Io e te – chi è lo straniero?
Un’espressione cara alla vita nel dialogo di Martin Buber è “Io e te”. In tale contesto, “chi è lo straniero?” è una concentrazione spazio-temporale del nostro rapporto “Io – te”. E’ un dialogo eterno, che connette ed include l’umano ed il divino - un dialogo tra i “tu” umani può essere un dialogo con i “tu” divini. Perciò l’ “io” è e diventa l’”io” di ogni spazio ed ogni tempo, nonostante la condizione dell’uomo, essendo redenzione della condizione umana. Non è questo uno dei significati dell’incarnazione espressa da Tolstoj con le parole “il Regno di Dio è dentro di te”?
Dato che il dialogo ha luogo tra uguali, un disequilibrio tra la conoscenza ed il potere con il suo rapporto “io – esso” si trasforma in una situazione più equilibrate, in cui è possibile che emerga l’”io con te”. In questo modo le controparti si troveranno tutte sullo stesso livello orizzontale, in contrasto con la loro disuguaglianza verticale. Tutti i membri diventano uguali, de jure e de facto. De jure perché godono tutti degli stessi diritti e perché hanno tutti nella stessa misura rispetto l’uno dell’altro. De facto nel portare con se il retaggio particolare delle proprie storie e culture. In una situazione felice come questa, pensare insieme diventa come pregare insieme, essere insieme “pescatori di uomini”!
Tuttavia, la dicotomia tra centro e periferia non è ancora stata superata, neanche tra di noi. La percezione dei problemi del mondo è diversa nel centro da come è nella periferia. Il Centro continua a percepire correttamente i propri problemi riguardo a questioni emergenti come, tra le altre, la morte cerebrale, il trapianto di organi, le nuove tecnologie della riproduzione, la rivoluzione nelle comunicazioni e nell’informazione, l’ambiente e l’inquinamento, la bioetica e l’ingegneria genetica. Ma poi il centro proietta i propri problemi verso la periferia, come espansione del proprio io sugli altri, e ciò mette in ombra i veri problemi della periferia. Così la periferia diviene soltanto uno specchio che riflette i problemi e le preoccupazioni del centro, senza uno spazio di opportunità per identificare e dare voce ai propri problemi. In realtà, questi problemi e queste percezioni sono relative soltanto ad una società particolare, limitata nel tempo e nello spazio: la società occidentale, liberale, benestante e capitalista.
Nonostante ciò, talvolta il centro percepisce i problemi della periferia quali veri problemi, espressione della sua autentica condizione umana: è il caso dei problemi legati ai diritti umani, alle minoranze, al genere; anche queste sono, comunque, proiezioni del centro verso la periferia. In tal modo questi problemi vengono definiti dal centro utilizzando le proprie categorie concettuali: i diritti umani vengono definiti in base a concetti individualistici, la dicotomia tra maggioranza e minoranze come concetto meramente quantitativo, le questioni legate al genere come se la donna avesse problemi diversi dall’uomo.
Comunque, la periferia percepisce i propri problemi nel seguente modo: i diritti della popolazione in quanto basati su un concetto collettivo, la questione maggioranza/minoranze come un’espressione qualitativa di una società pluralistica, e le divisioni tra generi al posto di una cittadinanza che includa sia uomini che donne.
Il problema è: chi formula pensieri su chi, e in quali termini? Chi definisce l’agenda: l’“io” o l’“altro”? Questa “percezione divisa in due” è un’epistemologia aperta o copre un’agenda nascosta, non epistemologica, del centro? Non ha Habermas oscurato il rapporto tra la conoscenza e gli interessi umani?
Similmente, anche la periferia vede i problemi del centro in maniera diversa: l’eurocentrismo, l’egemonia, il trasferimento di conoscenza, la crisi dei valori, i pericoli derivanti da un mondo unipolare, i due pesi e le due misure in fatto di diritto internazionale, la priorità del progetto epistemologico su quello etico, il fallimento dell’ideale dell’occidente, il massimizzare la produzione per massimizzare i consumi, o vice versa, come modo per raggiungere il massimo della felicità … la fine dei tempi moderni, prevista da Nietzsche, Bergson, Spengler, Russell, Toynbee e Husserl, la mentalità dualista che divide il tutto in frammenti, e che crea dicotomie come idealismo/realismo, classicismo/romanticismo, razionalismo/empirismo, spiritualismo/materialismo, essenzialismo/esistenzialismo, individualismo/com’unitarismo e socialismo/capitalismo.
Al contrario, la periferia vede i propri problemi quali la povertà, l’iniqua distribuzione del benessere, le ingiustizie sociali, l’oppressione politica, sociale, culturale e tradizionale, il disequilibrio tra diritti e doveri, la netta prevalenza della tradizione sul modernismo, il geocentrismo, l’autoritarismo, l’imitazione, la dimensione collettiva che prevale su quella individuale, ciò che è assoluto che inghiotte ciò che è relativo, il dogmatismo che impedisce ogni critica, il maggior valore dato al passato che al futuro, ed il mondo visto più in una dimensione verticale che orizzontale.
Come quindi arrivare ad una comprensione condivisa di questa “percezione divisa in due” dell’ “io” e dell’”altro”? Siamo due o uno? Come possiamo diventare uno, come avere una maggiore unità nella nostra diversità? La percezione dell’altro può essere oggettiva ed illuminata, non un semplice specchio che riflette l’immagine introversa del proprio io? Esiste gà una coscienza universale, divina, attraverso la quale possiamo percepire il mondo nella sua globalità, all’esterno di questo doppio specchio che riflette l’immagine di noi stessi nell’altro, e l’immagine dell’altro come specchio dell’io?
Perciò, la domanda per il nostro comitato dirigente e per gli altri è la seguente: di chi è l’anno 2000, situato alla fine del 20° secolo e all’inizio del 21°? Di chi sarà il secolo? Le culture condividono lo stesso tempo fisico, ma non lo stesso periodo storico – il tempo storico non è omogeneo rispetto allo spazio, né può esistere una cronologia omogenea per l’umanità. Piuttosto, il tempo è vissuto in maniera diversa nelle diverse culture, varie coscienze storiche diverse coesistono l’una con l’altra. Ogni cultura ha il proprio corso storico, e, di conseguenza, la propria coscienza storica. La “storia universale” concepita da Herder, Kant, Hegel e gli Enciclopedisti francesi è un mito eurocentrico, il prodotto dei tempi moderni, che riflette un periodo in cui la distribuzione del potere favoriva l’Europa.
In una storia più globale – che solo Dio può vedere in modo sincrono, ogni tempo storico-culturale ha il proprio centro – infatti, l’antico Egitto, la Mesopotania, Canaan, l’India, la Persia, la Cina, cioè l’Asia, vennero prima dell’Europa, e l’Oriente è venuto prima dell’Occidente. Alcuni filosofi contemporanei della storia hanno previsto il declino dell’Occidente, come Sprengler in Der Untergang des Abendlandes [il declino dell’Occidente, n.d.t.], altri vedono la prossima rinascita dell’ Oriente. Per dirla in altre parole, se lo “spirito del mondo” in passato si è mosso verso ovest, ora potrebbe procedere verso est, compiendo un grande cerchio globale. La caduta di un blocco potrebbe essere seguito dalla caduta del suo opposto. Nulla è definitivo nella storia – un periodo finisce, l’altro inizia. Una cultura si trova al tramonto, l’altra sta per sorgere.
Queste sono le principali conclusioni che ho potuto trarre dal nostro lavoro multiculturale negli ultimi cinque anni: minimizzare la dicotomia centro/periferia, guarire le nostre anime dal complesso di superiorità/inferiorità ereditato dal passato, liberare le nostre menti dal rapporto eterno ed unilaterale tra l’essere maestri ed essere discepoli, imparare nuovamente da Cristo la lezione della modestia e dell’umiltà, come quando si sedette a lavare i piedi ai discepoli. Allo stesso tempo, veniamo confrontati dalla barriera irritante dell’erudizione arrogante, espressa nel costante desiderio di assumere il ruolo del soggetto obiettivo, che relega l’altro ad oggetto. Non esiste nessun rapporto soggetto/oggetto che sia permanente. Si tratta soltanto di un conflitto di potere, che si esprime parzialmente in termini epistemologici. Se cambia la mappa del potere, il soggetto di oggi potrebbe diventare l’oggetto di domani! E l’oggetto di ieri può diventare il soggetto di domani!
Questo è uno dei momenti più alti del nostro dialogo, quello in cui ci scambiamo il rapporto soggetto/oggetto in uno spirito di reciprocità – in un determinato momento l’osservatore diventa colui che è osservato, e l’osservato diventa osservatore. Possiamo sperare che un giorno lo spirito del nostro comitato dirigente possa diventare lo spirito di tutta l’umanità. Questa può anche essere la lezione che possiamo trarre per l’anno 2000 – possa diventare l’anno di tutti i popoli e tutte le culture, un bel passo per realizzare le loro speranze e per superare ciò che li dispera, all’interno di un mondo pluralista, che converge verso una causa comune ed un bene comune! Solvitur in Excelsis!