1.La crisi dei missili di Cuba costituì il passaggio più pericoloso della guerra fredda. Durante i 13 giorni che tennero il mondo sospeso sull’orlo di una catastrofe nucleare, dal 16 al 28 ottobre 1962, il mondo si trovò di fronte alla possibilità concreta di un’escalation tra Unione Sovietica e Stati Uniti che avrebbe potuto condurre a una guerra con l’uso di armi atomiche.
La decisione di Nikita Chruščëv di schierare a Cuba una cinquantina di missili dotati di testate nucleari condusse a una prova di forza, tra le due superpotenze. Kennedy in un discorso televisivo, il 22 ottobre, annunciò la decisione di porre un blocco navale per impedire al convoglio di navi sovietiche che stavano trasportando altri armamenti a Cuba di raggiungere l’isola e chiese lo smantellamento di quelli già installati. La possibilità che tra la marina americana e quella sovietica si potesse arrivare a uno scontro armato, tale da innescare una guerra tra i due paesi con il conseguente utilizzo delle armi nucleari, non era più solo un’ipotesi di scuola, ma appariva come una evenienza minacciosamente incombente.
Il 25 ottobre Mosca prese la decisione di offrire il ritiro dei missili in cambio dell’impegno a non invadere Cuba, che fu comunicata all’indomani a Washington insieme alla richiesta dello smantellamento dei missili americani jupiter installati in Turchia e in Italia, in grado di colpire l’Unione Sovietica.
Kennedy comunicò a Chruščëv di accettare la proposta del ritiro dei missili in cambio dell’impegno a non invadere Cuba, mentre faceva sapere a Mosca in maniera riservata che, pur non potendo riconoscere apertamente lo scambio tra i missili cubani e quelli jupiter, questi ultimi sarebbero stati rimossi nel giro di alcuni mesi. Il leader sovietico convalidò lo scambio.
La catastrofe nucleare era stata evitata. Chruščëv aveva accettato di rimuovere i missili. Ma se non ci fossero state tempestive concessioni sovietiche l’esito avrebbe potuto essere ben diverso. Fu grazie a un compromesso che il potenziale esplosivo della crisi dei missili di Cuba fu disinnescato.
La percezione che gli Stati Uniti siano usciti vincitori da una braccio di ferro e la conseguente esaltazione di una linea di fermezza assoluta, da una parte non corrispondono a quelle che furono le intenzioni di Kennedy né alla effettiva soluzione della crisi e, dall’altra, rischiano di non fare i conti con il fatto che l’esito positivo non fosse scontato e che in tal caso il prezzo da pagare sarebbe stato enormemente alto.
2. Come si arrivò alla soluzione della crisi? Un elemento essenziale fu la disponibilità e la ricerca di canali di comunicazione tra il Cremlino e la Casa Bianca. Fu una condizione decisiva che rese possibile il raggiungimento del compromesso che permise di uscire dal vicolo cieco cui sembrava destinata l’escalation.
Due furono i piani in cui si operò in questo senso. Uno fu quello della diplomazia ufficiale rispetto al quale mi sembrano opportune due osservazioni. La prima riguarda la funzione delle rappresentanze diplomatiche e degli ambasciatori, i quali non sono dei propagandisti ma hanno la funzione primaria di essere un fondamentale canale di comunicazione tra i governi. È un interesse di tutte le parti che tali canali funzionino e non vengano ristretti fino a diventare inefficaci. Durante la crisi l’ambasciatore sovietico a Washington Anatolij Dobrinin svolse un ruolo chiave e gli incontri tra lui e Bob Kennedy furono decisivi perché rappresentarono il canale attraverso il quale furono comunicate a Mosca le reali intenzioni di Washington.
La seconda osservazione è che il gioco diplomatico e il dialogo politico tra governi contempla fasi diverse, nelle quali sovente non tutte le carte vengono gettate sul tavolo. Pur in presenza di reticenze e perfino di menzogne, che si presentano in tali fasi, non viene inficiata la validità del ricorso al dialogo e al negoziato in momento successivi. Il 18 ottobre si tenne un incontro tra Kennedy e il ministro degli Esteri sovietico, Andrej Gromyko: due ore di conversazioni durante le quali il ministro ripeté false assicurazioni sul fatto che Mosca non aveva installato missili a Cuba e il presidente non rivelò le informazioni di cui disponeva. Eppure negli stessi giorni non si esitò a ricorrere all’ambasciatore sovietico, come abbiamo visto, o non mancò una fitta corrispondenza tra i due leader.
Il secondo piano in cui canali di comunicazione giocarono un ruolo di grande rilievo fu quello della diplomazia informale, cioè dell’azione di esponenti della società civile o di attori singolari della comunità internazionale. In questo ambito protagonista fu papa Giovanni XXIII, il cui contributo alla soluzione della crisi non sempre è stato rilevato in maniera sufficiente dalla storiografia, sovente centrata solo sulla diplomazia ufficiale. Giovanni XXIII, come ha rilevato Andrea Riccardi, con il suo impegno per la pace si poneva al di sopra delle divisioni della guerra fredda, diventando in tal modo un interlocutore interessante per il Cremlino.
L’intervento di Giovanni XXIII fu sollecitato dal domenicano Felix Morlion, che nei giorni della crisi partecipava da osservatore a un incontro di accademici e giornalisti americani e sovietici negli Stati Uniti, dove maturò l’idea di rivolgere al papa la richiesta di un suo intervento. Il capo della delegazione americana all’incontro, il giornalista americano Norman Cousins, caporedattore della rivista “Saturday Review”, verificò presso un consigliere del presidente che Kennedy era favorevole a un intervento del papa, mentre un membro della delegazione sovietica ottenne da Mosca l’informazione che Chruščëv avrebbe accolto positivamente un appello del papa. Dopo avere ricevuto assicurazioni che il suo intervento sarebbe stato gradito, il 25 ottobre Giovanni XXIII pronunciò un radiomessaggio alla Radio vaticana, con cui lanciò un appello affinché si avviassero negoziati per risolvere la crisi, consegnato in anticipo alle ambasciate americana e sovietica a Roma. Il “New York Times” e il “Times” riportarono ampiamente il messaggio del papa, mentre a Mosca la “Pravda” pubblicava un resoconto sul messaggio. Era un’attenzione insolita e significativa. Giovanni XXIII si faceva interprete dell’inquietudine per le «nubi minacciose» che «oscuravano nuovamente l’orizzonte internazionale e seminavano la paura in milioni di famiglie». E proseguiva:
«Noi ricordiamo a questo proposito i gravi doveri di coloro che hanno la responsabilità del potere. E aggiungiamo: “Con la mano sulla coscienza, che ascoltino il grido angoscioso che, da tutti i punti della terra, dai bambini innocenti agli anziani, dalle persone alle comunità, sale verso il cielo: Pace! Pace!”.
Noi rinnoviamo oggi questa solenne implorazione. Noi supplichiamo tutti i Governanti a non restare sordi a questo grido dell’umanità. Che facciano tutto quello che è in loro potere per salvare la pace. Eviteranno così al mondo gli orrori di una guerra, di cui non si può prevedere quali saranno le terribili conseguenze.
Che continuino a trattare, perché questa attitudine leale e aperta è una grande testimonianza per la coscienza di ognuno e davanti alla storia. Promuovere, favorire, accettare i dialoghi, a tutti i livelli e in ogni tempo, è una regola di saggezza e di prudenza».
Si trattò di un intervento che contribuì a creare le condizioni perché il negoziato riservato in corso tra Mosca e Washington arrivasse in porto. L’appello sicuramente non lasciò indifferente Chruščëv, il quale il 13 dicembre in un incontro con Cousins, con il quale aveva un rapporto precedente, ebbe a dire: «l’appello del papa fu un vero raggio di luce. Gliene fui molto grato. Mi creda, quelli furono giorni molto pericolosi».
3. Fu reale il pericolo di una guerra nucleare? Sebbene la minaccia nucleare sovietica non corrispondesse a una reale intenzione di ricorrere all’arma atomica, che d’altronde si voleva evitare anche da parte americana, il rischio che l’escalation potesse arrivare a un esito incontrollabile era molto alto. Gli Stati Uniti non erano al corrente della dotazione di bombe atomiche tattiche di cui, oltre ai missili, disponevano le truppe sovietiche sull’isola e alcuni reparti dell’aviazione americana in presenza di particolari condizioni avrebbero potuto prendere l’iniziativa pur in mancanza di ordini in tal senso. Era questa un’evidenza che allarmò la dirigenza sovietica che decise di revocare la facoltà concessa ai vertici militari della spedizione a Cuba di utilizzare tali bombe senza l’assenso di Mosca.
La possibilità che la spirale di azioni e reazioni dell’escalation conducesse allo scontro militare e all’uso dell’atomica e l’eventualità che un incidente, come avvenne con l’abbattimento di un aereo di ricognizione americano U-2 il 27 ottobre, producesse un’accelerazione di un tale processo, rappresentavano le incognite principali che rendevano il rischio molto elevato.
La crisi favorì l’acquisizione della consapevolezza che il potere distruttivo degli arsenali nucleari, anche in una condizione di squilibrio quale era quella del tempo, avrebbe comportato un livello tale di devastazione da rendere certa e inevitabile la reciproca distruzione. Ne derivava che la guerra tra potenze nucleari fosse un’opzione impossibile proprio perché autodistruttiva e apocalittica.
L’enciclica di Giovanni XXIII, Pacem in terris, pubblicata l’11 aprile 1963, esprimeva questo sentire. Il papa scriveva:
«Si diffonde sempre più tra gli esseri umani la persuasione che le eventuali controversie tra i popoli non debbono essere risolte con il ricorso alle armi; ma invece attraverso il negoziato. Vero è che sul terreno storico quella persuasione è piuttosto in rapporto con la forza terribilmente distruttiva delle armi moderne; ed è alimentata dall’orrore che suscita nell’animo anche solo il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi che l’uso di quelle armi apporterebbe alla famiglia umana; per cui riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».
Lo studioso di storia è consapevole che il ricorso ai precedenti storici è sovente fuorviante, perché la storia non si ripete. Tuttavia credo che dall’analisi di quanto avvenne in quei 13 giorni dell’ottobre 1962 si possano trarre elementi di riflessione utili per un tempo come il nostro in cui il mondo si è pericolosamente avvicinato all’orlo della catastrofe nucleare.