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Tarek Mitri

Rettore, Università San Giorgio di Beirut, Libano
 biografia

Le nazioni che si trovano sul Mediterraneo sono diventate largamente plurali. Indipendentemente da come i loro governi gestiscono il pluralismo, all’interno delle società il dialogo e l’interazione nella vita quotidiana sono diventati inevitabili, anche se spesso fragili. Non si può ignorare il pervasivo risorgere del nazionalismo, del campanilismo e del populismo. Decisamente, le politiche identitarie sono spesso diventate una determinante fondamentale nelle relazioni all’interno e tra le nazioni. Nello sconcerto di molti credenti, la religione viene sempre più strumentalizzata nella mobilitazione politica, esagerando le paure o re-inventando il cosiddetto odio ancestrale tra le comunità. Nelle mie brevi considerazioni, tenterò di riflettere su come l’appartenenza alla regione mediterranea potrebbe tratteggiare politiche di leale vicinato. 

Certo, l’aspirazione a veder diventare il Mediterraneo un lago di pace, come Robert Schuman aveva propugnato, non è irreversibilmente in declino. Ma non ha suscitato una politica duratura e neppure un principio di speranza. Oggi, il Mediterraneo è un lago di fiamme, di sangue e di lacrime. Piuttosto che avvicinare le persone, sembra, agli occhi di molti, un mare di divisione. È vero che ci sono stati molti promettenti tentativi di dialogo e di cooperazione attraverso il Mediterraneo. Molti [di essi] parrebbero falliti. Si direbbe che siamo passati da partnership motivate dal bene comune a relazioni interstatali condizionate da considerazioni di sicurezza. 

Una delle primissime espressioni politiche della ricerca della pace nel Mediterraneo si è centrata sul perseguimento di una pace giusta e duratura in Medio Oriente. Nel 1980, il Consiglio Europeo ha adottato la dichiarazione di Venezia, che riconosceva i diritti del popolo palestinese come nazione e sosteneva un’equa sistemazione a livello regionale. Quindici anni più tardi, il Processo di Barcellona, insieme alla politica di vicinato, sperava di creare una zona euro-mediterranea di prosperità condivisa, oltre che di libero commercio. Ma la componente politica del processo non è stata in grado di dar vita a nuove realtà. 

Al contrario, c’è stata una chiusura delle frontiere, sia reali che immaginarie, nel periodo successivo all’11 settembre 2001. Agli occhi di molti, il Mediterraneo non era più considerato uno spazio in cui le divergenze potevano essere appianate. Esso separava i Paesi e le persone piuttosto che avvicinarli di più l’un l’altro. I problemi dell’immigrazione e del terrorismo hanno diviso ancor più le due sponde. Le questioni della sicurezza sono risultate dominanti e non sono state affrontate in una logica di autentica partnership. 

Oggi, ci troviamo di fronte a un doppio fallimento. Da una parte, le nazioni arabe hanno fallito la transizione democratica che le rivolte del 2011 avevano fatto sperare. Dall’altra, le nazioni europee non sono riuscite ad influenzare favorevolmente quella stessa transizione e si sono ritratte in un atteggiamento difensivo contro le ripercussioni della violenza e il flusso di rifugiati. Ci siamo allontanati da una cultura di cooperazione tra vicini, di reciproca utilità e, cosa più importante, basata su valori condivisi, in direzione di un maggior ripiegamento, provincialismo e chiusura mentale. La paura del terrorismo e le strategie dell’anti-terrorismo hanno aggravato la crisi dei rifugiati e il molto paventato e mal gestito problema dei rifugiati. Tali problemi hanno messo in ombra gli scambi e l’amicizia. Non possiamo sottovalutare lo sviluppo del nesso migrazioni-sicurezza. Il terrorismo ha provocato l’inserimento delle questioni legate all’immigrazione nell’agenda dell’anti-terrorismo.

L’Europa sta affrontando un numero record di migranti, di richiedenti asilo e di rifugiati. Ciò ha innescato più gravi difficoltà nella gestione di questi flussi, testimoniate dalla detenzione in massa dei nuovi arrivati, dalla mancanza di organizzazione e risorse nei campi profughi, dai negoziati bilaterali con le nazioni di transito, dall’incremento delle reti di traffico di esseri umani e dalla mancanza di solidarietà. 

Più in generale, la politica identitaria ha cessato di essere un indicatore delle società tradizionali del Sud, essa sta vieppiù attaccando le fondamenta stesse delle democrazie basate sulla cittadinanza e sullo stato di diritto. La determinazione ad incoraggiare partecipazione ed inclusione si è seriamente ridotta. 

Non c’è un modello universale da emulare, caso dovessimo vivere insieme in pace al di sopra delle linee di divisione. Le storie specifiche delle nostre nazioni determinano le molte e differenti condizioni dell’armonia intercomunitaria. In sé, i sistemi politici non costituiscono garanzie. Oggi, le culture politiche e le strategie di mobilitazione mettono a rischio le nostre capacità di attingere alle ricchezze del pluralismo.  

Credo che ci sia un certo numero di questioni che determinano il futuro della convivenza. La pace in Medio Oriente, o la sua mancanza, non possono essere lasciate al cosiddetto “accordo del secolo” [il piano Trump per la Palestina, NdT]. L’Europa non può rinunciare al suo ruolo, per quanto sia difficile, per porre fine alla perdurante politica di colonizzazione ed annessione. 

Le relazioni euro-mediterranee risultano gravemente danneggiate, se si focalizzano, in maniera esagerata, sul contrasto al terrorismo e sulla protezione delle frontiere contro un maggior numero di rifugiati. Hanno bisogno di recuperare un’utopia, non nel senso di un sogno impossibile ma come un principio di speranza, di ricostruzione del vicinato sulla base di valori condivisi. È vero che i valori condivisi non sono dati una volta per tutte, la loro riscoperta e ricognizione è un processo, creativo e talvolta arduo. 

A questo riguardo, le persone di fede hanno un ruolo impareggiabile nel ristabilimento del primato dell’etica universale sull’affermazione dell’identità. Papa Francesco continua a ricordarci questo imperativo. Più in particolare, ci ricorda che i rifugiati sono in pericolo piuttosto che essere, di per sé, un pericolo. Egli critica energicamente la tendenza a creare un maggior isolamento in nome della sovranità, col rischio di bloccare i coraggiosi sogni dei fondatori dell’Europa.

La metafora del giardino e della giungla (Borrell)  mi ha fatto pensare ad un’altra metafora: quella dell’ulivo. Esso è stato associato alle affinità e agli scambi attraverso il Mediterraneo. Fernand Braudel ha detto: laddove l’ulivo si ritira finisce il Mediterraneo. Ma c’è anche un significato simbolico, e oserei dire spirituale, della metafora dell’ulivo. Nelle Scritture, l’ulivo è correlato alla luce. Nelle parole del profeta Zaccaria e nel libro dell’Apocalisse, leggiamo di alberi di ulivo e di candelabri. Nella Sura della Luce del Corano, l’ulivo non è né orientale nè occidentale, il suo olio è come illuminante, sebbene non toccato dal fuoco.

Possano i nostri ulivi, qui e laggiù, fiorire di grazia.