Il nostro tempo è segnato da grandi contrasti. Uomini e popoli si trovano gli uni a fianco degli altri, quasi sempre senza averlo scelto, trasportati semplicemente dalla stessa forza della storia. Le migrazioni sono una costante di tutti i continenti. Gli uomini del Burkina Faso scendono in Costa d’Avorio per cercare il pane che non hanno a casa loro. Le miniere del Sudafrica sono piene di lavoratori del Mozambico che hanno dovuto lasciare le loro famiglie e trasferirsi per alcuni anni in un paese dove l’oro e l’AIDS vanno a braccetto. Gli zingari romeni, obbligati da una situazione economica di grande penuria, si spostano nei paesi dell’Europa Occidentale, cercando una vita migliore che spesso gli è negata dai governanti, in nome della sicurezza urbana e di un pugno di voti: non c’è nulla di più facile che fomentare la paura in nome del benessere e presentare gli zingari come degli elementi antisociali. Uomini e donne latinoamericani spendono quello che hanno o si indebitano per comprare un biglietto aereo per l’Europa e diventano nei nostri paesi un elemento necessario per le cure di cui hanno bisogno anziani e malati. Il mondo, che era un insieme più o meno isolato di popoli e culture, è diventato un mosaico, è a dire un tessuto di colori diversi che ha cambiato la fisionomia dei paesi dei cinque continenti. La globalizzazione economica e sociale ha comportato movimenti di popoli e persone su scala planetaria.
Ebbene, nessuno cammina senza appartenenze o identità. Si cammina con un bagaglio, piccolo o grande, lussuoso o miserabile, e si cammina, soprattutto, senza abbandonare la propria identità: le abitudini, la lingua, la cucina, la maniera di vivere, le convinzioni e, naturalmente, la propria religione. Inoltre, il fatto di installarsi in un paese differente da quello di origine provoca spesso una riaffermazione di quello che definisce le persone. In molti, casi cresce il sentimento di identità, e lo si vuole esprimere con forza, forse per evitare di perdere qualcosa che si pensa essere in pericolo in un mondo che assomiglia poco a quello da cui si proviene. Le società occidentali hanno dei modelli di vita personale che, per molti aspetti, sono inaccettabili per coloro che provengono da altre culture e, al contrario, chi viene in Occidente è spesso accusato di non accettare i costumi propri della società che lo accoglie. Parlo naturalmente di due posizioni estreme, poichè, fortunatamente, in molti casi si produce un avvicinamento tra gli autoctoni e gli immigrati, che vedono la convivenza come l’unica via possibile e necessaria.
In questo quadro, qual è il ruolo delle religioni? Possono le religioni contribuire alla convivenza tra uomini e popoli, anche nel cuore di una crisi che punisce tutti, ma in modo particolare gli immigrati? Oppure le religioni sono solo un riflesso di alcuni sentimenti individuali, con scarse ripercussioni sul tessuto sociale? La risposta a queste domande dipende dal vissuto religioso di ciascuna persona. L’uomo e la donna che hanno una fede religiosa profonda vogliono esprimerla non in forma nascosta ma in maniera libera e aperta.
Vogliono avere la possibilità di riunirsi con chi condivida con loro lo stesso credo, e farlo nel quadro di un rispetto ricevuto e offerto. Ogni religione è personale e comunitaria, allo stesso tempo ogni religione trova nelle sue radici, nel suo DNA, una vocazione alla pace e alla concordia, alla convivenza e all’intesa. Criminalizzare le religioni come fattori “naturali” di conflitto è confondere l’essenza di ciascuna religione, il suo credo pieno di ideali, con la pratica di quella stessa religione da parte di alcuni suoi membri che la snaturano e la pervertono. Non si può confondere una religione con alcune sue espressioni che, sfortunatamente, dipendono da ideologie che deturpano lo spirito autentico di coloro che la praticano, la interpretano e la vivono. Mi chiedo come mai ogni religione, se vissuta e proposta autenticamente, sia per la pace e non per il conflitto e il confronto. Una religione è la risposta dell’essere umano alla voce divina, che impegna tutta la persona e le dà una speranza che va al di là delle difficoltà e della stanchezza della vita. Per questo, Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha potuto affermare recentemente che “la società ha bisogno della religione”. Infatti, una religione è un fermento di pace che aiuta a costruire rapporti giusti e pacifici tra le persone.
La ragione di questo carattere positivo e costruttivo è la base sulla quale si fonda la religione, e cioè la fiducia e l’adesione a un Dio unico, creatore e Padre di tutti e di tutte. Dio non ha disegnato l’umanità perchè sprofondi nell’odio reciproco, ma perchè sia la casa comune che preserva la vita di tutti. Il Dio della pace, il Dio che è pace e fonte di benedizione incondizionale e indiscriminata, sostiene l’uomo religioso e lo guida per vie di giustizia e verità: “Pace” è il nome di Dio.
Vorrei illustrare quest’ultima affermazione con un’esperienza che ebbi all’età di 25 anni a Gerusalemme. Era il 1978. Ero arrivato nella città santa da pochi giorni, e decisi di perdermi nelle sue stradine, per percepire l’aroma delle pietre e della terra calpestata dal re Davide e da Gesù di Nazareth, dal profeta Maometto e dagli apostoli della Chiesa nascente. Sono entrato, allora, dalla porta di Damasco, nel nord della città, con l’intenzione di recarmi alla basilica del Santo Sepolcro o della Anàstasi (Resurrezione). Poco dopo, sono entrato nella zona dei negozi, a maggioranza musulmana. La parola salam (pace) era costante tra la gente che andava e veniva, tra i clienti e i venditori, una folla eterogenea che si muoveva all’interno di un mercato in cui gli odori intensi delle spezie e del caffè aiutavano a capire meglio l’amicizia e l’accoglienza. Dopo un po’, cambiando direzione, sono entrato in una zona meno rumorosa. All’improvviso, due ebrei ortodossi che salivano al qótel, il Muro del pianto, per la preghiera, conversavano animosamente e quando furono vicino a me si separarono. All’improvviso si udì un sonoro shalom, mischiato alle parole di saluto. Ancora un po’ e finalmente sono entrato nella chiesa del Santo Sepolcro, sove si celebrava un ufficio liturgico cristiano. Tra le candele e l’incenso, tra i canti e le preghiere, risuonò per la terza volta la parola che da un po’ di tempo mi accompagnava: irini (pace). Era il saluto pasquale, quello che Gesù risorto rivolge ai suoi discepoli: “Pace a voi!”. Gerusalemme aveva fatto onore al suo nome (“visione di pace”) e alla sua condizione di “gradino di Dio”, accettata da tutti quei figli di Dio che si rivolgono al “Dio vivo e vero”. Il nome di Dio è “pace”.
Arrivati a questo punto, qualcuno potrà essere tentato a reagire con scetticismo. E potrebbe dire: “Accetto che qualsiasi religione possa essere un fermento di pace, poichè si basa nel Dio della pace, ma mi risulta difficile comprendere come una religione possa stabilire un dialogo di pace con le altre religioni, visto lo scontro tra religioni che tante volte ha dominato la storia umana”. E ancor di più:“L’immagine di una Gerusalemme in pace, segno delle religioni in pace, è bella ma del tutto irreale”.
Lo scetticismo è figlio del realismo, ma il realismo spesso è figlio della paura e della nostra difficoltà a cambiare. Preferiamo vivere nell’inerzia di una situazione, pittosto che nella speranza di un cambiamento. Ci siamo abituati a essere molto realisti e prudenti, per non dire sfiduciati, persone che si legano le mani e si chiudono la bocca ogni giorno. Eppure, può andare avanti un mondo che si rassegna a non dialogare? Che futuro ha una religione che si chiude in se stessa e non vuole incontrarsi con le altre?
Le religioni sono fatte per il dialogo, per la convivenza, per la pace. Racchiudono al loro interno, spesso in forma nascosta, grandi capacità di stabilire ponti le une verso le altre, per condividere la stessa passione a favore dell’umanità ferita. L’Occidente soprattutto ha bisogno di tornare a incontrare il Dio che parla, non può vivere voltandogli le spalle. Come se non esistesse. Il credente che arriva al fondo della sua fede, scopre il dialogo, quello che permette di andare incontro all’altro senza avanzare pretese e porre condizioni previe.
Da 25 anni, la Comunità di Sant’Egidio ha raccolto la fiaccola del servo di Dio, il papa Giovanni Paolo II, e promuove la Preghiera per la Pace. Il pellegrinaggio dei cercatori e costruttori di pace passa quest’anno attraverso la nostra terra e in particolare per la città di Tarragona. E’ pertanto un momento significativo che invita a comprendere come mai ogni anno uomini e donne di religione hanno voluto incontrarsi – e sottolineo la parola “voluto” – in una città diversa per ritessere, nel nome di Dio, il mosaico della pace, una pace possibile e necessaria, anelata e difficile, bella e frutto di un forte impegno. Ogni anno centinaia di persone si muovono dai loro paesi d’origine e accettano un invito che ha dietro di sè soltanto la forza dell’amicizia e la convinzione del dialogo. Le religioni tornano a incontrarsi e costruiscono un’immagine di livello mondiale, che non contiene nessun sincretismo nè orgoglio, ma si forgia con la pazienza e il gusto per l’incontro. Per questo crediamo che il dialogo tra le religioni non è una chimera, perchè lo iniziò quel profeta che fu il papa Giovanni Paolo II e i frutti di un quarto di secolo hanno dimostrato la sua realizzabilità e la sua grandezza. Lo spirito di Assisi, città dove cominciarono le Preghiere per la Pace, è una realtà intensa ed estesa, che ha attraversato il mondo intero e ci ha fatto sentire tutti figli e figlie di uno stesso Dio. E’ necessario ringraziarlo.
L’esperienza di questi 25 anni, nei quali lo spirito di Assisi ha soffiato per l’Europa e per il mondo intero, dimostra che nulla può scoraggiare coloro che lavorano per la pace e pregano affinchè si propaghi per tutta la terra. Neppure il dardo lanciato nove anni fa contro la pace tra le religioni e tra i popoli, con l’attacco disumano alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, ha potuto soffocare lo spirito di Assisi, più forte di tutte le aggressioni e inibizioni. La guerra e la barbarie sono il risultato della prepotenza e dell’odio, e pertanto sono nemiche della pace. Non c’è nessun credente che possa giustificare il massacro di esseri umani dicendo che questa è la volontà di Dio. Uccidere in nome di Dio è una bestemmia. Per questo l’attentato alle Torri Gemelle è stato un attentato contro Dio e contro l’umanità. Nove anni dopo, è necessario tornare ad affermare lo spirito di Assisi e dire che questo spirito rappresenta la via giusta affinchè le religioni si incontrino. Se le preghiere a favore della pace continueranno a salire verso il cielo, nessuna forza potente del male potrà impedire che cresca il dialogo tra le religioni, che gli uomini e le donne spirituali si conoscano e si incontrino.
Di fatto, i protagonisti del dialogo tra le religioni devono essere persone guidate dallo Spirito di Dio. La dittatura del materialismo riduce la persona a un essere senza grandi speranze, dipendente soltanto dall’ultima réclame pubblicitaria o dall’ultimo desiderio. Per questo molti cercano la sicurezza ad ogni costo, come se la felicità dipendesse dall’avere di più e l’obiettivo unico della vita fosse se stesso e la propria realizzazione. Per questo gli attori della pace sono quelli che non si lasciano schiavizzare da nessuna dittatura – nemmeno quella del materialismo – e costruiscono al loro interno l’uomo spirituale, “pieno di zelo per le opere buone” (Tito 2,14). E c’è un bene maggiore della pace? Il dialogo tra le religioni non può essere una tattica o una norma di tipo burocratico, ma deve nascere da persone che, ovunque, vivano con una fede libera e misericordiosa. In questo modo, la pace arriverà in maniera concreta e diretta, e nelle città e nei paesi i credenti nel Dio della pace si riconosceranno gli uni gli altri, nella misura in cui la parola e la simpatia sostituiranno la sfiducia e l’ostilità. Le religioni hanno davanti a loro un cammino lungo e fecondo, chiamate come sono a costruire la pace e a essere bandiere di pace tra i popoli.