11 Septiembre 2017 16:30 | Westfaelische-Wilhelms-Universitaet - Hoersaal JO 1
Intervento di Katherine Marshall
Il mio messaggio di oggi è che, per portare avanti lo sviluppo e la prosperità dell’umanità, si deve compiere uno sforzo più ponderato e comune per ridurre le spese militari e la militarizzazione delle società. Sappiamo che non si può realizzare sviluppo senza la pace e che una pace duratura è oggi impossibile senza sviluppo. Ciò significa sicuramente concentrarsi con decisione sulla pace, ma anche su alcune radici profonde dei conflitti. La chiamata alle armi, ivi compresa la celebrazione della guerra, è una delle radici più profonde. Questo ha molte implicazioni pratiche, tra cui scandalosi livelli di spesa in armamenti e forze armate. Questo ci porta direttamente al costo del difficile lavoro dello sviluppo.
In cerca di ispirazione, comincio con due citazioni di due ex Presidenti degli Stati Uniti che hanno entrambi collegato il problema delle armi alla giustizia sociale ed alla prosperità.
Innanzitutto, Franklin Delano Roosevelt, in un discorso del 1933 alla vigilia di un incontro sul disarmo. Egli sottolineò che armare le società accresce il disordine economico piuttosto che risolverlo:
“Un’intensa speranza del popolo del mio paese mi spinge, come capo del suo Governo, a rivolgermi a voi e, tramite voi, al popolo della vostra Nazione. Questa speranza consiste nel fatto che la pace possa essere assicurata attraverso misure concrete di disarmo e che tutti noi possiamo giungere alla vittoria nella nostra lotta comune contro il disordine economico. […] La felicità, la prosperità, e le vite stesse degli uomini, delle donne e dei bambini che abitano il mondo intero sono strettamente legate alle decisioni che i loro Governi prenderanno nel prossimo futuro. Il miglioramento delle condizioni sociali, la difesa dei diritti umani individuali e il progresso della giustizia sociale dipendono da tali decisioni”.
Il presidente Dwight D. Eisenhower, anni dopo, disse qualcosa di simile ed incisivo sottolineando i costi diretti della spesa in armamenti:
“Ogni fucile fabbricato, ogni nave da guerra varata, ogni razzo lanciato, significano, in ultima analisi, un furto a quanti hanno fame e non hanno da mangiare, a quanti hanno freddo e non hanno di che vestirsi. Questo mondo in armi non sta solo spendendo soldi. Sta spendendo il sudore dei suoi lavoratori, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Questo non è affatto un modo di vivere nel vero senso della parola. Sotto le nubi della guerra, c’è l’umanità appesa ad una croce di ferro”.
Le sfide poste dalle società in armi e dalle spese militari hanno diversi aspetti: Incentivare i conflitti, perpetuare di culture ispirate alla violenza e permeare le relazioni tra le nazioni. Mi concentrerò su quattro aspetti: armamenti ed aspirazioni di pace; stati fragili, il cui controllo del territorio è parziale; transizioni successive ai conflitti e discussioni sulle spese militari. Per ciascuno di questi aspetti, la dimensione etica e quella pratica sono saldamente interconnesse in quelli che spesso sembrano circoli viziosi, in cui il male genera altro male e la sofferenza e la distruzione impediscono la pace ed il progresso. I leader e le comunità religiose insieme hanno la responsabilità e le potenzialità per chiarire queste connessioni e le relative vie d’uscita.
Aspirazioni alla pace ed armamenti
Una classica lezione dell’economia è che tra fucili e burro esiste un legame e un’alternativa: cioè, spendere in armamenti o spendere in pace e sviluppo. Tanto per fare un confronto sui costi, la spesa militare totale del mondo nel 2016 è stata stimata in 1,69 trilioni di dollari USA, ovvero il 2,3% del Prodotto Interno Lordo mondiale. Il costo annuo totale stimato per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), il quadro di priorità specifiche e obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite, è di circa 1,4 trilioni di dollari USA. Lo sviluppo è solo parzialmente una questione di spesa, ma quando le spese militari drenano risorse, energie e disposizioni d’animo, rimane meno spazio per una visione positiva della vita e soprattutto per disporsi a realizzarla. E sappiamo tutti anche troppo bene che, quando i bilanci vengono tagliati, sono i più poveri tra noi a venir deprivati: l’educazione e la sanità vengono truffaldinamente tagliate, gli investimenti vengono ostacolati e i lavori decenti sono più difficili da trovare. Eppure sarebbe stato così semplice spostare gli impegni di bilancio dal militare alla pace. Tuttavia, vedere con chiarezza e continuità l’alternativa fucili/burro e mettere in discussione costantemente e con decisione i bilanci degli stati costituisce un punto di partenza.
Stati fragili
Vorrei affermare che oggi la sfida centrale per la comunità internazionale è quella di trovare e mettere in opera delle politiche e dei programmi migliori per quelli che chiamiamo stati fragili. Oggi il numero di questi stati oscilla tra i 35 e i 55. Alcuni sono evidentemente e dolorosamente fragili: il Sud Sudan, il Burundi e la Repubblica Centrafricana. Altri sono sul confine della fragilità e del conflitto. In ognuno di essi lo stallo dovuto al circolo vizioso è totale. I progetti di sviluppo sono messi a durissima prova. Ciò che viene costruito è subito distrutto e gli inizi pieni di speranza incontrano la delusione. Le carenze dell’azione di governo – scadente amministrazione e il cancro della corruzione – fiaccano la speranza e la fiducia. Le tentazioni del governo autocratico svuotano la volontà di intraprendere l’essenziale ma complesso cammino dello sviluppo. Intere porzioni di territorio sono ingovernabili. I mali degli armamenti e della militarizzazione colpiscono tutte le società, ma in nessun altro posto è più urgente affrontarli che in questo gruppo di paesi.
Nel caso di ognuno degli stati che chiamiamo fragili (o a volte stati falliti o in conflitto) la violenza e gli armamenti fanno parte del problema e affrontare la questione deve far parte della soluzione. Il potere della classe militare e i suoi interessi permeano lo stato. Le rivolte interne sono un risultato dello sviluppo fallito e di politiche inique, ma a loro volta giustificano lo spostamento di risorse a favore delle spese e dell’influenza militari.
Raccogliere la volontà di affrontare la sfida degli stati fragili, uno a uno e come problema collettivo, richiede una più decisa attenzione, un’accorta combinazione di urgenza e pazienza, idee creative. Ogni situazione è differente, ma queste sono connesse sotto importanti punti di vista. Noi guardiamo alla Comunità di Sant’Egidio come a una guida, perché questo è un campo in cui la Comunità possiede conoscenze ed idee straordinarie.
Transizione successiva al conflitto
Una parte della formula, dopo che un accordo di pace è stato firmato, è rappresentata dall’acronimo DSR: disarmo, smobilitazione e reintegrazione. Fanno parte della soluzione le immagini di cataste di fucili in fiamme e quelle di ex combattenti a scuola. Questo è un momento critico di snodo, un momento urgente e delicato, in cui la riconciliazione e il ripristino dell’ordine devono procedere insieme alla ricostruzione ed alla ripresa di progetti, servizi e speranza. Un classico esempio è quello dell’immediato collegamento, in Mozambico, tra i festeggiamenti per la firma degli accordi di pace e il lancio del programma DREAM per combattere l’HIV e l’AIDS. Ci sono esperienze di gran lunga più amare, in cui uno sviluppo non soddisfatto e l’incapacità di affrontare i fallimenti dell’azione governativa che hanno prodotto il conflitto, portano a un nuovo conflitto o ad un prolungato ed amaro ciclo di povertà e di crescente disuguaglianza. In quanto gruppo di attivisti e professionisti che si occupano di pace e sviluppo, possiamo e dobbiamo fare meglio. Ciò significa affrontare coraggiosamente il reale bisogno di sicurezza, senza militarizzazione e senza passar sopra ai diritti umani. È una priorità sia mentre si svolgono le trattative di dialogo per la pace, sia nella dettagliata pianificazione delle delicate azioni di sviluppo nel fragile periodo tra il conflitto e il nuovo sviluppo.
La discussione sulle spese militari
Le discussioni tra i partner delle attività di sviluppo sulla spesa militare e sul ruolo dei militari sono insidiose e raramente produttive. I dati sono pochi e contestati. Si invoca la sovranità come una ragione per schivare ed evitare il tema. Mentalità militaresche e securitarie possono denigrare e rigettare i sostenitori della pace. Ma da decenni risulta lampante che tagliare le spese militari è essenziale sia per spostare risorse a favore dello sviluppo che per combattere la militarizzazione della società. La questione rimane prioritaria e centrale. Tra le questioni che possono essere affrontate ci sono la corsa agli armamenti in determinate aree, laddove un approccio collettivo può risultare utile, e l’azione lobbistica di dirigenze militari politicamente potenti, che devono essere identificate, chiamate col loro nome e combattute.
Conclusioni
Il militarismo è probabilmente l’ostacolo più consistente del mondo alla fine della povertà. Questo ostacolo si manifesta in molte forme, tra cui il commercio criminale di armi, l’appoggio dello stato all’acquisto ed allo sviluppo di strumentazioni militari, gli atteggiamenti sociali verso gli armamenti intesi come una protezione dall’insicurezza, e le tensioni irrisolte all’interno della società che incitano al ricorso alle armi. Tra queste istanze rivestono particolare importanza gli assai concreti ed essenziali legami tra spesa militare e programmi di sviluppo, vista la stretta connessione tra pace e sviluppo. Un primo passo consiste nel definire e dare un nome al problema con più chiarezza ed urgenza, a livello internazionale e nazionale. Un altro è di attivarsi, anche presentando idee specifiche e (proposte di) adempimenti ulteriori. Questa è un’area in cui a diversi livelli i leader e le comunità religiose possono giocare un ruolo speciale. Possono comprendere la complessità delle discussioni, il legame tra insicurezza e paura, l’insopportabile forza delle memorie non sanate, il detto come il non detto. E, insieme ad altri partner, possono portare avanti con insistenza l’idea che lo sviluppo è pace, che la pace è sviluppo, e questo significa affrontare il problema della chiamata alle armi.