito come un miglioramento. Nei paesi europei molte persone sono convinte che un periodo di stagnazione o addirittura di declino si prospetti. Meno persone pensano che i loro figli avranno un futuro migliore, laddove la generazione del dopoguerra ebbe la piacevole prospettiva che i loro discendenti avrebbero avuto vite più libere e più prospere. Ciò non ci permette di affermare che le generazioni future vedranno l’epoca attuale come gli ultimi giorni felici. Proprio ora tutto ciò che conta è che un senso di perdita si sta affermando e la gente sta cercando vie per superare questa esperienza.

Nella storia delle migrazioni il pendolo oscilla avanti e indietro tra apertura e chiusura. Più avanti analizzeremo più diffusamente l’esperienza americana, ma dobbiamo qui segnalare che, dopo quarant’anni di immigrazione di massa tra il 1880 e il 1920, venne adottata una nuova legislazione che ridusse al minimo gli accessi fino al 1965. La somiglianza con l’Europa attuale è stridente; anche qui, dopo decenni di immigrazione di massa c’è un diffuso desiderio di controlli più stretti.

In altre parole, la richiesta di frenare l’afflusso non è un fenomeno esclusivamente europeo, né rappresenta un’impossibilità di andare d’accordo con gli immigrati, un fallimento che possa magari essere ascritto alla relativamente breve vicenda di immigrazione dell’Europa. Una politica più restrittiva come strumento per ristabilire l’equilibrio sociale è un’opzione che dovrebbe essere presa seriamente in considerazione. La storia mostra che l’avvicinamento spontaneo tra le popolazioni residenti e i nuovi arrivati è raro. Il rischio che ognuna delle parti continui innalzare palizzate con contrapposte dichiarazioni di lealtà – entrambi proclamando apertamente in effetti “i miei prima di tutto” – significa che dobbiamo farci carico di addentrarci in ciò che sta dietro a questa ostilità.

 

2. L’integrazione richiede autoanalisi

Il movimento di genti negli ultimi decenni ha avuto un impatto considerevole. I nativi e i nuovi arrivati spesso appaiono fortemente separati, e sotto una patina di armonia si possono ascoltare – da parte di chi vuole udire – innumerevoli storie sui quotidiani conflitti culturali. Un conflitto evitato con successo per anni, è esploso ancor più violentemente. Dove il silenzio ha regnato così a lungo, si finisce per dire troppo e in maniera troppo stridente. La sola diplomazia multiculturale non basterà per costruire la fiducia reciproca, non foss’altro perché a lungo ci si è posti solo poche domande imbarazzanti, sia perché nessuno era particolarmente interessato alle risposte, sia perché si avvertiva che in caso di risposta si sarebbero suscitati troppi problemi. Noiriel sottolinea che le crisi legate alle migrazioni “sono momenti in cui le regole sociali per la totalità della società ospitante si sgretolano e vengono ridefinite”.

La richiesta di integrazione suggerisce la replica: “integrazione va bene, ma in cosa?”. Una società che ha poco o nulla da dire di proprio si rivelerà presto difettosa. Ciò non è sfuggito all’attenzione degli immigrati, che rispondono con una combinazione di “ma che cosa volete davvero da noi?” e di “per amor di Dio lasciateci in pace”. Come ha sottolineato uno studente: “Qui non sai mai dove collocarti. In pratica che cos’è l’integrazione? Quali sono le norme e i valori olandesi o francesi o britannici? Io ho la sensazione che i politici siano deliberatamente evasivi in materia, in modo da poter sempre dire: no, non è questo che intendevamo”.

Tali reazioni sono sempre più spesso espresse in toni addolorati, ma chiunque miri a colmare il divario nondimeno deve mettersi in condizione di offrire una risposta convincente. Quello di “diversità” è un concetto cui si ricorre comunemente, ma esso non chiarisce granché il problema. Va da sé che una società aperta è caratterizzata da atteggiamenti, modi di vita e di pensiero divergenti, ma pure in una democrazia liberale ci sono dei limiti: non tutto ciò che è differente ha valore. Abbracciare indiscriminatamente la diversità equivale a proteggere le abitudini e i costumi tradizionali da ogni valutazione critica. Esiste una tendenza a rivolgersi alle famiglie immigrate come membri dei gruppi cui si presume che appartengono. Questo si applica non solo nei confronti della prima generazione che entro certi limiti conserva le tradizioni del paese d’origine, ma anche ai figli e ai nipoti degli immigrati. Si considera che essi perpetuino una particolare cultura, mentre può ben succedere che molti ragazzi “turchi” preferiscano ascoltare il rapper americano 50 Cent piuttosto che la pop star turca Sezen Aksu – e questo a prescindere dal fatto che molte diverse influenze possano essere rintracciate nei lavori di Aksu.

C’è un’altra ragione per cui l’interpretazione prevalente della diversità non costituisce necessariamente un progresso. Se le minoranze continuano a considerarsi innanzitutto come gruppi etnici, c’è realmente il pericolo che anche le popolazioni maggioritarie si percepiscano a loro volta sempre più in termini etnici, specialmente quando in molte città si ritrovano in minoranza. Il sociologo americano Charles Gallagher ha osservato: “Che piaccia o meno, i bianchi della classe media e medio-bassa si percepiscono come una minoranza e hanno adottato un atteggiamento vittimistico”. Questo è il rischio che noi corriamo enfatizzando l’etnicità. Perché si dovrebbe permettere ad un gruppo di richiamarsi alla propria identità etnica, se ad un altro gruppo ciò non è permesso?

È sempre importante tenere a mente la finalità di costruire una società in cui alle persone sia chiesto come vedono il proprio futuro, non una in cui esse siano giudicate secondo il loro passato. Arrivare a questo sarà un processo per errori e tentativi, e tutti i cittadini dovranno guardare al di là delle linee di divisione etniche.

Si afferma spesso che l’integrazione dovrebbe coinvolgere sia i nuovi arrivati che gli autoctoni, ma che significa questo in realtà? Invece di enfatizzare le differenze tra le minoranze e la maggioranza, dovremmo concentrarci sulla cittadinanza condivisa come ideale cui ciascuno possa aspirare. I migranti possono essere invitati e sfidati da una società solo se questa possiede una forte cultura della cittadinanza. I problemi che riguardano gli immigrati e i loro figli sono a tutti gli effetti questioni sociali generali. Essi riguardano non solo istituzioni importanti come l’istruzione, ma anche diritti costituzionali come la libertà d’espressione. Questa è la ragione per cui le migrazioni incidono così a fondo: vanno dritte al cuore delle istituzioni e delle libertà.

Il principio di base è semplice: le popolazioni autoctone non possono pretendere dai nuovi arrivati più di quanto esse stesse siano pronte ad offrire. Quelli che incoraggiano gli altri a vedersi come concittadini, devono avere almeno una qualche nozione di cosa significhi essere un cittadino e mettere in pratica questa nozione per quanto possibile. Di qui il disagio che caratterizza i dibattiti sull’integrazione. Una popolazione stabile che chieda agli altri di integrarsi presto o tardi si troverà a propria volta di fronte a richieste analoghe. Tutto questo fa parte di una ricerca continua, un processo di rinnovamento sociale.

Prendiamo le competenze linguistiche. Non ci può essere dubbio che la padronanza della lingua ufficiale di un paese costituisca un prerequisito per tutti coloro che cercano di stare al passo come cittadini. Gli olandesi hanno quindi fatto un gran parlare, negli ultimi anni, dei deficit di linguaggio nelle famiglie immigrate, un problema correntemente definito come “scarsa alfabetizzazione”. È stata solo questione di tempo prima che ci si cominciasse a chiedere: quanto sono valide le competenze di lettura e scrittura della popolazione olandese autoctona? È apparso immediatamente chiaro che centinaia di migliaia di persone sono in difficoltà, e sono ora in via di attuazione iniziative volte a elevare i livelli di alfabetizzazione a tutti i livelli.

Questo è solo un esempio di come i dibattiti sull’integrazione possano portare alla luce problemi sociali nascosti, introducendo istanze che vanno ben al di là dell’emancipazione degli immigrati. Il crescente divario tra persone colte e persone di basso livello culturale richiede attenzione; lo scrittore fiammingo David van Reybrouck lo considera come la causa più importante della corrente insoddisfazione verso la democrazia. Molte persone con un livello poco più che basale di istruzione non si sentono più rappresentate: “Come nei Paesi Bassi, una società parallela si è sviluppata in Belgio. Le persone di basso livello culturale sono la maggioranza, ma si percepiscono in buona fede come una minoranza soggetta a discriminazione”.

L’integrazione concepita come un processo su basi di reciprocità mette la società davanti a profondi interrogativi sugli strumenti per essere cittadini. Quali competenze sono essenziali? Quale tipo di conoscenza è richiesto? Quelli che pensano che gli immigrati dovrebbero saperne di più sullo sviluppo della costituzione della loro patria adottiva, per esempio, non possono evitare la domanda: tu stesso che cosa ne sai esattamente? Ciò ha rivelato un’altra debolezza delle società occidentali. Dubbi circa la coscienza storica del cittadino medio preoccupano, perché la cittadinanza comporta la comprensione che qualcosa è venuto prima di noi e qualcosa verrà dopo di noi. È difficile che si sviluppi un qualche senso di responsabilità, se le persone non si concepiscono come parte di una storia continuativa.

Il che ci conduce a un’altra serie di domande: quale immagine del passato i residenti vogliono presentare ai nuovi arrivati? Non ci sarebbe forse bisogno di discutere questa immagine con tutti, indipendentemente dal loro contesto culturale e dalla loro origine? S’insegna la storia coloniale agli scolari in modo significativo? Si dedica una qualche attenzione nelle scuole alle migrazioni verso e all’interno dell’Europa durante i secoli? Gli accenni sono di scarsa utilità. È essenziale lasciare una spiegazione del passato più veritiera ed autocritica possibile. La questione dell’integrazione ha costretto molti paesi a rinnovare i programmi scolastici.

C’è un senso ancor più fondamentale in cui il principio di reciprocità spinge le società a mettersi in discussione. Riguarda i diritti e i doveri connessi alla cittadinanza. I cittadini sono ben consapevoli dei loro diritti ma è molto meno probabile che venga datoa loro una chiara comprensione dei loro doveri. Questo è un problema cruciale, poiché le libertà non accompagnate dal senso di responsabilità finiranno per corrodersi. La questione della libertà religiosa illustra il problema. I musulmani invocano il diritto di praticare la propria religione e questo è un diritto non negoziabile, fintanto che si esercita nei limiti della costituzione, ma ciò conferisce anche a tutti i credenti la responsabilità di difendere i diritti delle persone di altre fedi o non credenti.

C’è bisogno di norme condivise a cui si sentano legate tanto la maggioranza quanto le minoranze, e tali norme includono il diritto alla libertà di coscienza. La domanda che ci dobbiamo porre è: che cosa ci dicono le difficoltà legate all’integrazione circa i punti di forza e di debolezza della società nel suo complesso? La ricerca di percorsi per vivere insieme richiede autoanalisi da parte di tutti. Questo è il significato più profondo della reciprocità che cerchiamo: quanti chiedono agli immigrati di guardare con occhio critico le proprie tradizioni devono essere pronti a sottoporre gli assunti a loro tanto cari ad un esame approfondito.

Non si dovrebbe richiedere ai cittadini, siano essi nuovi arrivati o altro, di assimilarsi alla società così come essa è oggi, ma piuttosto di identificarsi con la società come potenzialmente potrebbe essere. Tutti dovrebbero sentirsi chiamati ad aiutare la società ad avvicinarsi maggiormente al suo ideale di parità di trattamento. La reciprocità come principio basilare della cittadinanza significa che chiunque cerchi di combattere la discriminazione contro gli immigrati e i loro figli debba essere pronto a opporsi a forme di discriminazione all’interno delle famiglie immigrate, per esempio contro i non credenti o gli omosessuali. Non possiamo selezionare quando si tratta di uguaglianza.

Ciò è divenuto chiaro in occasione di una visita ad una scuola di Anversa dove una larga maggioranza degli alunni proviene da famiglie musulmane. Uno ha commentato scherzosamente: ho contato i belgi della nostra scuola, ce ne sono 23”. È una scuola di lunga tradizione e molti dei ragazzi hanno buoni risultati, ma gli insegnanti dicono che è divenuto difficile parlare di evoluzione nelle lezioni di biologia, dell’olocausto nelle lezioni di storia e di “pervertiti” come Oscar Wilde nelle lezioni di letteratura. Bisogna fare una scelta. Gli insegnanti dovrebbero sottostare ai pregiudizi religiosi che molti ragazzi si portano dietro da casa o contrastarli con tutta la pazienza e l’impegno che questo richiede?

Certamente è vero anche il contrario. Una società che ha a cuore il principio di uguaglianza deve dare ascolto a coloro che si lamentano di essere stati discriminati sul lavoro, nei pubs o nei clubs. Qualche volta è necessaria un’azione legale, ma in molte situazioni la chiave del successo è la persuasione, non la costrizione. Campagne e regole possono aiutare a combattere la discriminazione, ma noi tutti abbiamo bisogno di confrontarci pubblicamente coi pregiudizi, affrontandoli come un passo da compiere verso lo sviluppo della fiducia reciproca.

Non tutti sono favorevoli a tale reciprocità come risulta chiaramente da commenti come “sono loro che sono venuti, noi non siamo andati a casa loro”. Questo equivale a dire che la maggioranza ha il potere e il diritto di costringere le minoranze ad adattarsi. Un tale disequilibrio di potere non può mai produrre una società autenticamente integrata, se non altro perché la protezione dei diritti delle minoranze è un elemento definitorio della democrazia. Il punto di vista opposto è ugualmente improduttivo. Spesso questo assume la forma di asserzioni che non possa esistere reciprocità finché lo squilibrio tra gli autoctoni e i nuovi arrivati è grande come l’attuale. In altre parole: “non puoi chiedere a chi è in basso le stesse cose che chiedi a chi è in alto”. Questo atteggiamento non porta da nessuna parte, salvo alla concezione paternalistica per cui la gente delle comunità migranti non è responsabile del proprio destino. Cittadinanza condivisa significa, per definizione, che siamo tutti invitati a entrare nella sfera pubblica su un piano di eguaglianza.

 

3. Credenti in una società aperta

Dopo esserci occupati dell’integrazione in senso generale, dobbiamo adesso volgere la nostra attenzione all’incapacità delle società ospitanti di trovare vie di accordo con l’Islam. Si deve fare un certo numero di scelte chiare, ma queste risulteranno accettabili solo se basate sul principio di parità di trattamento. Nulla alimenta il sospetto quanto il sentimento che si applichino due pesi e due misure.

Come sarebbero le relazioni con l’Islam sulla base della parità di trattamento? La separazione di chiesa e stato, su cui si fonda la libertà di religione, è la prima priorità. Non solo lo stato deve essere salvaguardato da forme improprie di pressione da parte della chiesa; ugualmente o anche più, la chiesa deve essere protetta dall’ingerenza dello stato. Certamente, per quel che riguarda l’Islam, in linea di principio nessun ostacolo deve essere posto ai musulmani che vogliono praticare la loro fede apertamente. Le moschee fanno parte del nostro orizzonte, sebbene molte persone potranno rimanere scioccate nell’apprendere che la moschea Essalaam di Rotterdam coi suoi minareti di 50 metri è stata espressamente voluta come una importante caratteristica del profilo della città.

Se abbiamo intenzione di sottolineare il principio di parità di trattamento, dobbiamo allora chiederci se gli europei lo rispettino. Molti paesi hanno normative che contrastano con la separazione tra chiesa e stato, tipo l’obbligo di pagare tasse ecclesiastiche in Germania e in Danimarca. La secolarizzazione delle istituzioni deve procedere ulteriormente, e quanti chiedono ai musulmani di rispettare la libertà religiosa dovrebbero sentirsi in obbligo di fare appello essi stessi ad un’analoga disponibilità. La recente decisione della Corte Europea secondo cui la necessità di esporre il crocifisso nelle scuole pubbliche italiane è incompatibile col principio di uguaglianza è quindi un passo nella giusta direzione.

Questo certamente non significa che la religione debba essere bandita dalla sfera pubblica. Dietro all’indisponibilità ad accettare un Islam molto visibile soggiace il concetto che la religione sia semplicemente una questione privata, ma la separazione di chiesa e stato non equivale alla separazione di chiesa e società. Le religioni sono una companente essenziale di una società pluralista, ecco perché i musulmani, soprattutto considerando le differenze che esistono tra di loro, devono avventurarsi nella sfera pubblica dei paesi in cui vivono oggi. È un’esortazione paradossale, dato che, come qualcuno ha rimarcato: “si vuole davvero accettare soltanto un Islam passivo”. Invero, fino ad oggi, in Occidente c’è stata ben poca volontà di concepire l’Islam come parte della vita sociale.

Prima di tutto allora, è necessario un chiaro impegno alla parità di trattamento delle religioni. L’Islam politico può essere combattuto efficacemente solo se il principio di libertà di religione viene difeso senza ambiguità. Una domanda centrale può allora porsi: l’esercizio del diritto alla libertà religiosa non porta forse con sé inevitabilmente un dovere di difendere quella stessa libertà per altri credenti e per non credenti? Certamente è proprio ciò che l’Islam politico combatte, non solo a parole, ma con minacce e violenza.

Le ambizioni politiche dell’Islam non sorgono dal nulla, piuttosto sono basate su un’abitudine equamente diffusa di dividere il mondo in musulmani e non musulmani. Fin troppo spesso i musulmani si isolano in un “noi” credente che s’impegna a mantenere la propria distanza da un “loro” non credente. Quando la libertà di religione viene sfruttata come uno strumento per spargere disprezzo verso i non musulmani, il diritto a quella libertà si corrode e prima o poi verrà un momento in cui i musulmani cominceranno a minare la loro stessa capacità di vivere in una democrazia caratterizzata dalla diversità religiosa. Dopo tutto, il diritto di uno è il dovere di un altro. Questo resta vero per tutti, compresi i membri della comunità musulmana. Se una significativa maggioranza non può far emergere il rispetto di questa regola, i musulmani si stigmatizzeranno da soli.

Il dialogo interreligioso che è in corso ovunque, richiede che un certo numero di principi sia condiviso. In fin dei conti, tale dialogo deve essere fondato sull’accettazione della libertà religiosa. L’esperienza dimostra che solo pochi leader religiosi rifiutano questo: “Sì, ciò è prescritto nel diritto dei paesi europei, ma altrove può essere differente; la decisione deve spettare alle autorità”. Noi possiamo semplicemente prendere nota di tali reazioni, ma questo significa prendere la strada più facile. Quando si tratta di parità di trattamento, sarebbe appropriata una maggior fermezza rispetto a quelli che rivendicano l’uguaglianza come una questione di principio. L’integrazione dell’Islam nella democrazia pertanto richiede significativi aggiustamenti.

Infine, il principio di parità di trattamento comporta un’altra inevitabile conseguenza. Chiunque invoca la libertà di religione per un gruppo, deve riuscire a far emergere la volontà di concedere la stessa libertà ai membri del gruppo. Movimenti alternativi sono oggi piuttosto spesso oggetto di scomunica, come Tariq Ramadan è costretto a riconoscere. Egli è estremamente critico verso la mancanza di una cultura del dialogo all’interno della comunità musulmana dove è diffusa la condanna. Ci basti pensare a come alcuni dei più determinanti gruppi dell’Islam, come gli Alevi e il movimento Ahmaddiya, siano stati espulsi. Ramadan ritiene che ci sia una mancanza di volontà di mettersi in dialogo con quanti hanno concezioni differenti.

I modi in cui le dispute interne all’Islam sono gestite sono problematici al massimo grado, quando si tratta della perdita della fede. La maggior parte dei musulmani hanno eccezionali difficoltà su questo punto. Ma ancora chiunque invoca il diritto di praticare liberamente la propria religione non ha altra scelta che garantire questo stesso diritto agli altri membri della stessa comunità religiosa. La fede deve poter essere praticata liberamente o abbandonata. Anche su questo siamo molto lontani dalla situazione esistente, poiché per i musulmani affermare apertamente di non credere più comporta l’emarginazione sociale o peggio. I giovani salafiti non lasciano spazio a dubbi su questo: “Un estraneo dentro casa è certamente più pericoloso di uno fuori”, ha detto Mohammed Bouyeri.

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è perfettamente chiara sul tema dell’apostasia: “Ognuno ha diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione; questo diritto include la libertà di cambiare la propria religione o il proprio credo” (art. 18). Come molti altri articoli della Dichiarazione, questo è rimasto lettera morta in molti paesi dove la libertà viene compressa in nome di una religione di stato. Anche in Europa occidentale, il diritto di abbandonare la fede musulmana è contestato, e degli ex musulmani hanno dato vita a gruppi al fine di lottare pubblicamente per la propria scelta, di fronte a gravi minacce. I musulmani devono imparare ad accettare le decisioni di quelli che vogliono apertamente dire addio alla loro fede.

La libertà di religione non esclude la critica della religione. Al contrario, una parte dei costi di una società aperta consiste nel fatto che le tradizioni religiose possano essere sottoposte a pubblico dibattito. Una certa sensibilità da parte dei critici è normale, poiché parlare liberamente di cose che alcuni considerano sacre può essere fortemente offensivo. Cionondimeno, se i musulmani vogliono vivere nelle democrazie liberali conservando l’idea che il Corano o il Profeta siano al di sopra di qualsiasi critica e non debbano mai essere oggetto di irrisione, allora si condannano da soli al ruolo di eterni estranei. La libertà per i musulmani può essere difesa solo se i musulmani sono disposti a difendere la libertà dei loro critici.

Le decisioni assunte dai governi britannico e olandese, con le quali si considera la blasfemia punibile ai sensi di legge, ancora una volta non sono state sagge. Perché insultare gli dèi dovrebbe essere qualcosa di peggio che insultare la gente? Chiunque sostiene il principio di parità di trattamento è obbligato a considerare le visioni del mondo, religiose e laiche, come uguali dinanzi alla legge. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è chiara su questo: “La religione è su un piano di parità con gli altri convincimenti”. Esistono certamente limiti alla libertà di parola, ma non possiamo stabilire un confine alla critica o alla ridicolizzazione di una fede, altrimenti dovremmo cominciare proprio dando fuoco all’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam, coi suoi passaggi sulla “follia nella Bibbia”.

Il rifiuto del conflitto è la risposta sbagliata quando la libertà di espressione è a rischio, non solo per ragioni di principio, ma perché non serve a calmare la situazione quando i sentimenti si infiammano. Una fuga porta a un’altra. Se si prende la decisione di non pubblicare più dei fumetti, allora che fare di fronte all’agitazione causata da un’opera sulla persona Aisha, una delle mogli del Profeta? Le rappresentazioni sono state annullate a causa delle minacce. Se s’incontrano resistenze di fronte a un’opera, quale dovrebbe essere la reazione quando un giornale scopre che persino un’immagine del Corano sulla copertina del suo mensile è ragione sufficiente perché alcuni fattorini si rifiutino di distribuirlo? Il divieto d’immagine fatto proprio da parte del mondo musulmano non può mai costituire una linea guida per l’espressione giornalistica o artistica, se non altro perché il passo è breve dal divieto d’immagine a quello di parola, e da questo a quello di stampa. A quel punto il carattere aperto della società viene abbandonato per sempre.

Al contrario, la libertà di parola contribuisce alla pacifica soluzione dei conflitti. Proprio perché la gente riesce a trasformare la propria rabbia in parole o immagini, la strada che porta dal risentimento all’aggressione si fa più lunga. Non è un caso che la questione dei fumetti alla fin fine sia sfociata in violenza nei paesi del Medio Oriente, dove la libertà di parola è assai più limitata e pertanto la gente è più propensa a ricorrere alla violenza come l’ultimo mezzo disponibile per esprimere il proprio scontento. L’idea che delle limitazioni della libertà di parola possano aiutare a moderare i sentimenti all’interno della comunità musulmana è quindi fondata su un fraintendimento.

L’impasse sull’Islam dimostra che non c’è ancora un fondamento generalmente accettato per una discussione sul suo posto in una democrazia liberale. L’ambiguità diplomatica non aiuta, mentre la franchezza sui principi di libertà religiosa aiuta. La maggior parte delle società liberali non sono ancora all’altezza dell’ideale della parità di trattamento. Ci sono tante ragioni per una riconsiderazione critica della cultura maggioritaria e al tempo stesso c’è bisogno di autoanalisi da parte della minoranza musulmana. I musulmani potrebbero essere ben più aperti su ciò che accade nelle moschee e assumere un atteggiamento più deciso contro le espressioni di intolleranza nei loro stessi ambienti.

Dar luogo in questo modo a un’espressione pubblica di opinioni rimane difficile per molti musulmani. La solidarietà con la propria comunità è spesso intesa come un impegno a non dir nulla sulle cose che offendono all’interno della comunità stessa. Spesso le persone pensano: non abbiamo intenzione di esporre i nostri panni sporchi, siamo già abbastanza vulnerabili così. Ma in realtà lo spazio per i nuovi arrivati in una società cresce quando le differenze di opinione sono rese più chiaramente visibili. L’Islam ha bisogno di persone che vogliono abbandonare la loro malintesa lealtà alla “comunità” e spezzare quella mortale divisione tra amici e nemici per parlare liberamente delle cose che non vanno all’interno del diviso mondo dell’Islam – come quei genitori che rivelano la scorretta gestione finanziaria di una scuola islamica, per esempio, o lo scrittore che porta alla luce il modo in cui alcune moschee stavano organizzando richieste di sussidi sociali, o le donne che attirano l’attenzione sulla tirannia e la violenza dietro le porte chiuse della casa, o i leader di moschee che informano i servizi di sicurezza sugli estremisti in cui s’imbattono..

Queste persone facilitano le relazioni neutralizzando in qualche modo le crude caricature della parte avversa che sorgono in entrambi i campi sulla base della sfiducia. Realtà che non sono affatto integrate – che si tratti della cultura della maggioranza o di quella di una minoranza – sono troppo spesso considerate monolitiche. In altre parole, la coesistenza pacifica costituisce un’interpretazione molto limitata di ciò che significa integrazione. Confrontiamo l’Europa prima e dopo il 1989. Dove prima c’erano pace fredda e distanza, oggi c’è spazio per l’interazione e il ravvicinamento. Lo stesso vale per la società multiculturale. Noi siamo ancora troppo presi nella logica della diplomazia e della non interferenza, ma la società domanda più di questo. Il futuro dell’Islam riguarda tutti, non solo i musulmani. La fiducia è un altro nome dell’integrazione e si svilupperà tanto più facilmente se il pluralismo diviene visibile da parte di tutti.