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Daniele Garrone

Presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
 biografia

Non c’è nulla che ci faccia sognare nei tempi che viviamo. Abbiamo però le Scritture e, in esse, la traccia dei sogni che la parola di Dio ha suscitato, contro ogni evidenza.

Vi propongo perciò alcuni pensieri a partire da due testi.

Il primo è la conclusione di un lungo oracolo nel libro di Isaia, al capitolo 19.

Il culmine è costituito dai versetti 23-25 che ora vi leggo:

23     In quel giorno, ci sarà una strada dall’Egitto in Assiria
         e l’Assiria andrà in Egitto e l’Egitto in Assiria
         e l’Egitto servirà l’Assiria / e l’Egitto servirà [l’unico Dio] con l’Assiria[1].

Qui si possono dare due traduzioni diverse, la maggior parte degli studiosi optano oggi per la seconda.

24     In quel giorno, Israele sarà terzo con l’Egitto e l’Assiria,
         benedizione in mezzo alla terra,

25     che il Signore delle schiere ha benedetto dicendo:
         “benedetto l’Egitto, mio popolo,
         l’Assiria, opera delle mie mani[2]
         e Israele, mia eredità.”

(traduzione di DG)

E’ una strada che c’è sempre stata, anzi ce n’erano più di una, ma non è mai stata percorsa nel modo che dice Isaia: è servita per movimenti di truppe delle grandi potenze di allora, dall’Egitto alla Mesopotamia, dalla Mesopotamia all’Egitto non per benevoli scambi tra popoli pacificati e affratellati; oppure è stata sbarrata dai confini eretti dagli stati che si sono succeduti.

L’arditezza della visione di Isaia risalta anche se consideriamo il contesto: un annuncio di giudizio contro l’Egitto (vv. 1-15), viene sviluppato con cinque precisazioni successive (le ultime due sono il nostro testo), tutte introdotte dalla formula “in quel giorno”.

Il succedersi delle precisazioni su “quel giorno” si ferma solo si scopre che il giudizio non è l’ultima parola di Dio. Il succedersi delle precisazioni su “quel giorno” si arresta solo quando il profeta vede la strada che ancora non c’è, solo quando si può dire l’inaudito, cioè che l’Egitto, l’Assiria e Israele saranno uniti davanti all’unico Dio. Questa visione viene così interpretare, correggere o addirittura a superare altre parole sull’Egitto o “le nazioni”.

 

La nostra visione è straordinaria  perché parlando di Egitto e di Assiria si parla di grandi potenze, già nemiche tra loro e di Israele, che ora diventano alleate. L’inimicizia lascia il posto non solo al buon vicinato, ma alla relazione benefica per tutti. E’ uno sconvolgimento della geopolitica (di allora e di oggi) che è qui annunciato.

Ma non basta. L’Egitto e l’Assiria ricevono  “titoli” fino a quel momento riservati solo ad Israele: l’Egitto diventa - dice Dio - “mio popolo” e l’Assiria “opera delle mie mani”. Israele è “terzo” inter pares tra questi popoli, ma conserva la sua peculiarità: “mia eredità”. Anzi, nella visione dei tre popoli pacificati e affratellati davanti a Dio sembra compiersi la promessa di Dio ad Abramo “in te saranno benedette tutte le famiglie della terra.” (Gen 12,3)»

 

La strada che non abbiamo ancora visto, la strada di cui non soltanto il mondo intero, a tutte le latitudini, ha più urgentemente bisogno, è la strada che Dio sa e vuole costruire. Dio costruisce le strade di cui abbiamo più bisogno, quelle che noi non solo non sappiamo costruire, ma quelle che non osiamo neppure sognare o quelle di cui noi chiudiamo i cantieri o di cui facciamo saltare in aria i ponti. Se prendiamo sul serio queste parole della Bibbia, il vero realismo è quello che si orienta alle visioni della parola di Dio, che comincia non da quello che c’è, ma da ciò che Dio ha in serbo per l’umanità.

Il secondo testo parla di chi è arrivato a sognare. Leggo il Salmo 126.

1 Canto delle salite.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.

         Dell’espressione “ristabilire la sorte”, qui e al v. 4, potete trovare altre traduzioni, ad esempio “ricondurre i prigionieri”.

2 Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
»Il Signore ha fatto grandi cose per loro».

3 Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.

4 Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.

5 Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.

6 Nell'andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
portando i suoi covoni.

(traduzione CEI 2008)

 

Il ricordo sfocia in gioia per quelli che avevano perduto ogni speranza: il tempio distrutto, la nazione sottomessa, molti in esilio. Ma ora il tempio è ricostruito, si può persino tornarvi in pellegrinaggio, e quello che abbiamo sentito è uno dei canti dei pellegrini che vi fanno ritorno pieni di gratitudine. E di stupore. Sembrava un sogno irrealizzabile; ora, vedendolo compiuto, si è come trasognati. Si può tornare a sorridere, si può persino parlarne e cantarne: “la nostra lingua si riempì di gioia”. La nuova realtà non passa inosservata neppure tra le nazioni, tutti lo vedono: “Dio ha fatto grandi cose per loro.” Tutto questo gravita intorno al ricordo del passato. Il presente sembra soltanto luminoso. Mi vengono in mente immagini, che tutti abbiamo visto, della gioia alla fine del secondo conflitto mondiale.

Eppure c’è una tensione in questa preghiera. Anzi sembra una vera e propria contraddizione: si chiede a Dio di fare ciò che si è poche riga prima descritto come già compiuto. Il Signore ha già “ristabilito la sorte di Sion”, ha già ribaltato una situazione drammatica, Eppure gli si chiede ancora “Ristabilisci la nostra sorte.” Gli si chiede di farlo impetuosamente e improvvisamente. E’ questo il senso dell’immagine dei “torrenti del Negheb”: sono uadi, gole scoscese e riarse per buona parte dell’anno; quando sull’altopiano arriva la stagione delle piogge, si riempiono all’improvviso di masse d’acque vorticose, che tutto travolgono.

Sul piano storico, la tensione si lascia spiegare. Il peggio è passato, ma i problemi non sono finiti. Quella che può sembrare una contraddizione, è in realtà tipico del modo biblico di parlare di Dio. Tra il “già” delle “grandi cose” che Dio ha già fatto e l’attesa, la speranza e anche la supplica che “ancora” faccia “cose grandi” si crea un “campo di tensione”, ed è in quel campo di tensione che si snoda il cammino della fede, che è fatto di memoria e di attesa, di riconoscenza e di speranza, di gratitudine e di supplica.

In questa tensione, se sappiamo serbare la memoria di ciò che Dio ha compiuto e la visione di ci ciò che è promesso, si apre lo spazio della speranza e dell’azione responsabile. E’ tanto più importante per noi oggi, che siamo schiacciati da una istantaneità senza memoria e senza visione, senza storia e senza progetto.

[1] Questa seconda interpretazione è seguita da molti commentatori (B. Duhm; G. Fohrer; O. Kaiser; H. Wildberger; J. Blenkinsopp). Cfr. la versione CEI 2008 “gli Egiziani renderanno culto insieme con gli Assiri.”

[2] “opera delle mie mani” cfr. Is 29,23; 60,21.