Matteo Zuppi
Cardinale, Arcivescovo di Bologna, Presidente della Conferenza Episcopale Italianabiografia
I cristiani vivono direttamente la sfida della violenza. Non la cercano, ma non la fuggono rifugiandosi in paradisi pieni di frustrazioni e paure. La affrontano non con il coraggio ma con quella forza umile, veramente umana, dell’amore e della fedeltà ad esso fino alla fine. Ne è una prova il sacrificio delle migliaia di nuovi martiri, quell’affresco dell’umanità cristiana, del vangelo delle beatitudini, che Giovanni Paolo II indicava come i testimoni dell’amore che crea comunione e supera le divisioni, con cui iniziare il nuovo millennio perché sia quello dell’unità. Essi con la debolezza hanno sconfitto la violenza, a volte terribile cui sono stati sottoposti; sono stati luci nella notte del male, spesso le uniche, che anticipavano il giorno ancora lontano della pace, a volte accusati di tradimento o di complicità con il nemico. Hanno scritto i nuovi “Atti dei Martiri” che ci aiutano a credere alla forza del Vangelo e che la speranza può essere vinta! La loro testimonianza ci aiuta a non cercare di proteggerci con l’indifferenza, perché la violenza è sempre una via dolorosa per tanti “fratelli più piccoli” di Gesù, nei quali veneriamo il suo corpo. Essa produce fame, come la violenza di scelte economiche che rendono impossibile l’accesso agli alimenti; sete, e non dimentichiamo quanta violenza è e sarà legata al problema dell’acqua; nudità, perché spoglia di tutto, di ogni dignità; rende tanti stranieri, cioè profughi e instilla l’estraneità per cui l’altro non lo riconosciamo più come un uomo; significa carcere, e pensiamo all’ignobile pratica della tortura.
Cosa intendiamo per violenza? Certamente pensiamo alla guerra, che racchiude e scatena tutti gli spiriti del male, che continuano ad agire anche molto dopo la fine del conflitto stesso. Pensiamo al terrorismo, che vede nell’altro, qualunque esso sia, un nemico; che cerca l’odio della reazione, provocando la risposta proprio per scatenare altra violenza. Violenza è quella delle “maras”, che tanti giovani coinvolge ed affascina in America Latina o quella dei cartelli vecchi e nuovi di narcotrafficanti, vere economie parallele capaci di condizionare la politica di interi stati. Violenza è quella causata dai numerosissimi conflitti etnici, da quelli più evidenti e noti a quelli nascosti e ordinari. L’elenco potrebbe continuare. Il cristiano vive la condizione descritta dall’Apocalisse, quello scontro definitivo con il male e con lo scatenarsi di tante violenze. Ed il mondo contemporaneo appare ancora più vulnerabile, così deformato dal benessere e poco capace di cercare un bene comune che non sia la protezione di tanti individualismi. Non c'è frontiera che protegge dalla violenza, anche se è così diffusa, soprattutto nella ricca Europa, la convinzione che il male viene da fuori e basta alzare muri per essere protetti. E’ una convinzione senza futuro. Il cristiano di fronte alla violenza è chiamato a costruire ponti, non muri, perché questi producono altra violenza. Ed ogni cristiano è per se stesso un ponte, perché ama il proprio nemico, deve capirlo, stabilire un contatto con lui, camminare due miglia per conoscerlo meglio e vincerlo all’amore. Non è ingenuità da sognatori, ma, come dice Desmond Tutu, “un tassello della realpolitik” perché il perdono non è un’idea nebulosa o spirituale ma “l’unico modo per costruire la pace, perché un fucile non potrà mai offrire sicurezza”. “L’unica via per risolvere definitivamente i conflitti é quella di trasformare i nemici in amici”. E’ questa anche la convinzione profonda della Comunità di Sant’Egidio, che crede, (come avvenuto nel caso del Mozambico), a dispetto di facili giudizi dei profeti di sventura, che è possibile mettere fine alla violenza con la via intelligente e paziente del dialogo, che tutti possono fare la pace, che occorre cercare quello che unisce, insomma permettere che l’aspirazione alla pace, scritta nel cuore di ogni uomo con l’alleanza universale di Noè, trovi sempre una realizzazione.
C’è una violenza molto più ordinaria. Episodi inquietanti, come il senza fissa dimora che pochi giorni or sono è stato bruciato durante la notte ed è ricoverato ancora in gravi condizioni a Rimini, in Italia, oppure i ripetuti fatti di intolleranza in tanti paesi dell'Est o la violenza verso gli stranieri, sono epifanie di un male cui non possiamo mai abituarci o sottostimare. Quanti cattivi maestri sono moralmente responsabili di gesti che traducono in pratica la loro aggressione o violenza verbale; il sospetto, la perdita della vergogna ad esprimere giudizi di fatto razzisti, l‘incitamento allarmista e l’uso dell’informazione, la chiamata all'intolleranza presentata come legittima difesa, la pratica di cercare il capro espiatorio. Il problema delle identità, delle appartenenze, trova una facile soluzione nella contrapposizione e quindi nella violenza verso un “nemico”, da identificare e colpire come se il dialogo fosse una perdita di tempo inutile e non la faticosa costruzione di unità e convivenza. Il cristiano vive in situazioni diverse, ma sa che appartiene all’unica nazione santa, quel popolo acquistato da Dio da ogni tribù, stirpe, lingua.
I cristiani sono naturalmente vicini a chi subisce violenza. Il paradigma dell'amore cristiano è il buon samaritano, o meglio di quel samaritano senza aggettivi che si fece prossimo per l'uomo mezzo morto. Paradigma antico e nuovo. Chi era? Non sappiamo nulla di lui perché è chiunque. E’ l’uomo. E’ colui che subisce violenza: percosso da uomini banditi che gli tolsero metà della vita, lo spogliarono di tutto e lo abbandonarono. Questa serie di verbi ci aiuta a capire di cosa stiamo parlando. La violenza è in realtà un insieme di azioni e produce tanti effetti. Il cristiano è colui che si fa prossimo, cioè il più vicino per lui e reagisce alla violenza con altre azioni, (farsi vicino, fasciare, caricare, estrarre, tornare). Il cristiano non è un analista informato ma distaccato, un osservatore indifferente: ha compassione per chi subisce violenza. Sappiamo anche quanto nel cristiano stesso si nasconde un sacerdote ed un levita: osservano e vanno oltre; si scansano, passano dall’altra parte. Perché fanno così? Non si pongono la domanda che chiedeva Martin Luther King: non ti chiedere cosa ti accadrà se tu ti fermi, ma domandati cosa accadrà a lui se tu non lo farai! Hanno soprattutto paura: si sentono inadeguati; pensano di non potere fare niente o che è impossibile fare qualcosa oppure che il loro aiuto non avrebbe risolto la situazione; si proteggono cercando di evitare e sperano che per loro non sia così. Perché i banditi non dovrebbero assaltare anche loro? La strada da Gerusalemme a Gerico è pericolosa per tutti! Perché pensiamo che per noi sarà sempre diverso? C'è nella loro scelta un'ossessione che non risolve i problema: restano con la paura, perché questa si vince solo con la compassione, facendo proprie le sofferenze ed affrontando la violenza.
Bisogna fermarsi per capire. Quanta violenza è nascosta, passa inosservata! Quanta violenza diffusa sulle donne, sui bambini. Chi può quantificarla? Chi può raccontarla? Chi ce la fa capire? La violenza è un iceberg e dobbiamo cercare quella, la maggiore parte, che si nasconde sotto un'apparente normalità o nel silenzio della distrazione o della colpevole disinformazione.
Qualcuno potrebbe dire, (era una lettura di alcuni anni or sono, un po' ideologica) che i samaritani curano solo gli effetti della violenza, ma non disarmano mai i banditi! Certo: ma solo chi si ferma ed ha compassione si dissocia per davvero dalla logica dei banditi, logica che finisce per coinvolgere tutti. L'indifferenza pratica, il non fare nulla è sempre complice dei banditi: toglie di fatto l'altra metà della vita! Solo la compassione la recupera tutta! Il cristiano non potrà mai accettare la violenza come ineluttabile: inizierà dal salvare quello che può, quel mondo intero che è un uomo, quell’uomo e così sarà più forte dei banditi. Solo stando esattamente dalla porta opposta, la compassione, è possibile sconfiggere la violenza. Solo uomini che hanno cuore buono, da pecora, possono capire e disarmare i lupi. Non è lo spazio per i sognatori, l'ingenuità di buoni, ma la vittoria sulla violenza. E’ questa la scelta della Comunità di Sant'Egidio: cambiare anzitutto se stessi; pregare con la fiducia dei bambini e con insistenza della povera vedova; usare tutti i mezzi a disposizione per limitare la violenza e sconfiggere la guerra. Il nome stesso é un nome di pace, capace di attrarre e suscitare in tanti il desiderio della pace. L’impegno per la giustizia, l’accoglienza agli aiuti, ai progetti di solidarietà, possono disinnescare la violenza e spezzare la terribile alleanza tra povertà e violenza.
L’idea del Concilio Vaticano II era quella di non accettare nessuna violenza, stabilendo un nesso che è sempre vero tra le mie scelte personali e la vita comune. Troppo forte era il ricordo della Seconda Guerra mondiale, l’orrore per quella terribile violenza e la consapevolezza che un’altra sarebbe stata definitiva, fatale per l’umanità intera. Un mondo desacralizzato ha meno paura della violenza e tutto diventa possibile. Solo la paura delle conseguenze possono dissuadere! Anche per questo dobbiamo preoccuparci per l’abitudine al ricorso alla guerra come strumento per risolvere i conflitti o la ripresa di un linguaggio apertamente bellicista, come è avvenuto nei giorni della crisi in Georgia. La Gaudium et Spes tracciava in modo incredibilmente attuale l’impegno dei cristiani nel mondo per difendere la pace e vincere la violenza. “Il Concilio, condannata l'inumanità della guerra, intende rivolgere un ardente appello ai cristiani, affinché con l'aiuto di Cristo, autore della pace, collaborino con tutti per stabilire tra gli uomini una pace fondata sulla giustizia e sull'amore e per apprestare i mezzi necessari per il suo raggiungimento. La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell'umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c'è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi. È chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l'accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra”. Ecco, l’ideale è interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra, quel sogno dell’abolizione della guerra indicato da uomini come don Sturzo o Thomas Merton e che si sottende a tutto lo sforzo della Comunità di Sant’Egidio.
Dialogo intelligente, comprensione profonda delle “ragioni” della guerra; educazione come antidoto alla violenza, come dimostra la non penetrazione delle maras nei quartieri dove la Comunità di Sant’Egidio ha una presenza di scuola della pace e della convivenza in El Salvador; dialogo tra le religioni per isolare i fondamentalismi, dell’ignoranza di credere che il dialogo sia mimetizzare se stessi, fare finta, sacrificare la verità. No. Anzi, il dialogo aiuta a scoprire la propria verità, ma anche quello che unisce all’altro. E questo spegne la violenza. Disarmo ed impegno perché l’incredibile corsa al riarmo sia sospesa. Ecco, questi sono gli impegni del cristiano, che ha sempre una forza straordinaria, antica e nuova, quella che Dostoevskij chiamava “l’umile amore” e che secondo lui permette di “soggiogare il mondo intero”.
Scriveva un cristiano del secolo scorso, don Primo Mazzolari, uomo di pace anche quando parlare di questa appariva non rendersi conto del nemico: “Abbiamo la responsabilità di vincere ogni risentimento, anche nell’ultimo dei cuori, perché é una scintilla di guerra, perché qualunque maniera egoista di vedere la vita é una condizione di guerra, qualsiasi materialismo, anche se l’inorpellate di tutte le idealità, é già una dichiarazione di guerra, perché non rispettate nell’altro il fratello, perché non vedete nell’altro popolo un insieme di famiglie, di affetti e di sentimenti che vanno rispettati, come gli altri devono rispettare i nostri. Non ci devono essere più avversari, molto meno dei nemici. Siamo tutti della povera gente che ha bisogno, ad un certo momento, non di buttare all’aria delle lune artificiali, ma di guardare come si fanno i ponti, per impedire le divisioni tra gli uomini, gli odi fra gli uomini, per vedere se possiamo fare che la guerra non torni più, perché la guerra, anche se combattuta fra gente della stessa lingua, dello stesso sangue, della stessa tradizione e della stessa religione é sempre un fratricidio. I linguaggi umani sono solo due: quello di Caino, che purtroppo può essere parlato in tutte le lingue, e quello di Abele, che é l’unico linguaggio che é capito non soltanto nell’altro mondo, ma anche in questo. Quando gli uomini non opereranno più tra loro come lupi, allora comincerà la pace sulla terra”.
Ecco, il cristiano sceglie di parlare sempre e con tutti la lingua di Abele, quella che ogni uomo capisce, che può salvare la terra ed è quella che si parla in cielo.