Una storia dimenticata
Siamo qui per ricordare la strage dei cristiani nell'impero ottomano cent'anni dopo. Soprattutto l'angolo più dimenticato di questa storia: Seyfo, la strage dei siriaci, ortodossi e cattolici, dei caldei e degli assiri. Non è un dettaglio, ma una realtà storica per cui si può parlare di strage dei cristiani e non solo degli armeni (fatto di per sé molto drammatico). L'equivoco fu dall'inizio: dimenticare gli altri cristiani. Dopo la prima guerra mondiale, il patriarca siriaco, Elia III, scriveva all'arcivescovo di Canterbury (uno dei pochi rapporti internazionali di questa Chiesa): "Tutti i cristiani... -concludeva- hanno avuto la stessa sorte dolorosa". Non si tratta di competitività tra vittime, che sarebbe assurda. Del resto i siriaci erano una Chiesa piuttosto dimenticata: una Chiesa povera, restata fedele alla fede cristiana e a una tradizione spirituale ricca, in un mondo agricolo, accanto ai suoi monasteri, come nel Tur Abdin. Fernand Braudel, grande storico del Mediterraneo, parla di terre alte e di montagne, come luogo di protezione delle minoranze: così furono il monte Libano o le valli valdesi.
La questione siriaco-assira non divenne veramente un problema che si imponeva all'opinione pubblica. Esisteva la questione armena alla conferenza di pace. La vicenda degli armeni era divenuta una grande questione nazionale come quelle nazionali europee: da quella greca all'inizio dell'Ottocento all'italiana e a quelle delle nazionalità dell'impero degli Asburgo. Non fu così per gli altri cristiani che pure conobbero stragi, crudeltà, dolorose marce della morte, separazione delle famiglie, espropriazione dei beni, distruzione delle chiese, conversioni forzate, rapimenti dei bambini e delle ragazze. Per loro ci fu un grande silenzio. Non solo il silenzio del negazionismo della Repubblica turca, frutto di una costruzione ideologica ma anche del fatto che una parte della classe dirigente repubblicana era composta da ex giovani turchi. Ma silenzio delle stesse Chiese. Non potevano parlare, anche perché una parte dei cristiani vivevano in territorio turco. Erano quelli che, con espressione turca volgare, si chiamano i "resti della spada". Nel 1986, cominciai a incontrarli nel Tur Abdin o a Mardin: solo nell'intimità facevano qualche cenno a quel dramma, conservato nelle memorie familiari. Per il resto silenzio. E silenzio del mondo intero.
Eppure chi visse o tragici eventi del 1915 e degli anni successivi ebbe la sensazione che quanto avvenuto era oltre ogni misura umana. Era troppo! Troppo anche rispetto alle ondate di violenza cui le minoranze cristiane erano abituate nella storia. Era qualcosa di veramente indicibile. Non pochi testimoni delle vicende ne scrissero. Nel solo caso di Mardin tanti sono fissarono la memoria sulla carta: francesi e locali. Per decine di anni, i loro scritti restarono però sepolti negli archivi francesi, vaticani, religiosi, diplomatici. Non interessavano. Il memoriale di padre Rhétoré, forse il più efficace sulla vicenda di Mardin e della regione, fu pubblicato nel 2000 in italiano. Anche Yves Ternon, appassionato studioso di questi problemi, segnala la particolarità del fatto. Più di ottant'anni di silenzio.
I martiri restarono senza memoria, se non quella di piccoli gruppi. Non ci furono processi di beatificazione. Solo Giovanni Paolo II, nel 2001, beatificò il primo martire, l'arcivescovo armeno-cattolico di Mardin, Maloyan, figura preminente della cristianità cattolica di Mardin, composta da armeno-cattolici, siro-cattolici, caldei. E' lo stesso anno in cui Giovanni Paolo II e il catholicos armeno Karekine II, dichiarava: "Il genocidio armeno, all’inizio del secolo, ha costituito un prologo agli orrori che sarebbero seguito". Gli armeni erano una "nazione martire". Per Giovanni Paolo II non era una questione politica, ma il riconoscimento del martirio dei cristiani che la Chiesa, al di là delle opportunità, doveva compiere, come dovere di madre verso i figli caduti.
Motivi di questo convegno
Giovanni Paolo II volle che la basilica di San Bartolomeo, affidata alla Comunità di Sant'Egidio, fosse "luogo memoriale dei nuovi martiri". I martiri non potevano essere dimenticati. Anzi -affermava papa Wojtyla- nel martirio i cristiani erano già uniti. Modestamente la passione con cui Sant'Egidio ha organizzato questo convegno ha più di trent'anni di storia. Ricordo molto bene un giorno a Damasco, nel 1985, quando il compianto patriarca Zhakka I mi riceveva con mons. Paglia e Claudio Betti, accompagnati dal grande amico, Mar Gregorios di Aleppo. Il patriarca, nel patriarcato, mi mostrò un quadro che ritraeva il monastero di Deir al Zafaran, dicendo con una nota di tristezza: "noi veniamo da qui, ma ora che cosa resta?". Ebbi come un desiderio profondo di conoscere quei luoghi.
Nel 1986, un pellegrinaggio di Sant'Egidio li visitò, constatando la tristezza di un senso di fine. A seguito di questo viaggio ci fu poi la vicenda di un nutrito gruppo di cristiani irakeni, fuggiti dal loro paese per la guerra, che furono da noi ospitati a Roma e poi aiutati a andare in America. E' dagli anni Ottanta che esiste un legame profondo con il cristianesimo siriaco, fatto di stima per un popolo umile e di martiri. Il vero ecumenismo è amicizia, solidarieità, comprensione dell'altro.
Come comprendere i siriaci senza conoscere il loro martirio? E il loro martirio si lega a quello dei caldei, degli assiri, dei cattolici siriaci. La memoria religiosa dei martiri e quella storica s'intrecciano tra loro e differiscono. Quella storica, per quanto riguarda Seyfo, ha conosciuto negli ultimi anni un grande sviluppo e ora con il centenario. Ma, come sappiamo i centenari passano. Va ricordato come coltivare la memoria storica significhi narrare la storia, mettendo in rilievo la sua complessa realtà umana. Non si può dimenticare, come diceva con crudezza Stalin, che "la morte di un uomo è una tragedia, la morte di milioni è una statistica". Ma anche il presente -quello che sta avvenendo in Medio Oriente, quasi nelle stesse zone e coinvolgendo cristiani, yazidi, musulmani- rinvia in qualche modo alla storia di un secolo fa.
C'è una memoria religiosa dei martiri che riguarda le Chiese. Un modello è stato quello dei primi secoli. Per il Novecento, secolo del martirio cristiano come i primi secoli, c'è stata minore capacità delle Chiese di fare memoria. Giovanni Paolo II, nel 2000, volle ricordare i nuovi martiri, sottolineandone il significato. Io stesso, in quell'occasione, scrissi Il secolo del martirio, raccogliendo le testimonianze di quei caduti. Ricordare, per una Chiesa, vuol dire accogliere la memoria nel culto e nell'insegnamento. Noi oggi vogliamo fare un convegno storico, con eminenti studiosi, per ricordare. Il ricordo non chiede vendetta. Ma il ricordo storico matura nella passione di una Chiesa che ha vissuto quella storia. L'obbiettività della ricerca storica si un'unisce a quella che chiamerei, con parola latina, pietas, memoria partecipe verso i caduti.
Perché un male così grande?
Una grande domanda: perché ci fu Seyfo? Perché cristiani indifesi, apolitici, pacifici, furono sterminati? Il comitato dei giovani turchi, al potere a Istanbul, volle pulizia etnica totale dei cristiani. La spiegazione delle stragi, da parte degli attori e degli storiografi turchi, fu che si trattasse di una risposta forte alla rivolta e alla collaborazione degli armeni con i russi, nonché alla loro volontà secessionista. E' infondato, sproporzionato, ma non è il nostro tema. E gli altri cristiani? Non parlerò degli assiri, cui è dedicata una specifica relazione di Florence Hellot-Bellier, che ha scritto un libro importante in proposito. Mi chiedo solo: dov'è la rivolta siriaca? quella caldea? quella siro-cattolica?
Seyfo non è un caso dell'Oriente confuso e complicato, ma una scelta. Il disegno giovane-turco di pulizia etnica degli armeni non era di carattere religioso, ma nazionalistico, figlio della cultura nazionalistica ottocentesca che intendeva creare le nazioni con l'assimilazione. I giovani turchi presumevano di poter assimilare i curdi, perché musulmani fedeli al califfo, ma ben presto si accorsero della loro difficile assimilabilità: cominciarono pure per i curdi le deportazioni, continuate poi dai governi repubblicani. Oggi molti esponenti curdi riconoscono il grande errore storico dei dirigenti curdi di allora e la forte collaborazione ai massacri.
I massacri sono storie barbare, che non devono diventare numeri ma rappresentano un dramma da ricordare. Queste storie barbare fanno parte di un progetto (folle e razionale allo stesso tempo): l'ingegneria etnica per rimodellare la società ottomana rendendola tutta turca, mentre era un mosaico di gruppi. Un cittadino di Diyarbekir, la cui casa -monumento nazionale- più essere ancora visitata, Ziya Gökalp, seguace della sociologia di Durkheim e del nazionalismo europeo, fu l'ideologo del rimodellamento ingegneristico della società. Era cresciuto accanto a siriaci, armeni, caldei nella sua città, dove è dedicato al suo nome il liceo. Forse aveva giocato da bambino con i cristiani. Ancora a Diyarbekir sono aperte una splendida chiesa siriaca, una grande chiesa armena ricostruita, una chiesa caldea, anche se i fedeli sono decine. Le tre chiese ricordano il pluralismo religioso della città, dove non mancavano gli ebrei. Nato nelle province orientali miste, Gökalp progettò l'omogeneizzazione etnica. Sapeva chi fossero i siriaci e i caldei e come si distinguessero dagli armeni. In una lirica sul "nuovo mondo turco", Mela rossa, scrive:
"Egli disse che è importante andare a conoscere l'Est
disse che il popolo è un giardino e noi siamo i giardinieri
gli alberi non sono ringiovaniti solo dagli innesti
prima è necessario potare l'albero."
Un'istituzione ottomana, la direzione per l'insediamento dei rifugiati e delle tribù, sotto la guida di Gökalp, primo professore di sociologia all'Università di Istanbul, condusse ricerche etnografiche: su aleviti, confraternite, curdi, armeni, assiri, siriaci. Chi era assimilabile? I giovani turchi temevano che sacche territoriali omogenee etnicamente potessero essere la base di eventuali separatismi. Si spiega così la lotta agli assiri, combattivi nelle montagne dell'Hakkari. Non si spiega la lotta ai siriaci del Tur Abdin, minoritari tra i curdi. Eppure questa terra divenne uno spazio di caccia ai cristiani. Non si motiva l'accanimento militare contro Ain Warda, dove i siriaci avevano fortificato la chiesa e dove furono assediati da una smisurata truppa ottomana appoggiata dai curdi. Resistettero per cinquantadue giorni, più degli armeni del Moussa Dagh del celebre romanzo di Franz Werfel. Un episodio di resistenza, tra gli altri, ci fu pure a Hah, villaggio con una magnifica chiesa.
E' inspiegabile la concentrazione di forze militari contro il villaggio di Azakh, abitato da siriaci ortodossi e cattolici. L'impero era in guerra e c'erano sfide ben maggiori. David Gaunt nota che l'attacco fu fatto da forze regolari ottomane appoggiato dai tedeschi. Il caso fu presentato come una "rivolta armena" che rischiava di collegarsi a quella del Sinjar, dove -ne ha scritto Ternon nei suoi bei lavori- gruppi yazidi difendevano generosamente i cristiani.
Queste resistenze sono episodi dell'epopea siriaca che conobbe anche una resistenza armata. Mostrano però come ci fosse un eccesso di concentrazione militare turca in situazioni irrilevanti militarmente. Si evidenzia come, nell'immaginario turco, rappresentassero un pericolo, la base etnica per eventuali scissioni territoriali. L'ingegneria e la pulizia etnica venivano avvertite come vitali per la sopravvivenza del popolo turco. E' qualcosa che richiama, con tutte le differenze, l'accanimento nazista e tedesco contro gli ebrei (che assorbiva energie militari), anche quando erano in gioco le sorti della Germania in guerra.
Disegno distruttivo e odio popolare
Seyfo non fu un barbaro accidente come accadeva in un paese dove la violenza era ricorrente, specie in tempo di guerra. Seyfo fu il frutto di un disegno di ingegneria etnica: bisognava eliminare i cristiani (che si sentivano fedeli sudditi ottomani) per pulire la terra di minoranze non assimilabili. Tuttavia, per sterminare anche solo gli armeni, occorreva mobilitare il popolo anatolico e le tribù curde. Come farlo se non in nome dell'islam? C'è qui l'altro aspetto della strage barbara, nutrita di odio anticristiano. Il contadino anatolico non si sentiva turco, anche se turcofono, ma musulmano. Il curdo sentiva il richiamo del sultano-califfo. La strage nazionalista degli armeni divenne il Grande Jihad, proclamato dal califfo con l'ingresso dell'impero in guerra contro i giaour. Come mobilitare altrimenti le masse, delle cui mano d'opera e della cui complicità c'era necessità?
Così furono colpiti tutti i cristiani: i siriaci, gli armeno-cattolici e i cattolici in genere, che la Porta dichiarava esenti dalle deportazioni, dando assicurazione a tedeschi e austro-ungarici, nonché al coraggioso delegato del papa, mons. Dolci. Bisognava alimentare tra la gente un archetipo facile e popolare: l'odio al cristiano. Qui sopravviene un altro motivo: l'odio sociale. Spesso le minoranze cristiane -anche grazie all'azione dei missionari (cattolici e protestanti) e delle loro scuole- avevano un livello d'istruzione e posizioni economiche migliori dei vari ceti musulmani. Era meno il caso dei siriaci, una comunità più isolata, ad esempio nel Tur Abdin, loro patria avita. Il console russo Nikitine nota l'odio per la crescita culturale dei cristiani. Prima della guerra fu inviata una delegazione da Istanbul per promuovere l'istruzione dei non musulmani.
L'odio fu accresciuto dall'impatto dei musulmani esuli dai Balcani e insediati in Anatolia dopo la nascita degli Stati "cristiani". Che c'entravano i siriaci con il nazionalismo dei bulgari? Eppure nell'immaginario esisteva la bipartizione tra cristiani e musulmani: i vicini cristiani furono visti come parte dello stesso blocco di bulgari o serbi, tutti cristiani contro i musulmani. Del resto tale deforme immaginario sopravvive nel tempo globalizzato: mi ricordo che, quando in Iraq furono uccisi dai terroristi musulmani alcuni caschi blu nepalesi, in Nepal la gente andò a incendiare una moschea dell'esigua minoranza musulmana nepalese.
L'odio sociale e religioso trasformò i vicini in nemici: gente che aveva lavorato insieme in ostili. E' la storia dei genocidi e della costruzione della figura minacciosa della vittima: ucciderla viene considerata difesa preventiva. Qui fu una costruzione religiosa, ma con basi politico-economiche. A Mardin non c'era stati massacri all'epoca di Abdul Hamid. Il valì di Diarbekir, Rechid, medico giovane turco che si sentiva chiamato a guarire il corpo turco dai microbi, inviò un deputato Feyzi Pirinççizade per portare i notabili alla violenza anticristiana:
"Chi vi trattiene dal farlo? Forse la paura di doverne pagare un giorno le conseguenze? Ma che cosa hanno fatto a coloro che uccisero gli armeni sotto Abdul Hamid? Oggi la Germania è con noi... Sbarazziamoci di questi cristiani per essere padroni in casa nostra; questa è l'idea del governo... questa è peraltro l'idea di tutto l'islam."
Finalmente padroni in casa nostra! C'è l'idea dei cristiani come emanazione degli stranieri, specie francesi che erano intervenuti nelle faccende ottomane in nome della protezione dei cattolici (utilizzandola a fini politici). E la protezione delle minoranze era un'istituzione che i giovani turchi vollero abolire con la guerra mondiale. L'odio anticristiano fu alimentato dalla predicazione religiosa, come risulta, anche se sono stati poco studiati i casi contrari.
Esisteva la grande questione dei beni, spesso trascurata. Seyfo fu un grande sacco dei beni cristiani da parte di curdi e turchi: proprietà, monasteri, chiese, terre, attività commerciali e imprenditoriali... Questo ha fidelizzato gruppi della popolazione alla politica genocidaria, creando complicità. Il sacco dei cristiani ha segnato la fortuna di alcune famiglie che sono passate dal mondo ottomano alla Repubblica: ad esempio la famiglia Pirinççizade notabili di Diyarbekir, coinvolti nei massacri del 1896-98, del 1915, nell'espulsione dei cristiani negli anni Venti, ma che sono anche ministeri e deputati della Repubblica. Il sacco economico dei cristiani impoverì le terre turche, come ogni rimodellamento etnico che voleva creare una società totalitaria e uomini nuovi.
Quando nel 1926, il grande filosofo e pedagogista americano, John Dewey, fu invitato a conoscere il paese, ancora notava il danno dell'eliminazione dei cristiani: la situazione economica era, per lui, "tragica", con esercizi commerciali cristiani ancora inattivi o chiusi. Ma era stato realizzato il progetto di turchizzare l'economia, voluto dai giovani turchi per creare una nuova società.
Una violenza incomprensibile
Quello che avvenne, nel 1915 e durante la prima guerra mondiale, fu l'assurdo. Nei territori ottomani restavano tedeschi e austrungarici, testimoni di deportazioni e stragi, come mostrano i documenti. Fu così assurdo che, già nel settembre 1915, Benedetto XV si rivolse con un messaggio al sultano Mehemet V, in cui ricorrono le parole "inenarrabili" e "indicibile":
"Ci giunge dolorosissima l'eco dei gemiti di tutto un popolo, il quale nei vasti domini ottomani è sottoposto a inenarrabili sofferenze... Ci viene riferito che intere popolazioni di villaggi e di città sono costrette ad abbandonare le loro case per trasferirsi con indicibili stenti e patimenti in lontani luoghi di concentrazione, nei quali oltre alle angosce morali debbono sopportare le privazioni della più squallida miseria e sia le torture della fame."
Inenarrabile e indicibile: perché i cristiani siriaci, caldei, assiri inquietavano il potere? Va ricordato che questi cristiani non costituivano un fronte unico: ogni comunità -in tempi non ecumenici- aveva una strategia di sopravvivenza differenziata (anche conflittuale con le altre). Il potere ottomano era stato utilizzato per difendere i diritti dell'una contro l'altra. E i massacratori giocavano sulle divisioni. A Mydiat, fu fatto credere ai siriaci che sarebbero stati colpiti solo i cattolici e i protestanti, perché legati agli inglesi. L'eminente famiglia siriaca, Safar, godeva del titolo di pascià e si sentiva sicura. Ma venne l'ora dei massacri dei siriaci, che si difesero. A Mardin, i rapporti tra siro-ortodossi e cattolici erano cattivi alla vigilia della guerra, perché si era verificato un passaggio del vescovo siriaco Ladho al cattolicesimo. Durante le violenze, i siriaci furono i poco toccati a Mardin, mentre altrove furono massacrati (il potere ottomano non poteva affrontare quasi la metà dei cittadini a Mardin).
Le comunità non erano un fronte unico, ma tutte soffrirono giorni "amari e diabolici"-scriveva la bella figura di vescovo siro-cattolico Tappouni al patriarca. I caldei, nonostante fossero come cattolici esenti dalle deportazioni, persero tre vescovi, tanto popolo con i preti e i monaci. A Seert, l'assassinio dell'arcivescovo caldeo, Mar Addai Sher, quarantottenne (nascosto da un agha curdo), avvenne in presenza del p. Nayeen che lo testimonia. Il vescovo era un grande erudito, autore di storiografia nestoriana e di cataloghi di manoscritti. Da quello dei manoscritti della sua biblioteca episcopale (distrutta nel 1915), si vede un altro aspetto del genocidio quello culturale, la dispersione di libri e manoscritti, la distruzione di monumenti storici, chiese, ambienti secolari e millenari. Fu la fine di un mondo.
Le strategia furono diverse. I caratteri delle comunità erano diverse: più urbani i caldei e i cattolici, montanari forti abituati a vivere con i curdo nell'Hakkari, gli assiri, contadini e cittadini i siriaci. C'è chi negoziò e pagò, ma invano, come a Seert, Mar Addai. Chi provò a negoziare, come Tappouni a Mardin (il quale tra l'altro riacquistava bambini cristiani, messi sul mercato). O chi, come la bella figura del vescovo siriaco Mar Filiksinos Ablhad a Ain Wardo: predicò nella chiesa-castello sul dovere di resistere invocando lo Spirito Santo, poi salì sul tetto della chiesa dove digiunò e pregò per diciassette giorni, fino a morire, mentre si difendevano. Nessuna strategia fu vincente: tutti soffrirono. L'inenarrabile dolore cambiò i rapporti tra cristiani. Quando, nel 1931, i delegato apostolico Margotti, con un viaggio complicato, si recò da Istanbul e Mardin, trovò alla stazione i cattolici uniti, caldei, siri, armeni, con il vescovo caldeo Audo, mentre ricevette i pochi protestanti rimasti e una delegazione siriaca guidata dal vicario patriarcale. Margotti narra dei cristiani scampati:
"Dicevano: vedete monsignore, io ero sulla terrazza del vescovado quando vennero i turchi a sgozzare i miei genitori. Una donna piangente indicava una casa vicina: quella era la nostra casa. Là ammazzarono i miei figli."
Tanti ricordi di dolore di quei giorni "amari e diabolici" non sono stati ascoltati e registrati. E' chiara la sproporzione tra il grande dolore causato a tanti e l'obbiettivo politico di pulizia. E il dolore dei sopravvissuti, che si sono ritrovati in ambiente musulmano, obbligati a praticare l'islam. In particolare donne e bambini. Il domenicano francese Réthoré descrive il mercato che si faceva dei bambini proprio di fronte al bell'edificio del patriarcato siro-cattolico di Mardin. Quelli sotto i due anni non avevano valore ed erano spesso eliminati, come i cristiani malati. Un bambino valeva come un agnello. Ci sono poche testimonianze di Seyfo visto con gli occhi dei bambini. Uno, citato da Ternon, racconta come i curdi "scelsero "i più bei ragazzi e ragazze del nostro gruppo":
"La loro intenzione era di portarci con loro... Con i miei fratelli e sorelle, ci stringevamo l'uno contro l'altro, pensando così di non essere separati, attendendo nell'angoscia la nostra sorte. Eravamo pietrificati e incoscienti..."
Come è possibile restare insensibili a tanto dolore, quando si è credenti? E' una domanda che si sono fatti i tutsi dopo gli assassini da parte degli hutu in Ruanda. Mons. Balakian la pose a un funzionario ottomano il quale, a difesa della sua insensibilità, risponde che è un "dovere sacro", dopo che il sultano ha proclamato il jihad. L'altro, il bambino, non esiste più come persona: è cosificato. Non fu così per tutti. Una delle conseguenze della storiografia negazionista è stato l'occultamento dell'azione dei giusti, di cui si sono perse molte tracce (un atto d'accusa contro i massacratori). Non si può parlare di Seyfo senza trattare dei carnefici e dei giusti. Haidar bey, valì di Mosul, si opponeva ai massacri e salvò Hilmi bey, mutasserif di Mardin che aveva difeso i cristiani (il quale denunciò le stragi al viceconsole tedesco). Molti funzionari ottomani resistettero; alcuni furono uccisi. Povera gente, come il pastore curdo Salimo di Mydiat, informato del patto anticristiano nella moschea di Mydiat, avvisò la famiglia siriaca 'Abdyo: "Siccome siete stati generosi e gentili con me..." -disse. Ci sono curdi che nascosero i cristiani, mentre i più li saccheggiarono e li uccisero. Grandi figure, come lo cheick Fatullah Hamidi, leader sufi d'autorità, mediò tra i siriaci di Ain Warda e gli ottomani, ottenendo la salvezza della popolazione. Lo fece anche con quelli di Hah.
La memoria storica restituisce lo spessore drammatico e umano di questa storia. Il giorno di Seferbelik, il suono del tamburo con cui fu annunziato l'ingresso in guerra dell'impero, dette ai cristiani il senso di essere abbandonati a una storia che li schiacciava. Ma non riuscirono a pensare, nel 1914, che in poco tempo si sarebbe scatenato tanto orrore. Oggi quel grande dolore non può essere coperto dalla polvere della dimenticanza, come le ossa dei caduti nelle campagne delle città e dei villaggi della Mesopotamia settentrionale (che talvolta ancora affiorano).
Ricordare è un debito di memoria per tante vite rubate ai bambini, agli adulti, agli anziani. Ricordare è anche, per le Chiese siriaca, caldea, siro-cattolica e assira, porsi il problema di come essere fedeli a quell'eredità. Ma lo è per tutti: perché quel dolore e quell'eredità sono per tutti. Ricordare non è odiare o fornire materiale per fomentare l'odio. "Che quei giorni se ne vadano e non tornino più" -diceva un'anziana armena di Havav della regione di Palu, convertita da bambina all'islam e vissuta per decenni nel nascondimento. Sono parole che escono da una storia di dolore, ma che sono forse un sogno, ma anche la nostra ferma speranza.